Lettera aperta sul futuro della Chiesa in Italia

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Che cosa è la Chiesa cattolica in Italia? La prima risposta più immediata è semplice: l’istituzione religiosa e cristiana più ampia e diffusa nel nostro Paese. Migliaia e migliaia di parrocchie, moltissimi gruppi, confraternite, associazioni, che a livello formativo e sociale operano affermando variamente di avere il Vangelo di Gesù Cristo come punto di riferimento della loro azione con particolare, logica attenzione all’interpretazione che ne viene dal vescovo di Roma e dai suoi confratelli nell’episcopato a cui sono affidate le molte diocesi italiane.

Tanto bene continuano fare moltissime persone e varie istituzioni cattoliche, nel quadro della vita italiana, a livello culturale, spirituale e sociale. Questo discorso, del tutto positivo, vale per ogni stato di vita: presbiteri, laiche, religiose, laici, religiosi). Ciononostante ci sono numerosissime situazioni di crisi e di degrado che sarebbe sciocco negare o fingere di non vedere.

Ci sono, infatti, dei dati incontrovertibili, che hanno assunto un rilievo ancora maggiore dalla fase del Covid-19 in poi. Partiamo dalla dimensione che per molti secoli e, purtroppo. nella mente di non pochi, ancora oggi, ha determinato il calcolo del numero dei cristiani cattolici in Italia. Mi riferisco alla partecipazione alle messe, in particolare quelle domenicali. Il numero di persone che frequenta regolarmente le celebrazioni eucaristiche domenicali è circa il 19% della popolazione, una cifra che si è ridotta del 33% in diciotto anni (cfr. Avvenire, 30 settembre 2023). L’età media di chi partecipa è molto alta e il calo della presenza di chi ha meno di trent’anni è molto rilevante.

Non credo assolutamente che – a differenza di quanto si è pensato e detto per molti secoli e alcuni continuano a ripetere ancora oggi – l’identità cristiana e, in specifico, cristiano-cattolica si possa determinare essenzialmente e anzitutto dalla partecipazione regolare all’eucarestia domenicale.

Quello che si può sapere direttamente dalle fonti di riferimento essenziali, ossia anzitutto i vangeli canonici, di che cosa sia imprescindibile per dirsi cristiani, dice che l’amore concreto nei confronti degli altri, ad immagine e somiglianza dell’amore del Dio di Gesù Cristo per gli esseri umani, è l’obiettivo esistenziale essenziale per chi desidera essere cristiano. Per perseguire tale scopo, partecipare ai momenti di culto, di cui l’eucarestia è certamente quello culminante, è importante per trovare costante slancio in proposito (e io sono tra coloro che tale frequenza settimanale ha mantenuto esattamente in questa logica).

Pertanto, chiedersi perché la partecipazione alle celebrazioni sia in notevolissimo calo è comunque doveroso. Se un numero crescente di persone non la sente più significativa per la propria vita, nel senso che, anzitutto, reputa più utile e/o interessante fare altro nel tempo una volta dedicato alla presenza settimanale in chiesa, farsi delle domande in proposito mi pare indispensabile.

Il linguaggio dei riti è spesso incomprensibile? Le omelie sono spesso tutto fuorché un invito efficace a cogliere qualche idea fondamentale dalle letture bibliche proposte a vantaggio della vita quotidiana? Non si è capaci di spiegare che il pane e il vino consacrati non diventano «magicamente» il corpo e il sangue di Gesù Cristo, ma che l’ostia che si riceve è un simbolo importante della donazione per gli altri per la quale il Nazareno stesso è vissuto, morto e risorto?

A queste condizioni è ben comprensibile perché si registra un grande calo nella presenza alle celebrazioni eucaristiche. Ed è facile prevedere che tale diminuzione sarà sempre più rilevante, quando, tra non molto tempo, saranno scomparse le generazioni più anziane, spesso educate ad un’idea prioritaria e totalizzante di tale presenza al rito domenicale e, per alcuni, anche quotidiano.

In un quadro ecclesiale nel quale, a livello strutturale e culturale, permane spesso, oltre ogni buon senso, l’idea della posizione centrale del presbitero e di quella «satellitare» delle persone che presbiteri non sono, la cellula fondamentale ecclesiale, ossia la parrocchia potrebbe conservare e migliorare questo ruolo evangelizzatore basilare.

Che cosa sarebbe indispensabile fare in proposito? Decidere che l’autorità ultima in una comunità parrocchiale, a livello progettuale e gestionale corrente, sia affidata non sempre e soltanto a preti, ma a persone di altri stati di vita. Ciò avviene, per esempio, in varie parrocchie della Svizzera tedesca e, in misura minora, francese, dove laiche e laici ricoprono, ordinariamente e ufficialmente, il ruolo che in Italia è affidato essenzialmente a parroci presbiteri.

