L’Università va intesa non solo come luogo di istruzione e di ricerca, ma come uno spazio vitale per la cura delle persone e del mondo. Ciò che conta non è riempire i giovani di informazioni, ma fornire loro gli strumenti utili a conoscere sé stessi, per poi prendersi cura di sé e del mondo[1].
Vi possono svolgere il mestiere di docente coloro che si mettono alla prova nel costruire un ambiente relazionale fecondo, all’interno del quale ciò che si insegna viene scelto perché serve alle persone in ascolto, non in astratto con programmi di cui le tre domandine dell’esame di fine corso sono spesso il deludente distillato.
Questo si realizza non trasmettendo un sapere già dato e cristallizzato, ma nel rendere l’altro autonomo nella ricerca dei percorsi ritenuti più significativi (i programmi sono la cornice non il quadro). La didattica deve rispondere all’unicità dell’allievo e adeguarsi a ciò che gli serve per costruire la propria personalità intellettuale.
Non siamo contrari ai programmi, che hanno anzi una loro indiscussa utilità nell’impostazione del rapporto didattico. Dev’essere però chiaro che sono i programmi a doversi adattare all’uomo, non l’uomo ai programmi (non sarebbe ora di introdurre percorsi con delle opzioni?), anche perché, non si dà didattica senza relazione interattiva.
Nessuna tecnica didattica diventa vita se non è frutto di una scelta indirizzata a dare la miglior forma possibile all’esserci dell’altro. Educare è rendere l’altro maestro di sé stesso, perché lo si è portato a far maturare un maestro interiore: colui che sa come e dove procurarsi ciò che serve alla propria vocazione per crescere.
«L’uomo colto non è colui che sa quando è nato Napoleone, ma colui che sa dove andare a cercare l’informazione nell’unico momento della sua vita in cui gli serve, e in due minuti» diceva Umberto Eco e questo vale per l’informazione come per la vita. E non c’è passione capace di muovere una persona alla conoscenza più della scoperta di poter dare forma, in prima persona, alla propria esistenza «in formazione».
Maturità
Il frutto si dice maturo quando non è acerbo né marcio, ma compiuto. Maturo non è chi raggiunge un’età o passa un esame, ma chi, ciclicamente, porta frutto, come il grano che, seminato in autunno, germinato in inverno, cresciuto in primavera, colto in estate, ci nutre poi per tutto l’anno. Quali costanti ha quindi la maturità ad ogni livello ed età della vita?
La maturità ha tre caratteristiche: vocazione, tempo, lavoro.
L’aiuto del mentore deve mostrare come la vocazione sia un seme e come la cultura abbia il fine di aiutare a rispondere alla domanda: quale frutto posso dare io?
Per riuscirci i ragazzi hanno bisogno di realizzare idee, progetti, sogni, creazioni (i frutti della vocazione). Questo dato, unito al lavoro personale e dei mentori, fanno un destino: si attinge all’inesauribile fonte di energia che sta a fondamento di ogni cosa viva, un’energia che i giovani a volte non riescono a far fluire, come un seme che, non messo «in condizione», «a terra», non si apre.
Passando alla questione del tempo, oggi l’accelerazione tecnologica ha destrutturato, più di ogni altra, questa dimensione dell’essere viventi. La tecnologia espelle il tempo dalle cose vive, che vogliamo «a tempo zero», ma se il tempo è zero anche l’essere si azzera (forse accelerando a velocità doppia una canzone me la godo di più?). La destrutturazione del tempo è evidente nei primi due cicli di crescita: bambini adultizzati e giovani bambinizzati non maturano.
I nostri percorsi di crescita forzano i tempi o li destrutturano, in nome di una falsa libertà (fai ciò che vuoi/senti) e di una folle produttività (fai «carriera» invece di fai «destino»). Infatti poi, non essendo maturati, non vogliamo invecchiare, proviamo a fermare il tempo come la tecnologia ci ha educato a fare: adoriamo la giovinezza, ma odiamo i giovani a cui non passiamo la vita. Come esser felici, cioè dare frutto, senza vocazione e tempo, senza destino?
Ansia e paralisi
È necessario allentare l’ansia da prestazione e «raccoglierci» su ciò che conta, cioè rispondere alla domanda: perché sono venuto al mondo? Che frutto posso portare io? Come nutrirò gli altri? Si impone un ripensamento delle tradizionali modalità didattiche: l’attuale generazione di docenti deve ricalibrare il rapporto con gli allievi, tenendo conto sia delle pulsioni centrifughe che sconvolgono l’anima giovanile, sia delle realistiche prospettive professionali offerte da una società in progressiva trasformazione.
