Tutte le storie hanno almeno due lati. Il conflitto che arriva nel Libano, pericolosissimo e foriero di altri lutti, non sfugge a questa regola: il lato israeliano e quello arabo, entrambi molto complessi e portatori di più ampie conseguenze.
Qui si intende osservare Hezbollah e il suo leader Hasan Nasrallah e ciò che comunicano, o hanno comunicato, sul versante politico-culturale arabo. Prima di esaminarne alcuni tratti e alcune evidenze è opportuno però fare delle premesse, indispensabili a inquadrarlo.
Quando nel 2000 Israele decise di ritirare il suo esercito dal Libano del sud, dopo averlo occupato dai tempi della guerra civile libanese, una trattativa tanto segreta quanto veloce vide il passaggio dalla Siria al Libano di un spicchio di territorio del Golan. Si tratta delle fattorie di Shebaa. Questo appiglio consentì a Hezbollah di sostenere che il ritiro israeliano dal Libano occupato non era completo, e così giustificare formalmente la scelta di non deporre le armi, unica milizia libanese dai tempi della guerra civile a rimanere armata. Questo ha alterato la vita democratica libanese.
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Sostenuta ufficialmente e notoriamente dall’Iran, questa milizia di credo khomeinista ha preso il controllo armato soprattutto del sud del Libano, dove vive gran parte della sua comunità di confessione sciita, ed eliminato molti leader libanesi a essa avversi – a cominciare dall’ex premier musulmano sunnita, Rafiq Hariri. Il sud del Libano ha due simboli: la città di Tiro, a sud di Sidone, ne è il confine settentrionale; più giù c’è il meno noto ma cruciale fiume Litani: risorsa idrica preziosa in una terra povera d’acqua, a 40 chilometri dal confine con Israele.
Quando nel 2006 si è verificata la terribile guerra tra Israele e Hezbollah, il governo libanese era presieduto dall’erede di Rafiq Hariri, Fouad Siniora. Si tratta di due politici sempre considerati avversi ad Hezbollah. Siniora, che godeva di prestigio e autorità internazionale, impose il varo della Risoluzione 1701, quella che pose termine al tremendo conflitto: Hezbollah doveva ritirare i suoi uomini armati al fiume Litani, disposizione però mai rispettata; come l’altra disposizione, cara questa volta al Libano: la definizione dei confini tra i due Paesi, che hanno dei punti contesi, anch’essa mai attuata in realtà.
Il negoziatore americano Amos Hochstein in questi mesi di guerra ha tentato di porre fine alla guerra d’attrito tra Israele e Hezbollah, che sostiene di voler sostenere Gaza con essa, proponendo di fatto una piena applicazione della Risoluzione 1701: per farlo però Hezbollah chiedeva il previo cessate il fuoco a Gaza. E il discorso pronunciato ieri da Nasrallah spiega bene perché.
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Nasrallah ha esordito puntando il dito contro Israele per l’enorme operazione di intelligence che ha fatto esplodere i cercapersone di migliaia di militanti e miliziani del partito. Ha subito puntato ad avvalorare l’idea che l’operazione potrebbe costituire un crimine di guerra, sottolineando che volevano uccidere cinquemila persone incuranti di dove si trovassero. Quelle esplosioni, ha affermato, si sono verificate a volte nel traffico, altre in ospedali, o in mercati.
Di qui la sua prima conclusione: sono saltate tutte le regole tra belligeranti. È il primo elemento da considerare: Hezbollah si considera il Libano, ha assunto su di sé e rivendica ancora il diritto di esprimerne in totale autonomia la politica nazionale di difesa e ritiene che questo sia sancito nei fatti. Va detto che molti leader libanesi, a partire da alcuni leader politici cristiani, hanno a lungo condiviso questa impostazione; è stato soprattutto il blocco musulmano sunnita a osteggiare a lungo l’egemonia di Hezbollah.
Il secondo passaggio è conseguenza di questo: Hezbollah ha il diritto a una reazione, che si riserva però di compiere quando, come e dove riterrà opportuno. Non è solo la forza enorme del colpo subito, riconosciuto come tale avendo nei fatti messo in crisi l’intero sistema di comunicazione di Hezbollah, oltre che lederne gravemente gli organici.
Accanto all’implicita constatazione di trovarsi in difficoltà operativa c’è anche il fatto di ritenere dannoso dare pretesti a Israele per azioni militari più ampie, che se innescassero un’estensione regionale del conflitto aiuterebbero Trump nel voto ormai imminente. Dunque Hezbollah è in molte difficoltà.
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Ma a chi parla da Israele di un’imminente operazione di terra per entrare militarmente in Libano e creare una “zona cuscinetto” fino al fiume Litani in modo da garantire la sicurezza del nord di Israele, non consentendo così la presenza della milizia armata in questo vasto spazio, Nasrallah ha risposto affermando che fare una cosa del genere equivarrebbe ad aprire le porte dell’inferno.
Hezbollah non cederà, non arretrerà, non consentirà mai uno sviluppo del genere. Il governo Netanyahu afferma di voler far rientrare settantamila israeliani dei centri del nord nelle loro case, dopo così tanti mesi che sono stati condotti altrove per motivi di sicurezza. Per Nasrallah questo progetto si dimostra impossibile, solo un cessate il fuoco a Gaza aprirebbe porte diverse.
Ci sono però due aspetti da considerare. Il primo: questa guerra d’attrito ha determinato anche lo sfollamento di 110 mila libanesi dal sud; a loro e di loro il leader di Hezbollah non ha detto una sola parola, pur sapendo delle enormi difficoltà in cui sopravvivono.
Il secondo: la guerra di Gaza ha potuto procedere per 11 mesi senza che le azioni militari nel nord abbiano minimamente alterato i piani israeliani; cosa ha prodotto l’operazione di Hezbollah per Gaza? È apparso così ancor più evidente nel discorso di Nasrallah che l’idea è quella di intestarsi la rappresentanza della questione di Gaza per conquistare cuori e menti davanti a tanto dolore e tanti patimenti, consegnando a se stesso e a Teheran più peso – anche se le loro condotte non cambiano alcunché per Gaza e i suoi abitanti.
Dunque Nasrallah prova a giocarsi la carta del Libano come ne fosse il padrone assoluto, ma il suo è apparso un discorso da fine regno. La cosa importante sarebbe se in questa possibile fine regno emergesse un discorso diverso, una politica nuova, che non punta ad aggravare i problemi – già gravi – per usarli per i propri interessi politici, ma a dare una mano per risolverli.
Questo pensiero nuovo nel Libano potrebbe avere terreno fertile, essendo un paese arabista e laico, cosmopolita. Per ora però, di tutta evidenza, incombe altro. Ancora una volta.