Il silenzio può voler dire tante cose, può essere anche un comando evangelico che Gesù impone a diversi personaggi guariti da Gesù, come ascolteremo nella XXIII domenica dell’anno B. Gesù impone di “Non dirlo”, al sordomuto guarito. L’esegesi biblica e l’interpretazione teologica dovrebbero avvicinarsi nel loro argomentare: l’occasione per entrambi è la partenza narrativa di Marco (e degli altri tre Vangeli).
Gesù stesso si impone di tacere, in particolare nella passione. Impone il silenzio anche ai discepoli dopo la Trasfigurazione. Racconta parabole alle folle e le spiega ai discepoli: a quelli fuori dice, ma non fa capire, a quelli dentro le spiega.
Il silenzio di Gesù e il suo comando di “non dirlo” sono i segni più eclatanti del suo stile ironico, da sé solo, però, dice poco. Solo l’analisi narrativa introduce al modo delle relazioni istaurate da Gesù e gli effetti che essa produce.
Gli esegeti che praticano l’analisi narrativa hanno fatto passi significativi, la teologia al momento la conosce più per le conoscenze storiche su Kierkegaard, che non come risorsa evangelica per la teologia.
Non conoscere l’ironia, alla fine, la si trascura, e quindi diventa una questione che fa perdere tempo. Magari, anche conoscendo i processi del postmoderno, le sue origini proprio con l’ironia e gli sviluppi nel secolo scorso: insomma, si sa che l’ironia nicciana ha fatto tutto questo.
La questione in realtà è un’altra: è possibile considerare l’ironia degna di far parte degli strumenti conoscitivi e praticabili nella produzione del pensiero?
Paolo è il primo a usare l’ironia, dopo i Vangeli e l’Antico Testamento. In questi giorni feriali la liturgia ci fa leggere la Prima Lettera ai Corinti, dove, nel primo e secondo capitolo, fa emergere due coppie di parole “sapiente e stolto” e “potenti e deboli”. Paolo li trae dall’ironia di Gesù e li usa per discernere come si sta in questo mondo, proprio a partire dalla debolezza e stoltezza della croce che «confonde i sapienti e i potenti di questo mondo».
Ma quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre al nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio (1Cor 1,27-29).
L’ironia delle parabole del Regno ha due figure, “quelli fuori e quelli dentro”, la folla e i discepoli, diremmo oggi “non credenti e i credenti”.
Nel Vangelo di Marco, poi, “quelli dentro” sono, però, ancora duri di cuore e tardi a credere. Il card. Martini, che conosceva bene l’evangelista Marco, ha praticato l’ironia di un paradosso, quello per cui ciascuno di noi ha in sé «un non credente e un credente, che si parlano dentro, si interrogano a vicenda, si rimandano continuamente interrogazioni pungenti e inquietanti l’uno all’altro. Il non credente che è in me inquieta il credente che è in me e viceversa».[1] Con queste parole Carlo Maria Martini apriva la Prima Cattedra dei non credenti nel 1987, che poi si terrà ogni anno sino al 2002.
Le due parole “fuori” e “dentro” del Vangelo, a 37 anni da quelle parole di Martini, hanno perso la loro portata ironica a vantaggio di una metaforica di accerchiamento che ci vede protetti “dentro”, dove ci si sente a casa con tutto ciò che la fede cerca quando decide di ritrovare lo sguardo di Dio sull’orizzonte della vita.
«La “vita comune”, nelle nostre contrade, sa sempre più poco della strepitosa rivelazione che ci è consegnata dalla fede seminata da Gesù. E la “vita cristiana”, a sua volta, si consegna dolcemente al suo ripiegamento nella pura devozione di gesti e immagini vagamente connesse al mistero cristiano. Non infierite, però, vi prego, su questo ripiegamento. Che volete che facciano? Gli strumenti – linguistici, liturgici, pastorali, spirituali, culturali – sono quelli che erano a disposizione delle generazioni preconciliari».[2]
Il teologo rivede il panorama delle Chiese d’Europa e constata che i preti sono sempre meno e sono un po’ delusi: «i preti fanno i preti, i religiosi fanno i religiosi, i fedeli fanno i fedeli. Sono più pochi? Certo. E quindi, sono in affanno a riversare tutti i tesori accumulati in questi decenni da una riflessione teologica incredibilmente più ispirata, da una spiritualità straordinariamente più vitale, da una concezione di Chiesa più comunitaria, da un’impostazione della missione più testimoniale. Questa emozionante ricchezza, però, ha battuto moneta soprattutto per il mercato interno: con esigua capacità di circolazione nel mondo degli scambi con l’esterno».
Per concludere, si può dire che la teologia non è l’avventura solitaria di un pensatore, semmai è il frutto di una comunità di confronto e stimolo a fare meglio.
Una teoria coerente dell’ironia rivelatrice della Parola di Dio deve sottrarla all’ossessione dogmatica e morale del fondamentalismo religioso, che rimuove l’atto rivelatore della ripresa critica e assorbe ingenuamente una visione lineare della Parola che satura allo stesso modo tutto il Testo.
[1] Papa Francesco, dalla Prefazione a “Le cattedre dei non credenti”, Bompiani, 2015, p. 18.
[2] P. Sequeri, “Uscire dalla nevrosi ecclesiogena: raccontiamo la Chiesa com’è” in AVVENIRE lunedì 5 febbraio 2024
A mio parere ottima la sottolineatura della dimensione ecclesiale/comunitaria del teologo perché lo pone, per utilizzare un linguaggio francescano, “in uscita”, non chiuso nel suo solipsitico teologizzare. Tuttavia si pone il problema o meglio la domanda: “cosa oggi sente la Chiesa?”. Questo forse dovrebbe portare i teologi a sprofondare nel cuore delle vicende domande, come direbbe Delbrêl (“dans l’épaisseur du monde” cito forse sbagliando). Devo constatare che trovo più teologia in luoghi dove teologia apparentemente non si fa. C’è più teologia oggi per esempio in un don Milani che altrove. Forse oltre al sentire con la Chiesa, manca proprio il sentire.
Condivido il commento di Fabio, resta però il fatto che la ricchezza della spiritualità evangelica e della teologia “non ha però rendita: e pochissimo scambio”.