Antoine Nouis: “Vi racconto la mia fede”

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padre e figlio

Antoine Nouis (1955), pastore per quasi trent’anni della Chiesa protestante unita di Francia, padre di quattro figli, per lungo tempo direttore del settimanale Réforme, biblista con fine sensibilità pastorale, autore di un monumentale (sei volumi) commento – versetto per versetto – alla Bibbia (Primo e Secondo Testamento). Soprattutto un infaticabile annunciatore della Parola, non solo con la predicazione ma anche mediante la pubblicazione di numerosi libri (una trentina) di carattere biblico e catechetico.

Di Antoine Nouis l’editrice Queriniana nel 2021 ha pubblicato Le nostre radici ebraiche: un volume che mette in rilievo l’importanza del Primo Testamento e del pensiero rabbinico per la comprensione del Secondo e della figura di Gesù: SettimanaNews del 4 gennaio 2022 ne ha pubblicato una bella recensione di Roberto Mela.

Con il titolo Vi racconto la mia fede. Lettera di un padre ai figli le edizioni Qiqajon della Comunità di Bose hanno recentemente pubblicato la traduzione, ad opera di Guido Dotti, della Lettre à mes enfants éloignés de l’Eglises pour leur raconter ma foi» (Labor et Fides, Gevève 2023) che completa la «trilogia di lettere» avviata con la «Lettre à mon gendre agnostique, pour lui expliquer la foi chrétienne» (Labor et Fides, Gevève 2010) – pubblicata nel 2012 sempre dalle edizioni Qiqajon di Bose, traduzione di Davide Varasi, con il titolo Lettera ad un giovane sulla fede – e seguita dalla Lettre à ma belle–fille catholique, pour lui expliquer le protestantisme (Labor et Fides, Gevève 2016).

copertina

Una lettera scritta per chi è lontano dalla Chiesa

Vi racconto la mia fede. Lettera di un padre ai figli non è un testamento, ma una specie di bilancio della vita di fede dell’autore che mette per iscritto ciò che per lui, pastore che da oltre cinquant’anni coltiva assiduamente le Scritture per cercare di estrarne parole da mettere a confronto con la sua vita (p. 8), riguarda l’essenziale di quanto con la sposa ha cercato di vivere in ambito famigliare (p. 9).

Un libro nato da conversazioni con i figli di un padre che ha messo al primo posto nella sua vita il vangelo (p. 8) e scritto perché essi trovino il loro cammino di vita senza trascurare l’eredità loro trasmessa dai genitori (p. 15), nella profonda convinzione che sia la famiglia il luogo privilegiato della trasmissione della fede (p. 17).

Una lettera che si rivolge ad una generazione di figli impegnata eticamente e spiritualmente, ma in alcuni casi talmente critica nei confronti delle istituzioni religiose tradizionali da allontanarsi da esse, ritenendole noiose, indegne del messaggio che le fonda (p. 10) e rinchiuse «nel conformismo e nell’ecclesialese» (p. 63).

Un saggio piccolo e succoso che denuncia il grave divario che esiste tra le aspirazioni etiche e spirituali delle nuove generazioni e le risposte offerte generalmente dalla Chiesa: divario dimostrabile dal fatto che ormai pochi genitori affidano alla Chiesa l’educazione e la crescita spirituale dei figli mediante la frequentazione al cosiddetto “catechismo” (p. 74).

Una testimonianza – quella di Antoine Nouis – vibrante, libera, confidenziale, sincera, ancorata alla Scrittura, ricca di istruttive e frizzanti storie e citazioni ebraiche che spinge il lettore a interrogarsi sul senso dell’esistenza.

«Taci e rema!», perché «ti basta la mia grazia»

Pur comprendendo la generazione che ha lasciato la Chiesa ritenendola un’istituzione rigida che privilegia la sua organizzazione rispetto al compito fondamentale di trasmettere la fede, l’autore ne richiama la preziosa missione: essere custode del Vangelo, cioè «di una Parola più grande e più bella di tutte le istituzioni nelle quali la si vuole rinchiudere» (p. 75).

Criticare le debolezze della Chiesa è comprensibile e giustificabile. Ma è doveroso riconoscerne importanza e necessità. Siamo Chiesa perché – come diceva Maurice Bellet – non possiamo essere soli con Dio (p. 77). Essa va continuamente rinnovata e riformata e, per tornare ad essere rilevante per la generazione attuale, deve superare la «sindrome del si è sempre fatto così» (p. 75),

La Chiesa, che ha tutti i difetti di questo mondo, può essere paragonata a un «bambino maleducato» che ha bisogno di correzione ma anche di amore. «Amo la Chiesa non perché è amabile – troppo spesso non lo è –, ma perché è amata da Dio […]. In un mondo che ha tendenza a frammentarsi per influenza dei social network che portano a frequentare solo i propri simili, la Chiesa è uno dei rari luoghi in cui sono invitato a condividere il pane con fratelli e sorelle strani ed estranei in tutti i sensi del termine» (p. 80).

