Teologia e tradimento: storicismo antistoricista

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dianich-teologi

Mi inserisco nel dialogo suscitato dagli interessanti articoli di Dianich, Neri e Grillo pubblicati su SettimanaNews. Credo che questi colleghi pongano al centro del dibattito teologico due questioni: la storicità del fatto cristiano rispetto a una concezione metafisica/obiettivista dello stesso (solitamente congiunta ad una pretesa linearità del suo sviluppo); la storicità dei suoi tradenti, magistero gerarchico incluso.

Sono questioni che richiamano implicazioni epistemologiche di fondo e che ritengo debbano essere discusse e approfondite se non si vuol far della teologia «la cosa peggiore che si possa immaginare, la caricatura di se stessa», per riprendere una citazione di K. Barth che Grillo riporta al termine del suo articolo.

Non mi sembra azzardato dire che tali questioni incrocino le sollecitazioni che papa Francesco ha rivolto ai teologi in occasione dell’approvazione dei nuovi statuti della Pontificia Accademia di Teologia. Il papa scrive: «L’apertura al mondo, all’uomo nella concretezza della sua situazione esistenziale, con le sue problematiche, le sue ferite, le sue sfide, le sue potenzialità, non può però ridursi ad atteggiamento “tattico”, adattando estrinsecamente contenuti ormai cristallizzati a nuove situazioni, ma deve sollecitare la teologia a un ripensamento epistemologico e metodologico»[1].

Di fronte a queste parole mi chiedo francamente se gli stessi teologi, oltre a decantare come slogans alcune citazioni di papa Francesco (una fra tutte l’importanza della inter e transdisciplinarietà[2]), si rendano davvero conto del potenziale critico che si addensa in queste espressioni.

Il papa sta qui prospettando una riscrittura “epistemologica” della teologia e non un restyling di facciata. Per parte mia provo qui solo a toccare brevemente le due questioni ora menzionate, accogliendo così l’invito che sempre papa Francesco ha rivolto ai teologi quando ha parlato del compito di «rivisitare e reinterrogare continuamente la tradizione»[3].

Il seme e la spiga?

La prima questione riguarda lo statuto del fatto cristiano o Vangelo[4] e della sua trasmissione. A tal proposito le scienze sociali ci ricordano che la tradizione va interrogata a partire dalla consapevolezza che ci troviamo di fronte ad un fenomeno intrecciato con una costruzione culturale e sociale (anche quando si è riferita ad essa in senso polemico), e che, proprio per questo motivo, essa è in grado di mettere in circolo ambizioni, progetti, pulsioni.

Purtroppo, come scrive Grillo nel suo articolo, «un’autocomprensione rigidamente antimodernistica della Chiesa cattolica genera paralisi della tradizione e tradimento della propria identità».

Tra le varie forme di paralisi vi è quel dispositivo che io denomino con l’espressione essentia involvit existentiam, ovvero dove il Vangelo si dà come quella verità che, almeno nella sua essenza e/o nel suo significato primordiale, risulta ormai nitida e assoluta (separata).

Coerentemente con questa impostazione, potremmo dire che il seme (verità) ha sì bisogno del terreno (storia), ma semplicemente per diventare ciò che già è. In pratica, la vita umana (cultura, società) è il palcoscenico dove si inscena una verità altrimenti nota; pertanto, essa non potrà mai assurgere a luogo attraverso cui “accade” qualcosa.

A questo punto, occorre però porsi la domanda: perché dobbiamo metterci in ascolto di ciò che lo Spirito suggerisce ai credenti nella storia? Cosa dobbiamo discernere? Non sarebbe più coerente puntare all’applicazione di un insieme di dottrine, così da far rientrare l’esperienza credente dentro un sistema già preconfezionato?

D’altra parte, è in questo dispositivo che viene a costruirsi una certa concezione della tradizione cristiana[5] (mirabilmente espressa in alcuni documenti magisteriali), la quale, grazie a tale premessa, può saltare a piè pagina il compito (per usare un’espressione di R. Koselleck) di elaborare una “semantica dei tempi storici”.

E così, concetti come sviluppo ed evoluzione del dogma, progresso dottrinale etc., prendono la piega di un “continuismo” a tutti i costi (compreso quello di sottacere le discontinuità e di spostare, mediante artifici retorici, alcuni nodi centrali per il futuro della vita della Chiesa). Aggiungo che, dovendo servire a questa impostazione, il metodo teologico da adoperarsi non potrà che essere quello asfitticamente sistematico. A tale scopo, il trattato o il manuale teologico risulteranno i più efficaci alleati[6].

Osservare la battaglia da un punto di vista superiore?

Proprio in riferimento al dibattito epistemologico e al lavoro interdisciplinare, diciamo subito che la teologia, se non vuole vivere nella e della sua “miseria”[7], deve entrare in reale dialogo non solo con la metodologia storica contemporanea, ma anche con le ricerche della linguistica e della semiotica in merito allo studio delle regole che presiedono alle formazioni discorsive.

