La storia che non c’è: Compiuta Donzella

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compiuta donzella

Il mondo c’è se lo raccontiamo. Le storie e le vite che non abbiamo raccontato sono come scie lasciate da una barchetta sulla superficie del mare – il tempo di un’onda, e non rimane più nulla.

Cerco fra le pagine di libri poco letti storie quasi dimenticate, svaporate per trascuratezza, volutamente cancellate. Storie di donne che hanno osato il gesto che lascia tracce – donne che non solo hanno pensato, ma che hanno scritto i loro pensieri.

Cerco le tracce della storia che non c’è, della storia che avrebbe potuto non esserci, e la racconto. Vorrei dare ancora un po’ di vita a chi è lì lì per scomparire tra le increspature del mare della Storia.

Un manoscritto medievale

All’inizio della storia della letteratura italiana c’è un preziosissimo codice manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana, il Canzoniere Vaticano Latino 3793, uno dei principali testimoni della nostra lirica delle origini.[1]

È un codice di medie dimensioni, realizzato a Firenze tra la fine del Duecento e gli inizi del Trecento. I paleografi hanno individuato l’alternarsi, all’interno del manoscritto, di una quindicina di grafie diverse, appartenenti a scrivani non professionisti.

Plausibilmente dietro la prima mano si cela lo stesso committente, un mercante-banchiere appartenente a quel ceto mercantile che, nella Firenze dell’autunno del Medioevo, si stava affermando con vigorosa energia non solo sul piano economico e sociopolitico, ma anche su quello culturale.

Il codice, composto da ventiquattro fascicoli, è diviso in due parti, sulla base del criterio metrico tipico dei canzonieri provenzali: nella prima parte le canzoni, più di trecento, nella seconda i sonetti. Al criterio metrico si associa il criterio storiografico, volto a tracciare un percorso ideale che, dai poeti siciliani attraverso i siculo-toscani, arriva a lambire Dante.

Sono quasi mille i componimenti poetici trascritti nel Vaticano Latino 3793. Molti sono di autori noti – Giacomo da Lentini, Guido Guinizzelli, Guittone d’Arezzo. Ma moltissimi sono anche i poeti minori per i quali questo manoscritto rappresenta l’unico testimone che ne conservi nomi e testi: se fosse andato perduto, di tanti poeti si sarebbe completamente ignorata l’esistenza, tante poesie non si sarebbero potute leggere.

Tra i molti nomi di poeti prestilnovisti altrimenti sconosciuti, sfogliando il Vaticano Latino 3793 possiamo incontrare anche il nome di una poetessa, Compiuta Donzella. Sono soltanto tre i componimenti a suo nome custoditi dal codice vaticano. Labili tracce, preste a svanire.

Lascio da parte i consueti, ameni battibecchi dei letterati pronti ad attribuire patenti di falsità e di immaginazione ad ogni voce di donna che venga a squarciare l’intelaiatura perfetta di una tradizione di scrittura che si vorrebbe tutta e solo rigorosamente al maschile.

Lascio da parte anche curiosità e aneddoti biografici più o meno inventati cui, secondo un’inveterata consuetudine, viene data priorità in via pregiudiziale ogni volta che ci si occupi di opere di donna.

Di tali amenità non mi curo, e vado diritta alle parole di Compiuta Donzella di Firenze, poetessa conosciuta e apprezzata in Toscana nell’epoca del passaggio tra i secoli Duecento e Trecento.

Tre sonetti di Compiuta Donzella

L’uomo del Medioevo è un uomo d’armi, un cavaliere che vive alla ventura e combatte il nemico in singolar tenzone in guerra o nei tornei. Anche il poeta medievale è un uomo che combatte: i suoi combattimenti sono schermaglie verbali, i suoi duelli sono tenzoni poetiche.

La tenzone è, nel Medioevo, un vero e proprio genere letterario: due o più interlocutori danno vita ad un componimento poetico alternandosi versi e battute, oppure sviluppano un percorso di pensiero attraverso componimenti fra loro in successione, scambiandosi poesie come fossero parte di un serrato dialogo.

I tre sonetti di Compiuta Donzella custoditi nel codice vaticano ritrovano tutta la loro profondità se riletti non singolarmente, ma entro la cornice unitaria di una tenzone.

In apertura troviamo il sonetto A la stagion che ’l mondo foglia e fiora:

A la stagion che ’l mondo foglia e fiora
acresce gioia a tut’ i fin’ amanti
e vanno insieme a li giardini alora
che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,
e di servir ciascun trages’ inanti,
ed ogni damigella in gioia dimora;
e me, n’abondan marimenti e pianti.