Quando nella Commedia il poeta Dante arriva al fondo dell’inferno, contrariamente a quanto ci aspetteremmo, non ci sono fuoco e fiamme, ma una distesa gelata in cui i dannati sono incastrati. Il ghiaccio è generato dalle immense ali di Lucifero che con il loro movimento gelano l’acqua del fiume Cocito in cui sono immersi i peggiori peccatori, tra i quali il conte Ugolino.
Dante sa che all’opposto dell’amore, a cui attribuisce sempre il verbo muovere, non c’è l’odio ma il controllo e la paralisi: dove l’amore è assente non c’è iniziativa e creatività. Questa condizione di gelo infernale tocca molti ragazzi e non solo: cuori gelati dal disamore, menti irrigidite dalla paura o ipereccitate da fredde tecnologie, corpi assiderati dalla solitudine. Come perdiamo l’amore e quindi la capacità di andare incontro alla vita per scoprire la nostra vocazione?
Una cultura incline a rappresentare un mondo che fa schifo (malattie, guerre, violenza…) ostacolando al contempo la possibilità di cambiarlo è una cultura del controllo e della paralisi. Gli esiti, soprattutto sui giovani, sono due: ripiegarsi sul proprio malessere vivendo nel tentativo di lenirlo oppure partecipare alla distruzione, rivolgendola contro se stessi o contro gli altri.
Ne abbiamo evidenza nelle diverse forme scelte dai giovani per anestetizzare il proprio dolore (alcol e droghe, in primis). Un dolore «anestetizzato» non trova esito creativo, come accade ad alcuni dei dannati danteschi che, con la testa rovesciata indietro, piangono lacrime che si cristallizzano nelle orbite oculari in una visiera di ghiaccio che impedisce alle successive di uscire, moltiplicando la sofferenza.
Crisi educative
Vediamo sparire ciò che caratterizza l’uomo e soprattutto i giovani: la capacità creativa, cioè slancio e impegno per cambiare il mondo, inventando il nuovo, proprio perché ciò che si ha attorno non piace, non basta, fa soffrire. In molti giovani il dolore non si trasforma in lotta o almeno in domanda inquieta.
Eppure proprio quel dolore, se non venisse disattivato, diventerebbe essenziale per trovare la vocazione o, come si dice in giapponese, l’ikigai (far coincidere ciò che sai fare, ciò che ami fare, il condividerlo a beneficio degli altri e guadagnarsi da vivere con questo, insomma «il motore della vita»).
Le crisi di destini sono crisi educative: famiglia e istituzioni preposte alla formazione servono proprio a far fiorire l’ikigai di ciascuno. Il report «Impossibile 2022»[2] per i diritti dei minori, presentato a Roma da Save the children, ha evidenziato che in Italia alla povertà materiale (1,3 milioni di bambini in povertà assoluta) si associa quella educativa: il 51% dei giovani non comprende il significato di un testo e non sa sviluppare un ragionamento.
Non sono cose che capitano per caso: in Italia la spesa welfare per i minori è solo il 2% (la media europea è il doppio), e siamo l’ultimo Paese dell’UE per spesa pubblica totale a favore dell’istruzione (l’Europa ci piace solo per certe scelte e infatti la spesa per la Difesa è perfettamente nella media europea). L’ISTAT ha rilevato nel recente Rapporto sul Benessere che in Italia un giovane su quattro tra 15 e 29 anni non studia né lavora: primato negativo in UE. Inoltre gli Italiani di 30-34 anni in possesso di un titolo di studio terziario (università e corsi post-diploma) sono il 27% contro il 41% dei coetanei europei.
Un Paese con un impegno (welfare e istruzione) insufficiente per i minori va in bancarotta di vocazioni. La situazione è peggiorata ulteriormente, nell’ultimo periodo, per quella che è stata definita «implosione cognitiva» dei giovani, frutto della combinazione di: confinamento, dad, uso dei social, ore di sonno perdute e diminuzione dei rapporti con i pari. Quando la vita viene paralizzata e non incoraggiata, il gelo cala su cuori e teste. Si ha l’illusione della libertà perché si possono scegliere mille cose online e nel metaverso, mentre l’universo interiore è congelato.
Il contrario del ghiaccio è il calore delle relazioni che fanno da grembo al nostro sé autentico, a qualsiasi età. La fame di nascere è più radicale della paura di morire, ma se quest’ultima prevale il problema è culturale: interiorizziamo a tal punto la morte che la preferiamo alla vita, ci sentiamo in colpa di vivere e diventiamo incapaci di movimento. Ci vuole una ribellione prima di tutto interiore che parta proprio dal dolore per trasformarlo in azione, come bisognava fare all’università.