Nelle sue indagini il teologo è così messo di fronte al compito di considerare chi parla (chi si assume la responsabilità dell’enunciato), da dove parla (il luogo), che tipo di scrittura produce. Le moderne scienze sociali ci dicono infatti che non si dà un punto di vista universale fuori dalla mischia delle prospettive, una voce che non provenga da un luogo, un enunciato che non sia il frutto di una costruzione.

Ma è proprio questo l’empasse a cui il magistero e una certa teologia vorrebbero sottrarsi. A tal proposito, già nel 1973 (cioè nemmeno un decennio dopo il Vaticano II), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Mysterium ecclesiae sosteneva che le verità del sacro magistero (interessante l’utilizzo del plurale, in linea con una concezione dottrinalista e teorico-istruttiva della rivelazione!) e le formule dogmatiche con cui la Chiesa insegna «si distinguono dalle mutevoli concezioni di una determinata epoca e poss[o]no essere espresse anche senza di esse»[8].

Questo riferimento (ma ce ne sarebbero altri) mostra efficacemente il doppio livello in cui si muovono alcune posizioni magisteriali e teologiche: “anti-storiciste” nella loro esposizione esterna, “storiciste” nelle loro motivazioni interne[9], perché strettamente legate al contesto storico in cui sono sorte e a cui intendono rispondere.

Si vedano, solo per fare alcuni esempi, l’insistenza sulla definitività di alcune dottrine che si vorrebbero ricavare per mezzo di necessità storiche e/o di ragione; una certa lettura della legge naturale posta in contrapposizione con l’autonomia del soggetto; la riproposizione di un’armonia tra fede e ragione (quest’ultima sempre al singolare); l’insistenza sulla continuità a tutti i costi della storia della Chiesa e delle sue posizioni dottrinali; le dichiarazioni di un non possumus in merito ad alcune questioni ecclesiali centrali etc.

Ora questi temi, nelle loro intenzioni di fondo, iniziano a imporsi a partire da un certo momento storico[10], quando cioè la Chiesa comincia ad avvertire diversi cambiamenti nella società occidentale: scristianizzazione, perdita del peso politico delle Chiese nella società, autonomia della scienza etc.

A fronte di questa situazione, la gerarchia ecclesiastica avverte il timore di perdere il suo ascendente/potere sulla società, e risponde elaborando una serie di condanne e avversioni per tutto ciò che non passa più attraverso il suo controllo. Questa situazione si è accresciuta nel periodo del post-concilio, ovvero in un contesto in cui la fine della cristianità è diventata ormai un dato di fatto.

Dunque, il magistero, oggi come ieri, ha assunto una particolare “postura” storica. Tuttavia, ed è qui il problema, mal digerisce l’essere collocata in un luogo (Occidente), venirle attribuito un certo linguaggio e una teologia costruita su puntelli metafisici e ontologici. Essa, al contrario, intende ancora apparire come quell’organo universale, perché non soggetto a particolarità e dunque coestensivo ad una verità assoluta (cioè sciolta da ogni contaminazione).

Da qui il suo “anti-storicismo” nelle asserzioni esterne. Tale insofferenza del magistero ad essere collocata (o a volersi collocare) in un ambito regionale/prospettico, la possiamo cogliere nell’affermazione della Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Donum veritatis (1990) che stigmatizza come relativista la concezione teologica secondo cui «gli interventi magisteriali avrebbero la loro origine in una teologia fra molte altre, mentre nessuna teologia particolare può pretendere di imporsi universalmente»[11].

Inoltre, per presentare l’insegnamento magisteriale come compatto nonostante numerosi secoli di storia, diversi documenti magisteriali, accanto ad una ripetuta menzione dell’assistenza dello Spirito Santo[12] molto simile ad un agente in grado di blindare la Chiesa nei confronti delle intemperie e asperità della vita, operano un’esegesi “estensiva”[13] – come scrive Ruggieri – del magistero esposto in LG 25, così da dilatarne la normatività in campi sempre più vasti.

Ora, nessuno nega che il compito del magistero sia di rivolgersi a tutta la Chiesa. Tale compito però lo si può fare o dichiarando le proprie premesse particolari (prospettivismo) e cercando così di compiere una universalizz-azione del proprio insegnamento[14], oppure considerandosi come l’eco di una verità universale (nel senso di universalismo) che non conosce contestualità, perché isomorfo ad una verità che si dispiega al di sopra delle particolarità.

***

Non intendo minimamente concludere quanto ho semplicemente abbozzato grazie soprattutto alla veracità degli interventi dei colleghi che mi hanno preceduto. Chiudo solo con una battuta. Riconoscere il proprio storicismo sarebbe un atto di onestà: significherebbe rifuggire dalla tentazione del potere, per accogliere l’invito a vivere il Vangelo nella compagnia con le donne e gli uomini di oggi.