Rivolgendosi ai figli, Antoine Nouis scrive: «Forse vi ricordate che sulla mia scrivania c’è una tavoletta di legno che un giorno ho comperato in un monastero, sulla quale è scritto: Ti basta la mia grazia! Sull’altra faccia di quella tavoletta, ho scritto: Taci e rema! A seconda dei giorni, mi appoggio sull’una o l’altra di queste frasi» (p. 37). «Nei momenti in cui mi sono sentito minacciato dallo scoraggiamento, mi sono appoggiato sulla mia vocazione e su quella tavoletta di legno che mi ricorda che la grazia mi basta e che posso continuare a remare» (p. 49).

Otto parole per dire l’essenziale

Per raccontare la sua fede ai figli critici nei confronti della Chiesa, il pastore e teologo Antoine Nouis utilizza otto parole: trasmissione, fede, vocazione, grazia, libertà, amore, speranza, morte.

  • Trasmissione

Al cuore della confessione di fede di Israele ma anche del cristianesimo troviamo la trasmissione. Nelle sue lettere Paolo più volte afferma: «A voi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto» (1Cor 11,23 e 15,3…). Il libro del Deuteronomio stabilisce il seguente «comandamento cardine»: «Questi comandamenti, che oggi ti do, ti staranno sul cuore; li inculcherai ai tuoi figli, ne parlerai quando te ne starai seduto in casa tua, quando sarai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,6–7). Il che sta a significare, da un lato, che senza trasmissione non solo non c’è più memoria delle origini né proiezione nel futuro (p. 13) e, dall’altro, che la fede si trasmette essenzialmente in famiglia «più attraverso la vita che non attraverso i discorsi» (p. 12).

Quanto ai comandamenti che stanno “sul” cuore e non “nel” cuore, Nouis ricorda la motivazione fornita da un commento rabbinico: «Nel processo di trasmissione non si può penetrare nel cuore del bambino, essendo un santuario che nessuno ha diritto di violare. L’unica cosa che si può fare è deporre una parola sul suo cuore. Il giorno in cui si aprirà, la parola cadrà nel cuore, ma questo evento non ci appartiene» (p. 14). Trasmettere, infatti, non significa forzare, se mai indicare una direzione, alimentando il desiderio di far partecipare le nuove generazioni alla buona e bella notizia che si è rivelata salvifica e umanizzante per chi la trasmette.

  • Fede

Per il credente «la fede non è uno stato ma un cammino» (p. 26). Essa «è sempre una storia d’amore. È il riconoscere che la mia vita e la mia storia sono circondate nel tempo e nello spazio da una parola, da una presenza, da una grazia che mi accoglie e mi invia […]. Nel vangelo scopriamo che tutto è grazia, che l’unica cosa che conta è lo sguardo che Dio ha su di noi e che – miracolo! – è uno sguardo di accoglienza e di perdono» (p. 27).

«Il dubbio appartiene alla fede, altrimenti quest’ultima non sarebbe una credenza ma una conoscenza. Dubito perché sono un essere umano, dubito perché quelli che hanno solo certezze sono insopportabili, dubito perché la prima esigenza di cui sono debitore a me stesso è l’onestà radicale. Dubito come i salmisti hanno dubitato, come Geremia ha dubitato, come Gesù stesso ha dubitato sulla croce. Faccio mia questa parola di Elie Wiesel: Credo e dubito in Dio, ma mai al di fuori di lui» (p. 37). Credere – come ha scritto Louis Évely – significa rimanere fedeli nel buio a quel che si è visto nella luce (p. 40).

  • Vocazione

Come e cosa fare per impostare la propria vita su quanto c’è di più importante? La risposta è rinvenibile in un apoftegma dei padri del deserto che narra di un discepolo di Nisteroo il grande che pone al maestro la seguente domanda: «Qual è l’opera buona che io possa fare? L’anziano risponde: l

La Scrittura dice che Abramo era ospitale e Dio era con lui; Elia amava la quiete e Dio era con lui. Davide era umile e Dio era con lui. Quel che vedi che la tua anima desidera secondo Dio, fallo. Sta a ciascuno di noi trovare la propria via davanti a Dio, come fecero Abramo con l’ospitalità, Elia con la preghiera solitaria e Davide con l’umiltà» (pp. 44–45). L’importante è rendersi conto che vivere responsabilmente la propria vocazione significa svolgere con entusiasmo il proprio lavoro come se dovessimo essere «tutti costruttori di cattedrali» (p. 48).

  • Grazia

Uno dei versetti biblici che più ha intrigato Nouis è quello in cui Paolo dichiara: «E che cosa possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché ti vanti come se tu non l’avessi ricevuto?» (1Cor 4,7).

«Credere alla grazia significa riconoscere che nulla di ciò che abbiamo viene da noi […]. La giornata del credente è costellata da brevi preghiere di riconoscenza per il sole che si è levato, la casa che offre riparo, gli abiti che rivestono, il pane che nutre, l’acqua che disseta, l’incontro con una bella persona che illumina…Tutto è soggetto di riconoscenza» (p. 61).

