Western nationalism: un fragile aggiornamento di cultura politica

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menozzi11

Alcuni giorni fa, in questa stessa sede, Stefano Feltri ha richiamato l’attenzione su uno dei discorsi tenuti da Giorgia Meloni durante il suo recente viaggio negli Stati Uniti (cf. SettimanaNews, qui). Ha ricordato la rilevanza dell’intervento pronunciato al momento di ricevere uno dei premi conferiti dall’Atlantic Council, un centro di studi nato nel 1961 a Washington con lo scopo di favorire la cooperazione internazionale e, in particolare, quella tra America e Europa.

Giustamente Feltri vi ha colto un significativo tentativo: mostrare che l’indirizzo del governo italiano, lungi dal conformarsi a quel pragmatismo che gli viene talora addebitato, risponde ad una visione complessiva del mondo in cui viviamo e dei suoi bisogni.

In effetti, l’attuale Presidente del Consiglio – dopo aver sostenuto che, in quanto politico, non intende essere un follower, bensì un leader, cioè ambisce a guidare il popolo verso il raggiungimento del bene comune – chiarisce la linea con cui intende perseguire il suo obiettivo.

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La sintetizza con la categoria di “western nationalism”. Viene ripresa da un articolo, a firma di Anthony J. Costantini, apparso su Politico Europe. Si tratta del ramo europeo di un’imponente azienda mediatica statunitense che, nel 2012, è stato acquistato dal gruppo editoriale tedesco Axel Springer.

L’autore, laureatosi in Russia all’Università di San Pietroburgo, sta ora conducendo la sua tesi di dottorato all’Università di Vienna sul rapporto tra democrazie e populismo.

Meloni, presentandolo con la qualifica di «Dr. Costantini», opera quindi una forzatura. Ne è scopo evidente l’enfatizzazione del valore culturale della sua tesi. In realtà, siamo davanti a un politologo, che ha ancora in corso il completamento della sua formazione accademica.

Senza dubbio è assai attivo in rete, ma ha anche un orientamento politico ben preciso. Lo mostra la reazione alla citazione del suo contributo nel discorso della premier. Nel suo sito non manifesta solo un comprensibile entusiasmo per essere balzato agli onori della cronaca internazionale, ma esprime anche un caloroso auspicio di successo alla linea del governo italiano. Un augurio che non corrisponde propriamente al profilo dell’analista oggettivo.

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In realtà, anche solo ad un primo esame, la categoria di “western nationalism” rivela una sconcertante fragilità politico-culturale. Si può infatti convenire con Meloni che l’Occidente non è solo un luogo fisico, ma il prodotto di una storia. Ne presenta l’esito in questi termini: «un sistema di valori in cui la persona è centrale, gli uomini e le donne sono uguali e liberi, e quindi i sistemi sono democratici, la vita è sacra, lo stato è laico e basato sullo stato di diritto».

L’accuratezza di questa descrizione potrebbe essere discussa. Ma non interessa farlo in questa sede. Basta prenderne atto, perché il problema più rilevante si trova altrove. Il ricorso al termine nazionalismo indica, infatti, la via idonea a rendere quella concezione dell’Occidente una piattaforma politicamente agibile sul piano internazionale.

La stessa presidente del Consiglio avverte qui una possibile pietra d’inciampo. Osserva, infatti, di non sapere se «nazionalismo sia la parola corretta, perché spesso richiama dottrine di aggressione o di autoritarismo». Non vale la pena soffermarsi sulla pudica copertura con l’aggettivo “spesso” di quel che è storicamente stato il nazionalismo. Né occorre insistere sul ruolo mistificatorio giocato dalla distinzione tra nazionalismo lecito e illecito, dolorosamente emerso anche nella vicenda del cattolicesimo novecentesco.

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Il dato cruciale sta nella soluzione data dalla premier alla questione. Per Meloni, se “nazionalismo” può essere accantonato, «nazione» e «patriottismo» sono, invece, i valori che devono essere trasposti dal circoscritto piano di un singolo paese all’Occidente intero, diventando i motori della sua presenza nel mondo globale.

Occorre qui subito precisare il senso dato da Meloni al termine “nazione”: «uno stato d’animo a cui si appartiene condividendo cultura, tradizioni e valori». Come già aveva fatto in precedenti occasioni, attraverso una pur contorta e imprecisa citazione di Ernest Renan, la premier ci tiene di nuovo a ribadire che la sua visione della nazione non ha nulla a che spartire con quanti la identificano con la terra, il sangue, la razza.