Da parecchi anni si stanno moltiplicando in tutto il nostro Paese le formule più varie – reti pastorali, comunità pastorali ecc. – in cui a singoli presbiteri vengono affidate le responsabilità ultime su un numero spesso abnorme di parrocchie oppure vengono messe a vivere insieme persone – presbiteri – che sono state formate per gestire il potere da sole e hanno vissuto lungamente da sole.

Non occorre particolare senso della realtà e notevole intelligenza formativa per capire quanto sarebbe ecclesialmente più utile, anche pensando alla prospettiva sinodale su cui si sta riflettendo da qualche anno nella Chiesa cattolica, se i vescovi affidassero una o più parrocchie a delle équipes pastorali costituite, per esempio, da un prete, una coppia di laici e una religiosa.

Essi sarebbero responsabili, pur con tutte gli organismi di cooperazione e confronto attivabili a livello liturgico, catechetico e caritativo, delle comunità loro affidate, mostrando nei fatti che cosa significhi ministerialità e operatività nella Chiesa secondo prospettive fedeli alla fisionomia auspicata nel I secolo d.C. Mi riferisco, in particolare, al formidabile testo di Atti 2,42-47, che non è la fotografia della «Chiesa delle origini», ma il quadro dei valori e dei rapporti a cui, sin da allora, ogni cristiano era chiamato a guardare per essere fedele al suo Signore.

Facoltà di teologia e Istituti Superiori di Scienze Religiose hanno laureato o diplomato nel corso degli ultimi trent’anni persone in grado di svolgere, con opportuni adeguamenti formativi, la funzione pastorale che ho prima indicato. E le risorse economiche per retribuire seriamente i «non presbiteri» coinvolti si potrebbero trarre, anzitutto, dal denaro non più ripartito tra i non pochi preti che vengono meno e certamente non necessario per i preti ordinati negli ultimi anni, che sono un numero assai esiguo rispetto a qualche decennio fa.

Nessuno pensa che questa scelta, per molti rivoluzionaria, che consente di organizzare in modo diverso rispetto agli ultimi secoli il potere all’interno della normalità della Chiesa cattolica, sia una sorta di «bacchetta magica» per far uscire dalla crisi multiforme in atto l’insieme della comunità religiosa oggi guidata da papa Francesco. La pluralità di sensibilità religiose e culturali riscontrabili da un capo all’altro del Pianeta, rendono sempre più incongrue decisioni che siano «uguali per tutti» ferma restando ovviamente la centralità universale dell’ascolto della Parola di Dio contenuta nelle Scritture bibliche e la pratica non devozionistica dei sacramenti.

Un’animazione biblica dell’intera pastorale ecclesiale, senza tentazioni erudite e spiritualistiche, ma radicata nell’esistenza concreta delle persone, potrebbe essere la via maestra per consentire a Diocesi, parrocchie e altre istituzioni ecclesiali di vedere recuperata e realizzata sempre meglio la propria efficacia formativa, messa in atto da credenti credibili nel Dio di Gesù Cristo, capaci di rispondere, senza paure e stravaganze, alle sfide della cultura contemporanea.

Vorremmo continuare e approfondire queste brevi e schematiche riflessioni, che su SettimanaNews tante altre persone hanno variamente proposto negli ultimi anni con efficacia e passione. Invito cordialmente lettrici e lettori di queste righe a interagire con quanto vi è scritto e a proseguire il confronto in proposito: ne va, mi pare, del futuro della Chiesa cattolica in Italia, se non vuole diventare sempre più marginale a livello culturale e sociale.

Tra le molte pubblicazioni oggi disponibili, per andare al cuore di molti problemi evocati da quanto detto sin qui, segnalo i seguenti titoli: G. Campanini, Senza preti. Nuove vie per evangelizzare, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2016; B. Sesboüé, Non abbiate paura. Sguardo sulla Chiesa e sui ministeri oggi, tr. it., Queriniana, Brescia 2019; Alle radici della comunità. Liturgia, catechesi e carità per vivere insieme, a cura di E. Borghi – G. De Vecchi, San Lorenzo, Reggio Emilia 2021; A. Mastantuono (a cura di), Verso una Chiesa sinodale, EDB, Bologna 2023; Relazioni di potere nella Chiesa, «CredereOggi» XLIII (256/2023).

Ernesto Borghi è biblista professionista dal 1992. Insegna Introduzione alla Sacra Scrittura presso l’ISSR «Romano Guardini» di Trento e Sacra Scrittura alla Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale di Napoli (sez. San Tommaso d’Aquino). Dal 2003 presiede l’Associazione Biblica della Svizzera Italiana (www.absi.ch) e coordina la formazione biblica nella Diocesi di Lugano. Tra i suoi libri più recenti: (con G. De Vecchi, a cura di), Per vivere con se stessi e gli altri da esseri umani, Cittadella, Assisi (PG) 2024; Verso la verità della Chiesa. Leggere gli Atti degli Apostoli oggi, ETS, Milano 2024.

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