I missili iraniani servono a Netanyahu

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Proteste anti-israeliane a Teheran, 1 ottobre 2024 (AP Photo/Vahid Salemi)

La convulsa giornata di martedì 1 ottobre nel Vicino Oriente forse cambierà la faccia della storia. O forse no. Spieghiamo, cominciando da due fatti che sembrano aneddotici ma che nascondono un significato ben più profondo.

Il primo è che i 180 missili lanciati dall’Iran verso Israele hanno fatto pochi danni materiali e una sola vittima: un palestinese di Jenin, in Cisgiordania.  È un caso, ovviamente, ma altamente simbolico: dall’epoca dell’ascesa al potere di Ruhollah Khomeini nel 1979, l’Iran ha sempre usato i palestinesi come pedine del suo sogno – un incubo, in realtà – imperiale.

Gli iraniani disprezzano gli arabi, è storia vecchia di secoli, almeno da quando il loro paese fu umiliato dagli arabi nel VII secolo. Non deve quindi sorprendere che tutti i proxy di Teheran nella regione siano arabi: i libanesi di Hezbollah, i palestinesi di Hamas e del Jihad islamico, alcune milizie sciite irakene, e gli Houthi in Yemen.

Gli arabi sono, per l’Iran, dispensabili, carne da macello da sacrificare per la maggior gloria della grande Persia.

Il grande regalo

Il secondo fatto è più tragico, ma ci offre, a differenza del primo, uno sguardo sul futuro anziché sul passato: pochi istanti prima del lancio dei missili iraniani, due ragazzi di Hebron hanno ucciso sei passanti a Jaffa, alla periferia di Tel Aviv. L’attentato, dicono le agenzie, non è stato rivendicato da nessuna organizzazione.

È lecito temere che questo sia il futuro che Israele, con la sua politica di terra bruciata nei confronti degli arabi, sta preparando a sé stesso: una sorta di costante guerriglia a colpi di attentati indiscriminati condotta da individui isolati e disorganizzati, animati ormai solo da un’inestinguibile sete di vendetta.

Il terrorismo è l’arma degli sconfitti: sono sconfitti storicamente e non fanno altro che aggravare la causa che dicono di difendere; ma, come tutti i terrorismi, lasciano sempre dietro di sé morte e distruzione.

Comprensibilmente, l’attacco missilistico a Israele di ieri ha rubato spazio a questi due fatti minori, benché simbolici. Quell’attacco è il miglior regalo che Teheran potesse fare a Netanyahu, al suo governo e alla classe politica israeliana nel suo insieme.

Due mesi fa, dopo l’assassinio di Ismail Haniyeh, il leader di Hamas, avanzavo prudentemente su queste colonne l’ipotesi che Israele volesse provocare una guerra con l’Iran e trascinarvi gli Stati Uniti. L’estensione della guerra di Gaza alla Cisgiordania e, soprattutto, al Libano, con la decapitazione di Hezbollah e l’ingresso delle truppe di terra, sembra confermare quella ipotesi.

A Gerusalemme si sapeva che Teheran non poteva non intervenire, e gli iraniani si sono buttati nella trappola.

La chiusura di Netanyahu

Nei due mesi che ci separano dalla morte di Haniyeh molte cose sono accadute su quel teatro regionale. Ma, forse, uno dei fatti più importanti ha avuto luogo a New York, all’assemblea generale dell’ONU.

Il nuovo presidente iraniano, Masoud Pezeshkian, è arrivato con un rametto di ulivo, dicendosi disposto a riaprire tutti i dossier e a dialogare con gli Stati Uniti. Forse non è necessario ricordare che il presidente iraniano – sia esso un «falco» o una «colomba» – è eletto solo se la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, lo autorizza, e dice quello che dice solo se la Guida suprema lo autorizza.

Tre giorni dopo, Netanyahu si recava precipitosamente a New York, dopo aver fatto sapere che non era sua intenzione farlo. Il suo discorso, particolarmente aggressivo e irriverente, era chiaramente volto a sabotare sul nascere ogni tentativo di appeasement tra Washington e Teheran, e a riannodare i fili con il «partito israelo-saudita» negli Stati Uniti, di cui Trump è la pedina ubbidiente, ma che va oltre il magnate newyorchese (il capofila di quel partito, John Bolton, ex consigliere alla sicurezza nazionale di Trump, ha dichiarato che non lo voterà il 5 novembre).

Mentre Netanyahu parlava, a Beirut l’esercito israeliano uccideva in un sol colpo 500 persone, tra cui il capo di Hezbollah: se il messaggio dalla tribuna dell’ONU non fosse passato, in riserva c’era il fait accompli della capitale libanese.

Come scrive il Times di Londra stamattina, «After latest humiliation, Iran had little choice but to strike», dopo l’ultima umiliazione l’Iran non aveva molta scelta se non colpire.

