Verso la lenta morte del Libano

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I quotidiani libanesi parlano di un fiume di fuoco che nella notte si è abbattuto su Beirut sud, ma non solo. Il quotidiano L’Orient Le Jour riferisce di un effetto simile a un prolungato terremoto. Una palla di fuoco è apparsa nel cielo di Beirut dopo che è stata colpita una fabbrica.

Quella in corso è una sfida esistenziale per il Libano, che va vanti ininterrottamente dal 27 settembre, quando con il leader di Hezbollah Hasan Nasrallah perirono, nella distruzione di sei palazzi di dieci piani sotto uno dei quali si trovava il suo bunker, 492 persone. Poi, per eliminare il suo successore designato, Said el Din, sono state impiegate 80 tonnellate di esplosivo.

Prima del diluvio di bombe di questa notte i morti venivano stimati in 2100, senza che nessuno però potesse contare quelli rimasti sotto le macerie che vengono rimosse solo in piccola parte. Il totale ufficiale comunque è più del doppio di quelli che si verificarono nel corso dei 33 giorni di guerra tra Hezbollah e Israele nel 2006. Fino a ieri i profughi raminghi per il Libano venivano stimati in 1.200.000. Ora?  Cosa accadrà in queste ore per le strade del Libano?

***

Difficile seguitare a parlare di guerra contro Hezbollah, tutto il Libano è coinvolto. Ma con una lentezza incredibile il Libano ancora non ha colmato il vuoto più inaudito, quello presidenziale: l’eredità più oscena che Hezbollah e il suo fedele alleato, il Presidente della Camera lasciano, è la vacanza presidenziale che si protrae da due anni – e che dal 27 settembre non si è neanche tentato di colmare.

Nella vacanza presidenziale è evidente che ci sono correità: gli eterni litigi maroniti, cui spetta la presidenza, per accaparrarsi il sostegno della nutrita pattuglia di deputati di Hezbollah e altro ancora. Ma se il Libano non risorge in queste ore, se non trova la forza di dirsi esistente ora, subito, forse non potrà farlo mai più. L’imminente inizio dell’occupazione di terra del sud potrebbe decretarne la morte se prima di essa, ormai alle porte, non si trovasse la determinazione di convocare il Parlamento e votare immediatamente per il Presidente – e quindi eleggerlo.

Chi dimostra di aver capito l’enormità della sfida per il futuro è la Conferenza episcopale maronita, che già due giorni fa ha dato la sua risposta in tre punti:

  • la guerra distrugge tutto il Paese (dunque non solo Hezbollah);
  • lavorare per un cessate il fuoco sulla base di una immediata applicazione della risoluzione 1701 dell’ONU,  che dal 2006 dispone il ritiro di ogni miliziano – quindi anche di Hezbollah – a trenta chilometri dal confine israeliana;
  • occorre dare immediatamente al Paese il nuovo Presidente della Repubblica.

Le parole dei vescovi sono queste:

  • i vescovi esprimono “il loro dolore di fronte all’orrore della catastrofe che ha colpito il Libano, dalla costa alle montagne, con una distruzione che ha spesso colpito civili innocenti”;
  • sul cessate il fuoco: “assumersi le proprie responsabilità lavorando per un cessate il fuoco immediato e attuando le decisioni internazionali”, con un riferimento specifico alla Risoluzione 1701 delle Nazioni Unite;
  • raccomandano al Parlamento “di fare il proprio dovere affinché, dopo una lunga attesa e molte sofferenze, venga eletto un nuovo Presidente della Repubblica per completare il quadro delle istituzioni costituzionali”.
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Tareq Mitri.

Sulla stessa linea di questa posizione si è posto, proprio in quelle ore, uno dei nomi più importanti e qualificati della politica libanese: il cristiano Tareq Mitri, ex ministro e accademico di fama mondiale.

In un’intervista ha detto: “La finestra diplomatica è piccola e l’intransigenza e il trionfalismo israeliano dureranno. Ma esiste e, affinché si apra un po’ di più, c’è un lavoro che i libanesi devono fare. Sul piano interno, è il momento di mostrare solidarietà e fratellanza, a prescindere dalle nostre differenze politiche. Non è il momento del sarcasmo, né tanto meno dell’esultanza. Se vogliamo fare qualcosa, la preoccupazione di salvaguardare il nostro Paese deve trascendere qualsiasi risentimento reciproco. Questo significa capire che indebolire Hezbollah non sarà una vittoria per chi si oppone alle sue politiche. Per poter fare un serio lavoro diplomatico, è necessario che ci sia un consenso nazionale sul fatto che l’attuale guerra è una guerra contro il Libano, non solo contro Hezbollah”.

La finestra diplomatica, l’unità nazionale, la solidarietà – Mitri spiega così il senso di una decisiva correzione dell’ordine delle necessità richiesta dall’ex premier con cui ha servito, il musulmano sunnita Fouad Siniora: eleggere subito il Presidente perché sia lui a chiedere al governo di mettere in atto la 1701 e avanzare formalmente a nome dello Stato il cessate il fuoco.

È il giusto filo logico e consequenziale, istituzionalmente ineccepibile, delle parole dei vescovi spiegando perché si debba procedere così: le decisioni vanno prese da chi può assumerle, è il Paese, attraverso le sue istituzioni nazionali, che deve agire a nome di tutti e non a nome di componenti confessionali.

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Ma la politica traccheggia. Sembrava, tardivamente e timidamente orientarsi su questa strada, fino a che non è arrivato in visita il ministro degli esteri iraniano, e l’uomo chiave di questa drammatica vicenda, l’eterno alleato di Hezbollah: lo sciita Nabih Berri che presiede la Camera, e quindi il solo che può convocare il Parlamento, ha fatto parziali o complesse retromarce. Incredibilmente si seguita a legare la richiesta di cessate il fuoco a quello per Gaza, o il raggiungimento del cessate il fuoco all’elezione di un Presidente.

Il Libano sta morendo nella sua stessa inazione come Stato: ancor più in questa drammatica circostanza qualsiasi iniziativa libanese non va assunta da esponenti pur autorevoli in quanto esponenti delle comunità, neanche se fossero uniti nelle richieste, ma dai rappresentati dello Stato, per dimostrare che esiste. Questo è il punto ormai di vita o di morte.

Lo Stato è l’unica garanzia di esistenza dello Stato, non di una sommatoria di comunità. Altrimenti non resterà che una cantonalizzazione, almeno di fatto, del Libano, nel momento in cui il Paese è percorso da un numero oggi incalcolabile di profughi interni, quasi tutti sciiti. Quanti saranno diventati in queste ore? Se lo Stato non si dimostrasse esistente e capace di agire nell’interesse nazionale, chi li accoglierebbe, in nome di cosa?

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È un’emergenza colossale per un Paese di meno di 5 milioni di abitanti, già alle prese con il problema che non sa affrontare di un’enorme presenza di profughi siriani e palestinesi. Così si rischia la chiusura in cantoni comunitari, identitari, si rischiano risentimenti settari.

Il Libano è alla prova esistenziale della dimostrazione della sua esistenza, ma il suo destino è cruciale per tutta la regione e forse per il mondo: è il destino dell’unico Stato interconfessionale esistente nella regione. Se fallisse, quantomeno nei fatti, altri Stati le cui unità reali sono già fittizie potrebbero unirsi in una frantumazione regionale. Basta guardare all’attuale Siria e all’Iraq per temerlo.

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