Potremo allora superare quella “schizofrenia della teologia traditrice” evidenziata da Neri, e potremmo altresì rispondere alla domanda che Theobald ha formulato in questi termini: «la presa in considerazione degli sviluppi e delle fratture culturali è costitutiva per la recezione e la trasmissione creativa della tradizione, e quindi per un ascolto attuale della “voce” di Dio?»[15].


[1] Francesco, Ad theologiam promovendam, Città del Vaticano 2023, n. 3.

[2] Cf. Francesco, Veritatis gaudium, Città del Vaticano 2018, 4.

[3] Il contesto è quello del discorso tenuto dal pontefice a Napoli il 21 giugno del 2019, in occasione dell’incontro organizzato dalla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale sul pro­getto di una teologia per il Mediterraneo: Francesco, La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo, in S. Bongiovanni, S. Tanzarella (ed.), Con tutti i naufraghi della storia. La teologia dopo Veritatis gaudium nel contesto del Mediterraneo, Il Pozzo di Gia­cobbe, Trapani 2019, p. 228).

[4] Preferisco questi termini a quello di “rivelazione” che ritengo contenga già i caratteri dell’astrattezza. Non a caso, come ampiamente mostrato da alcuni studi di storia della teologia fondamentale, questo termine è stato forgiato nella modernità e risponde alle istanze di quel periodo storico.

[5] Mi perdonino i lettori per la sbrigatività con cui ho espresso questo concetto. Per gli approfondimenti rimando ai lavori di alcuni teologi come Seewald, Theobald, Ruggieri, Grillo, Gisel. Per il dibattito epistemologico rimando anche al mio recente volume Produzioni dell’origine, Filosofia e teologia a confronto, Aracne, Roma 2024.

[6] Che si tratti di un imprinting del mondo culturale e accademico cattolico tout court lo si può notare anche dalle osservazioni critiche che lo storico della filosofia Paolo Rossi avanzava decenni addietro nei confronti della filosofia cattolica: cf. P. Rossi, Storia e filosofia. Saggi sulla storiografia filosofica, Einaudi, 1969, 70 ss.

[7] Ripendo l’aggettivo con riferimento al contributo del 1973 di Michel de Certeau, “La miseria della teologia”, pubblicato in seguito nella raccolta La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2020 (ed. or. 1987), 221 ss.

[8] Cf. Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione Mysterium fidei circa la dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla dagli errori d’oggi (1973), in EV 4/2576. Che la storia non abbia niente a che fare con questo discorso non è propriamente vero, ma semplicemente nel senso che l’unico fastidio che essa può arrecare al Vangelo (ma fino a un certo punto) riguarda la mutevolezza di alcune formulazioni. Già nel 1973 (cioè nemmeno un decennio dopo il Vaticano II), la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede Mysterium ecclesiae si guardava bene dall’assegnarle un ruolo determinante quanto al fatto cristiano (Vangelo/rivelazione), ma, al tempo stesso, concedeva alla storia (vista però nel suo conturbante aspetto di limitatezza, pluralismo, precarietà, regionalismo) un influsso quanto alle forme espressive della rivelazione (cf. EV 4/2577).

[9] Naturalmente adopero qui i termini storicismo e antistoricismo in senso generale, volendo semplicemente sottolineare la costituzione storica del mondo umano (cf. Dilthey, Troeltsch, Meinecke) o la sua sottodeterminazione in nome di un giusnaturalismo e di universalismo metafisico, senza però entrare nel dibattito specifico circa il senso di queste espressioni.

[10] Sebbene preparate dal clima di contrapposizione alla Riforma, potremmo genericamente indicare nella Mirari vos di Gregorio XVI (1832) il punto di partenza della restaurazione cattolica.

[11] Congregazione per la dottrina della fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (1990), EV 12/289. Sempre questo documento sostiene che «l’insegnamento del magistero – grazie all’assistenza divina – vale al di là dell’argomentazione, talvolta desunta da una teologia particolare, di cui esso si serve» (EV 12/290).

[12] Per una più ampia riflessione sul binomio “ispirazione-assistenza” dello Spirito Santo rimando a C. Theobald, «Seguendo le orme …» della Dei Verbum, EDB, Bologna 2011.

[13] Cf. G. Ruggieri, «La politica dottrinale della curia romana nel postconcilio», in Cristianesimo nella storia 21 (2000) 124.

[14] Mi sembra questa una ricaduta di quella autorità epistemica prospettata da M. Seewald, Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti, Queriniana, Brescia 2022, 79 ss. Sull’impianto filosofico di questa operazione di universalizzazione ben diversa da una posizione monistico-universale, si rimanda a P. Piovani, Filosofia e storia delle idee, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2010 (ed. or. 1965).

[15] C. Theobald, Spirito di santità. Genesi di una teologia sistematica, EDB, Bologna 2017, 227.

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2 Commenti

  1. Salvo Coco 7 settembre 2024
  2. Fabio Cittadini 7 settembre 2024

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