Nella vita «non dobbiamo stancarci di meravigliarci» e di chiedere la grazia dello stupore: ce lo ricorda anche papa Francesco il quale «definisce la fede come lotta contro il degrado dello stupore» (p. 62). Senza stupore, infatti, la vita cristiana diventa grigiore e la fede una litania stanca e abitudinaria (Francesco, omelia del 28 marzo 2021 e Angelus 4 luglio 2021).

  • Libertà 

Una parola gravida di implicazioni e interrogativi. Nella Bibbia ebraico-cristiana la prima esortazione che Dio rivolge all’essere umano è «sei stato liberato, vivi la libertà» (p. 67).

Nel Nuovo Testamento Gesù invita i suoi discepoli a perseverare nella sua parola per essere veramente tali: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,31-32). Paolo ci ricorda che «Cristo ci ha liberati per la libertà» (Gal 5,1).

«La libertà è il frutto di una liberazione: è restando attaccati a Cristo e alla verità che ci stacchiamo dalle false libertà che ci illudono» (p. 71). «In ebraico il termine libertà (deror) indica anche la rondine. I sapienti dicevano che la rondine ha un volo imprevedibile. Una persona libera si è affrancata dallo stampo. È il contrario di una persona il cui comportamento è prevedibile e atteso: non ha paura di essere diversa. Il primo uomo ad essere chiamato ebreo nel Primo Testamento è Abramo.

In un commento talmudico, Emmanuel Lèvinas sviscera il termine per dire che evoca colui che è capace di stare tutto solo da un lato mentre gli altri stanno dall’altro lato, che è capace di dire sì quando tutti dicono no, e viceversa» (p. 66).

  • Amore

Dio può essere detto in tre sole parole: «Dio è amore» (1Gv 4,8). L’essere umano davanti a Dio può essere detto in cinque parole: «Tu sei amato da Dio» (Rm 1,7). L’agire cristiano può essere detto in sei parole: «Ama e fa’ ciò che vuoi» (Agostino d’Ippona, Omelia su 1Gv 7,8). La vocazione cristiana può essere detta in otto parole: «Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore» (Giovanni della Croce, Parole di luce e amore, 57). La Chiesa può essere detta in una frase: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35) (pp. 81-82).

Dire che Dio è essenzialmente amore significa affermare che «il suo più grande desiderio è che noi possiamo sviluppare la nostra vita in tutte le sue potenzialità» (p. 91).

Gesù ha riassunto il suo insegnamento in una regola piccola; eppure, universale: «Tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro» (Mt 7,12). Una massima non peculiarmente cristiana, essendo presente in numerose altre professioni religiose. La sua importanza è bene evidenziata da un’istruttiva “storiella” raccontata da Nouis. «Un tale interroga un saggio per chiedergli la quintessenza della legge. Il saggio risponde: Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te! L’interlocutore è deluso: E sarebbe questa tutta la tua saggezza? Anche un bambino di otto anni lo sa! Al che il saggio replica: Forse un bambino di otto anni lo sa, ma un vecchio di ottant’anni fatica a metterlo in pratica» (p. 89).

  • Speranza

«Davanti al trono di Dio, all’ebreo verrà domandata questa sola cosa: hai sperato nella salvezza?». È quanto il filosofo ebreo Franz Rosenzweig era solito affermare commentando l’affermazione secondo la quale «gli ebrei avrebbero potuto lasciare ogni cosa tranne una: la speranza» (p. 98).

«La speranza è la passione dell’impossibile. È l’atteggiamento che consiste nel credere che c’è ancora un futuro, anche quando non c’è più aspettativa» (p. 101). «La speranza è un bel trucco inventato da Dio per spingerci ad avanzare. Nessuna grande impresa è stata realizzata senza il supporto di una grande speranza» (p. 102).

«Alcuni periodi della nostra vita possono assomigliare a lunghi inverni, ma non c’è inverno che non sia sfociato in una primavera, come non c’è notte che non abbia dato origine a un nuovo giorno […]. La speranza è una proclamazione della vita piantata nella disperazione del nostro mondo. Sperare è un atteggiamento resurrezionale, insurrezionale contro la fatalità delle opere di morte» (p. 103). «In virtù della speranza vi dico che non bisogna mai abbandonare la lotta della vita» (p. 105).

  • Morte

L’ultima parte del libro tratta della morte, un argomento spesso evitato nella società contemporanea. È normale che la morte faccia paura. Riconoscere, tuttavia, la nostra mortalità è essenziale per comprendere e apprezzare appieno lo straordinario della vita (p. 108).

«La filosofia definisce l’essere umano come l’unico animale che sa che dovrà morire. Lo sa, ma poiché questa verità lo disturba, lo dimentica. Questa fuga lo porta a passare accanto alla propria vita», mentre vivere sapendo di dover morire «significa vivere nel presente in piena consapevolezza e ricevere ogni goccia di vita come un dono incredibile» (p. 115).

Pensare alla propria morte significa «prendere coscienza del valore del tempo» e «immettere nel quotidiano qualcosa di ciò che è ultimo» (p. 115).

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