Segnali positivi
Occorre mettere in discussione: una politica incapace di prendersi cura dei cittadini nei luoghi che ne sono la manifestazione più evidente (luoghi dedicati alla formazione, per esempio); una televisione ridotta a un’arena di identità che si definiscono attraverso lo scontro (dal reality al talk show passando per il talent); una università che non aiuta a prendersi cura di sé e del mondo, non basando la maturazione sulla vocazione che fiorisce ma sulla quantificazione del sapere e quindi sulla competizione; la parte dei social che spinge a costruire l’identità a partire dall’invidia.
Il panorama può sembrare cupo ma ci sono già buone notizie, si sta dimostrando insostenibile la cultura del controllo, illusione moderna che pretende di realizzare la vita, individuale e sociale, attraverso il dominio (dell’anima, dell’altro, della natura). Urge invece incoraggiare una cultura della libertà attraverso le relazioni reali e sane in cui l’espressione «sono libero» non sia più sinonimo di «sono single», ma di «sono impegnato», proprio perché amando ed essendo amati il sé autentico trova la propria strada tra le mille menzogne e illusioni che promettono felicità al prezzo del controllo.
In un tempo come il nostro, dominato dall’individualismo, non siamo più abituati a leggere la vita a partire dalle relazioni. E molto spesso vogliamo cercare solo dentro di noi, nella solitudine del nostro io, la motivazione per reagire, per poter fare la scelta giusta. Solo e soltanto quando la nostra vita entra in contatto con un amore diverso dal nostro io, lì scatta quella responsabilità che ci fa fare delle scelte che normalmente non faremmo. E se la prima cosa da fare è reagire, noi reagiamo sempre per amore di qualcuno o di qualcosa.
Lo conferma Dante che, più si avvicina all’Amor che move il Sole e l’altre stelle, più vedrà uno scenario opposto a quello della paralisi glaciale: danza e coralità aumentano passo dopo passo. L’opposto del cuore di ghiaccio è un cuore danzante: quando smettiamo di danzare, individualmente e socialmente, è perché abbiamo preferito il Controllo, che ci toglie la fatica di diventare noi stessi, all’Amore che invece liberi ci rende veramente, perché ci dà il coraggio di diventare noi stessi, costi quel che costi.
Una università «meravigliosa»
L’educazione e la ricerca servono a trovare il coraggio per liberarsi dai fili che ci imprigionano: diventare sempre più liberi è il compito di una buona iniziazione, cioè capaci di ricevere il mondo, custodirlo e moltiplicarlo, liberi in latino erano i figli capaci di ereditare. Ma quale mondo diamo in eredità?
Educare è mettere in condizione, negli anni fatti per questo, di scegliere consapevolmente se essere figli o burattini. Lo facciamo? Se l’iniziazione non conduce sulla soglia di questa scelta, che poi si ripresenterà periodicamente nel corso della vita e si potrà affrontare sempre alla luce della prima riuscita, è perché vogliamo «servi» non «liberi».
L’alternativa ad una università noiosa è una università «meravigliosa», cioè capace di destare l’interesse attraverso la meraviglia. Già Aristotele descriveva così questo sentimento capace di unificare sensi, cuore e mente:
«gli uomini hanno cominciato a filosofare a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere».[3].
La realtà è una promessa di sapere che aggancia attraverso la meraviglia, capace di generare una ricerca (un girare attorno all’oggetto: ri-circa) di tipo sapienziale o scientifico, come dice Aristotele.
Oggi per trovare e conservare immagini di destino capaci di guidarci in porto dobbiamo praticare un certo digiuno immaginativo e il silenzio dell’attenzione. Solo così riusciamo a ricevere immagini che ci fanno entrare in risonanza, ci risvegliano, perché sono richiami del futuro che è già dentro di noi, ma che ha bisogno di darsi un volto. Sono immagini che vanno coltivate, approfondite, interrogate… appendendole, come poster, alle pareti dell’anima. Ognuno di noi ha una costellazione di immagini guida, che lo voglia o no. Ma la rotta va impostata seguendo le stelle giuste, altrimenti sarà un dis-astro (la stella contro). Quali sono le nostre? Solo così potremo abbracciare destini che diventano destinazioni e non naufragi.
Bruna Capparelli è professoressa associata di Diritto e procedura penale presso l’Università Autonoma di Lisbona
[1] Cf. B. Capparelli, Giovani, protagonisti del futuro, in Avvenire – Bologna Sette, Opinioni, 7 aprile 2024, p. 4, disponibile ad accesso aperto a questo link; ultimo accesso: 1 settembre 2024.
[2] Disponibile on line a questo link; ultimo accesso: 1 settembre 2023.
[3] Aristotele – Metafisica, I, 2, 982b12-20, Meraviglia II.