Eventi che si susseguono non sono necessariamente l’uno causa dell’altro, ma quando vanno nella stessa direzione suggeriscono un movimento profondo.
Durante il volo di ritorno dall’Indonesia a papa Francesco è stato chiesto dell’Abbé Pierre, soprattutto di quanto si sapesse del suo caso. La risposta è stata corretta, ma in fondo un po’ spiazzante. Francesco non ha risposto per il Vaticano, ma per sé. Ha detto che lui non sapeva e che se il Vaticano aveva documenti bisognava che questi fossero pubblicati. Pochi giorni dopo, in Francia, la Conferenza dei vescovi ha anticipato i tempi di apertura degli archivi e sono state rese pubbliche le informazioni note circa l’Abbé Pierre come molestatore di donne.
Accesso agli archivi
Sin qui potremmo dire che è la buona notizia. Almeno in Francia sembra che la via della trasparenza sia stata intrapresa. Verrebbe da dire per amore o per forza perché la stampa non si è distratta sul caso dell’Abbé Pierre e anche sul quotidiano cattolico francese La Croix non solo il tema è stato sempre presente, da quando quest’estate sono emerse nuove accuse, ma, oltre la cronaca, non sono mancate critiche alla Fondazione Emmaus.
In ogni caso, anticipare l’apertura di un archivio è un segno di coraggio, soprattutto se si tiene in considerazione il forte impatto che il personaggio ha in Francia. Così, prima dello scadere dei 75 anni dalla morte de l’Abbé Pierre (2007) e con ragguardevole rapidità – visto che l’annuncio è stato dato il 12 settembre –, i giornalisti hanno potuto accedere all’archivio già il 18 settembre scorso.
L’articolo che riporta la notizia e i risultati della lettura (firmato da Héloïse de Neuville, su La Croix del 19 settembre 2024) segnala che essi vanno solo dal 1947-1972. Evidentemente mancano degli anni, ma alla fine la cosa più importante, e che risulta più grave, è sapere come sin dagli inizi la questione è stata gestita. Poi è facile immaginare una semplice conferma dei silenzi iniziali, sino alle denunce.
L’aspetto, invece, decisamente triste è scoprire che dal 1956 il caso era noto. E venire a sapere che talvolta era lo stesso Valicano a mettere in guardia sulle ambiguità del personaggio. Si legge poi che l’Abbé è stato curato in una clinica svizzera, ma la cura era solo psichiatrica e – a quanto pare – non ha sortito particolari effetti.
L’articolo de La Croix nel quale vengono riportate le notizie rinvenute nei verbali che la giornalista ha potuto consultare racconta anche di una serie di viaggi, di per sé interdetti al prete ma comunque effettuati, e del permesso negato di confessare, altra istanza che sembra sia stata aggirata.
Come è stato possibile
Si rintraccia purtroppo uno schema già conosciuto. Il bene fatto sul fronte del sostegno ai poveri ha coperto tutto. E, d’altra parte, la non accoglienza delle disposizioni vaticane fa intuire che l’Abbé Pierre fosse poco consapevole. O meglio, in una denuncia riportata sui verbali si dice che l’Abbé davanti al rifiuto obiettasse: «Ne ho bisogno».
Viene da chiedersi come sia stato possibile conciliare nella propria mente e coscienza una sincera dedizione ai poveri e un tale disequilibrio fisico e/o affettivo. Non è questa ovviamente la sede per rispondere. Ma ancora una volta si delinea un compito aperto per il futuro.
Quanto la vita di persone consacrate − soprattutto se in vista − dev’essere «ordinata» secondo lo Spirito? Davvero è possibile una testimonianza «a singhiozzo» o addirittura del tutto squilibrata? Consapevoli che a nessuno è risparmiato il peccato, come ha detto papa Francesco di ritorno dall’Indonesia, resta tuttavia la domanda.
Studiando la vita di qualche santo ci si trova di fronte a espressioni di vita che suscitano perplessità alla luce delle consapevolezze psicologiche che oggi abbiamo. Si tratta perlopiù di fatti lontani nel tempo e di complessa valutazione. Questi ultimi, invece, sono fatti recenti e a quanto pare trovano una Chiesa, una comunità credente, non sempre avvertita sui soggetti e su di sé. Certo, un personaggio come l’Abbé Pierre, soprattutto nel post Concilio, ha riconciliato con la Chiesa. Ma questa non era una ragione per tacere.
Resta poi la lettura degli atteggiamenti dell’Abbé Pierre come frutto di una malattia psichiatrica, tant’è che sembra sia stato sopposto a elettroshock. Sicuramente saranno state cercate le cure migliori e allora funzionava così. Resta però la domanda: non ci sono situazioni fisiche che rendono problematico l’esercizio del ministero?
E tornano i molti poveri. I poveri li abbiamo sempre con noi, e ora abbiamo anche alcune donne povere, umiliate due volte, dalla vita e da chi si poneva in aiuto. Diventare una Chiesa di minoranza ci renderà forse più avvertiti e dunque più liberi da dinamiche di potere estremamente ambigue e ci farà porre, o cercare di porre, gesti cristiani ma – nel limite del possibile – a tutto tondo.
Una attenzione sana
Il 16 settembre il presidente di Emmaus Ginevra ha dichiarato che l’Abbé Pierre ha avviato un’opera «visionaria», che non deve esaurirsi per il fatto che il fondatore sia stato un «brutto peccatore», come ha detto il papa.
Certo nessuno pensa di smantellare tutto: ci sono i poveri di oggi, che neppure hanno visto il fondatore del Movimento Emmaus. Mentre hanno sempre le medesime necessità e gli stessi diritti. Come pure i volontari del Movimento che nelle generazioni si sono succeduti.
Il fatto è che ogni volta che si fa luce su casi di grandi personaggi abusanti e coperti nel loro agire nascono nuove domande, non tanto sulle vicende personali ma sul modo di pensare, educare e giudicare della gerarchia e delle comunità. Si sente la mancanza di una riflessione complessiva che intrecci ecclesiologia, morale, spiritualità per tentare quantomeno di ridurre il rischio di derive abusanti.
Manca ancora stile che ci renda sanamente attenti alle figure carismatiche, per quanto buone e capaci, e riesca a inserire i singoli, dolorosi casi in un quadro d’insieme.
Purtroppo gli scandali come questo sono pesi enormi da portare, vere e proprie macine di pietra appese al collo non solo per chi commette reati di tanta gravità, ma pure per la Chiesa.
Penso valga comunque sempre la prudenza e prima di esaltare una persona, attendere sempre qualche tempo dopo la sua morte, perché tutti siamo vasi di creta.
Manca una riflessione sana su un’antropologia che da secoli ci portiamo dietro, che separa nell’essere umano spirito e materia. Finché continueremo a pensare queste due dimensioni separate, o peggio, in opposizione non ne usciamo e gli squilibri umani chiederanno costantemente di essere compensati troppo in forme non socialmente o ecclesialmente ammesse. Una antropologia sana permette compensazioni, ma lavorando per l’unità della persona, riduce gli squilibri e rende più eleggibili da parte della persona le compensazioni stesse.