Vero, ma la decisione non dev’essere stata facile: su un piatto della bilancia c’è, per il regime di Teheran, la necessità vitale di sottrarsi al gioco israeliano, per riprendere fiato e salvare quello che si può salvare dell’economia a pezzi del paese e, di conseguenza, della popolarità ugualmente a pezzi del regime; dall’altra, la necessità altrettanto vitale di non perdere la faccia tra i suoi proxy arabi e, soprattutto, tra i pochi sostegni domestici rimasti agli ayatollah, i pasdaran, i pretoriani del regime.

Se Israele contrattacca, come è ormai assai probabile, il regime avrà perso comunque, proprio come voleva Netanyahu.

La scommessa sull’America

Ma c’è di più. Israele sa che l’Iran non costituisce una minaccia: non ha (ancora) la Bomba, e manda avanti i suoi clienti arabi che, prima del 7 ottobre, erano fastidiosi ma non minacciosi.

Ovviamente Israele vuole evitare che l’Iran si doti della Bomba, ma proprio contro quel rischio era stato faticosamente costruito l’accordo del 2015, violentemente osteggiato dagli israeliani e cancellato da un ubbidiente Trump.

Il calcolo strategico di Netanyahu comprende certamente Gaza, la Cisgiordania e il Libano (e anche, è lecito sospettare, i cittadini arabi di Israele), ma va probabilmente al di là, puntando a Washington.

Molti esperti qualificano il primo ministro israeliano – che a lungo ha vissuto negli Stati Uniti – come un capo-corrente di fatto del Partito repubblicano americano; e infatti agisce come tale, portando alla candidatura Trump un sostegno che potrebbe rivelarsi decisivo.

Gli Stati Uniti hanno dimostrato di non essere più in grado di farsi ubbidire nemmeno dai dirigenti di uno Stato – Israele – che dipende in larga misura da loro. A questo si aggiunge che l’amministrazione Biden-Harris è stata tanto più balbettante e impotente quanto più strattonata in tre direzioni diverse.

Da una parte, dal «partito iraniano» (opposto a quello israelo-saudita) di Kissinger-G.W. Bush-Obama, per il quale l’Iran sarebbe l’unica forza in grado di stabilizzare, se non altro relativamente, il Medio Oriente, «indipendentemente da chi è al potere a Teheran» (Kissinger). Da un’altra parte dall’ala idealista del Partito democratico, quella convinta che gli Stati Uniti hanno una missione di pace, democrazia, libertà e quant’altro da compiere nel mondo e che è a disagio di fronte ai massacri compiuti impunemente dagli israeliani. Infine, ma più importante, dalla linea strategica americana che, almeno dalla fine degli anni 1960, consiste a schierarsi con Israele «whatever it takes», a qualunque costo.

Cosa può fare Israele

In risposta ai 180 missili di ieri, Israele potrebbe lanciare una rappresaglia massiccia e devastante, magari attaccando i centri di sviluppo dell’arma nucleare iraniani o addirittura colpendo Teheran (opzione, quest’ultima, assai improbabile oltre che inutilmente stupida). Il che equivarrebbe a una dichiarazione di guerra, di fronte alla quale Teheran potrebbe o capitolare, trascinando nel capitombolo ayatollah e pasdaran, oppure lanciarsi in un contrattacco sterile militarmente e suicida politicamente. Non è escluso che il governo israeliano punti a quest’ultima ipotesi per trascinare in guerra gli Stati Uniti.

Biden ha ripetutamente escluso quella eventualità, ma non sarebbe la prima volta che il presidente americano è costretto da Netanyahu a tornare sui suoi passi. E una partecipazione americana al conflitto significherebbe quasi certamente la vittoria di Donald Trump il 5 novembre.

È vero che gli elettori americani non si interessano alla politica internazionale. Ma proprio per questo sono insofferenti – e lo sono sempre di più – verso ogni coinvolgimento internazionale del paese. Dopo l’attacco di ieri, il candidato repubblicano ha suonato il suo solito spartito, riaffermando che, se alla Casa Bianca ci fosse stato lui, tutto questo non sarebbe successo.

Un’affermazione inverificabile, ovviamente, ma anche in questo caso non è la prima volta che le strampalate dichiarazioni di Donald Trump fanno breccia nell’elettorato: è sotto l’amministrazione Biden-Harris che sono scoppiate le guerre in Medio Oriente e in Ucraina e, a quell’elettorato, tanto basta.

Netanyahu forse sogna di entrare nell’Olimpo degli eroi di Israele a fianco di Ben Gurion, Golda Meir, Moshe Dayan e Ariel Sharon. Anzi, a maggior titolo, perché lui non vuole risolvere il «problema palestinese», ma eliminarlo. E a molto maggior titolo, perché potrebbe anche diventare il primo leader israeliano ad aver piazzato un «suo» uomo alla Casa Bianca.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 2 ottobre 2024
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