Ca lo mio padre m’ha messa ’n erore,
e tenemi sovente in forte doglia:
donar mi vole a mia forza segnore,

ed io di ciò non ò disio né voglia,
e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore;
però non mi ralegra fior né foglia.

Se la fioritura primaverile invita all’amore e alla felicità i fin’amanti e la franca gente, ossia chi, per status sociale e disposizione interiore, si trova nella condizione di poter vivere l’amore nel segno della libertà, Compiuta, per contrasto, è smarrita e in lacrime, schiacciata dalla volontà paterna che la vuole forzare al matrimonio.

Niente di nuovo, è la prassi: al di là di ogni idealizzazione dello stato matrimoniale del buon tempo andato, per secoli le donne non sono state che pedine prive di autonomia nel gioco delle alleanze familiari, a cui fondamento erano posti matrimoni d’interesse che non tenevano in alcuna considerazione i sentimenti e i desideri delle spose.

Nel secondo sonetto – Lasciar voria lo mondo e Deo servire – la presa di coscienza del sopruso che colpisce la poetessa nella sua individualità si rafforza nella consapevolezza che l’oggettificazione delle relazioni è favorita e legittimata dalla società stessa: 

Lasciar voria lo mondo e Deo servire
e dipartirmi d’ogne vanitate,
però che vegio crescere e salire
matezza e villania e falsitate,

 ed ancor senno e cortesia morire
e lo fin pregio e tutta la bontate:
ond’io marito non voria né sire,
né stare al mondo, per mia volontate.

Membrandomi c’ogn’om di mal s’adorna,
di ciaschedun son forte disdegnosa,
e verso Dio la mia persona torna.

Lo padre mio mi fa stare pensosa,
ca di servire a Cristo mi distorna:
non saccio a cui mi vol dar per isposa.

Le cronache del tempo presentano Firenze come una città dominata da brame economiche e sete di potere, dilaniata da guerre di fazione. E così è anche per Compiuta: vegio crescere e salire / matezza e villania e falsitate. Di questo mondo dominato da interessi vili, dove ognuno di mal s’adorna, la poetessa non vuole far parte; scegliere Dio può anche significare, allora, potersi ritagliare spazi di autonomia altrimenti impensabili – la stanza tutta per sé in cui poter continuare a coltivare poesia.

Ma, poiché il padre vuole a tutti i costi imporle il matrimonio, la poetessa sembra lanciare una sfida: trovare un uomo che risponda a quegli ideali di cortesia che appaiono ormai tanto rari, un uomo che sia davvero degno di essere amato.

Lo studio del Canzoniere Vaticano porta alla luce almeno due poeti che, nel pieno rispetto delle regole del segreto d’amore, rispondono alla sfida di Compiuta Donzella, dissimulando abilmente nei propri versi il nome dell’interlocutrice attraverso l’espediente del senhal: “Esser una donzella di trovare dotta”, “S’una donzella di trovar s’ingegna”, “Gentil donzella somma ed insegnata” che “di trobare avete nominanza” – dove “trovare” è il verbo tecnico dei trovatori e delle trovatrici, poeti e poetesse che, del comporre rime e versi, hanno fatto il loro mestiere.

Benché i componimenti non siano firmati, i filologi propongono delle precise identificazioni: si tratterebbe di un chierico, Maestro Rinuccino, e di un cavaliere, Chiaro Davanzati. E, proprio a Chiaro, Compiuta risponde con l’ultimo sonetto che, allo stato attuale degli studi, le possiamo attribuire con certezza.

Lo scambio di apprezzamenti e cortesie che intesse il sonetto, tutt’altro che formale, permette a Compiuta Donzella di riconoscersi come donna che può trovare piena realizzazione di sé soltanto nel servizio di Amore, l’unico degno d’essere obbedito.

Ornato di gran pregio e di valenza
e risplendente di loda adornata,
forte mi pregio piú, poi v’è in plagenza
d’avermi in vostro core rimembrata

ed invitate a mia poca possenza
per acontarvi, s’eo sono insegnata,
come voi dite, c’agio gran sapienza,
ma certo non ne sono amantata.

Amantata non son como voria
di gran vertute né di placimento;
ma, qual ch’i’ sia, agio buono volere

di servire con buona cortesia
a ciascun ch’ama sanza fallimento:
ché d’Amor sono e vogliolo ubidire.


[1] Il manoscritto, interamente digitalizzato, è consultabile online: https://digi.vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.3793

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