Qualche commentatore non ha mancato di attribuirle questa concezione, forse immaginando di poter così corrodere il consenso di cui gode nel paese. In tal modo – come regolarmente avviene sovrapponendo il Ventennio fascista all’attuale governo di destra – si alimenta soltanto una confusione che ostacola una corretta intelligenza dei reali limiti della sua linea.

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Essi emergono con chiarezza se si prende in considerazione il giudizio espresso nel discorso sul mondo attuale. Secondo Meloni, esiste un mercato politico planetario su cui vengono offerti due modelli – la democrazia e l’autoritarismo –, tra i quali i nuovi Stati-nazione, in particolare quelli dell’emisfero meridionale, sono chiamati a scegliere.

In questa situazione l’Occidente, se mira a cancellare i simboli della propria civiltà (un atteggiamento definito sulla base di un richiamo al filosofo Roger Scruton, oicofobia), è destinato inevitabilmente alla sconfitta. Invece, se trasfonde l’orgoglio patriottico un tempo riservato alla singola nazione alla promozione dei suoi valori sarà in grado di vincere la competizione politica globale.

A suffragio di questa valutazione viene portata una citazione di Ronald Reagan: «nessuna arma nell’arsenale del mondo, è così formidabile quanto la volontà e il coraggio morale degli uomini e delle donne liberi».

Alla base di questo schema sta la convinzione che tutte le nazioni si trovano, politicamente, sullo stesso piano. Meloni lo ha nuovamente proclamato nel discorso tenuto all’assemblea generale delle Nazioni Unite. Ma, anche ammessa questa rappresentazione della realtà, non si può non rilevare il semplicismo del disegno. Nella sua ottica, l’Occidente diventa appetibile a livello globale nella misura in cui i suoi abitanti assumono una profonda e intima persuasione della sua intrinseca forza morale. Il patriottismo ne sarebbe il fattore generativo.

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I valori cui l’Occidente è pervenuto – ad esempio, per citare uno di quelli cui Meloni fa riferimento, la dignità della persona da cui discendono i suoi fondamentali diritti, inalienabili e imprescrittibili – sono stati senza dubbio proclamati universali, ma la loro concreta applicazione a livello universale è stata frutto di un percorso storico assai contrastato.

Fin dal momento aurorale. Basta ricordare le difficoltà di introdurre nelle colonie francesi la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Poi, in linea generale, le minoranze interne all’Occidente (si pensi agli ebrei) hanno potuto godere di tali diritti solo dopo conflitti anche violenti, mentre all’esterno la loro esportazione è avvenuta attraverso guerre e vessazioni.

Alla base di queste laceranti contraddizioni sta proprio l’idea di nazione, ai cui appartenenti si riservava quel che era, in teoria, proclamato universale.

Appare, quindi, piuttosto ingenua la tesi del “western nationalism”. La stessa concezione che ha minato l’immagine dell’Occidente offerta oggi sul mercato politico globale dovrebbe diventare il motore della sua affermazione planetaria. Difficile ritenere che i nuovi Stati dell’emisfero meridionale possano dimenticare le pratiche colonialistiche e imperialistiche con cui per secoli l’Occidente si è con essi rapportato. E, all’interno, come proporre ai giovani il valore del patriottismo, evitando di ricordare le tragedie e le atrocità che si sono in suo nome giustificate sul suolo europeo?

Meloni ha ragione nel censurare la “cancel culture” che, anziché trarre dalla storia gli orientamenti per costruire un futuro migliore, ritiene di poterlo edificare cancellando l’eredità del passato. Ma non si accorge che, nei confronti di un concetto centrale della sua cultura politica – il richiamo alla nazione –, procede allo stesso modo. Ne elimina, infatti, dal suo discorso la pesante eredità.

Forse l’Occidente avrebbe qualche migliore opportunità di successo presentandosi ai nuovi Stati-nazione in altro modo. Ad esempio, potrebbe far presente che la memoria degli errori (e orrori) connessi al manufatto politico-culturale della nazione è all’origine di ripensamenti che hanno avviato il conseguimento di qualche provvisoria conquista civile.

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