Dai confini dell’abisso, guardando oltre

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Dopo la decisione dell’esercito israeliano di colpire i caschi blu di stanza nel Sud del Libano il ministro della Difesa, Crosetto, ha parlato di possibile crimine di guerra. Le operazioni di terra potrebbero portare presto a un ingresso massiccio di fanteria e carri armati. Nella zona si sa che ci sono ancora presenze di civili, intrappolati nelle loro terre o nei loro villaggi distrutti dalla forza dei combattimenti.

La gravità dell’accaduto è riferita da tutti i quotidiani vista anche la numerosa presenza di soldati italiani. Così com’è riferita con il dovuto rilievo da tutti la violenta esplosione che ha avuto luogo a Beirut, causando 22 morti e un centinaio di feriti. L’obiettivo era uno degli uomini di Hezbollah, Wafik Safa, ritenuto il più importante nei ranghi di Hezbollah dopo Hasan Nasrallah, ucciso il 27 settembre. Si scrive che sia sopravvissuto.

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I fatti libanesi si inseriscono in un contesto più vasto. A Gaza tre soldati israeliani sono stati uccisi in combattimenti nel centro della striscia, dove la situazione ospedaliera viene definita al collasso.

Anche in Libano lo è. Il reparto per grandi ustionati dell’ospedale Geitaui, a Beirut, viene definito dal quotidiano francofono L’Orient Le Jour «ai confini dell’abisso» e l’Ufficio Internazionale per le Migrazioni ha chiesto con urgenza un’iniziativa per il milione e duecentomila libanesi fuggiti da casa, per gran parte dei quali non c’è posto nei rifugi.

Gli attacchi mirati sono costanti anche in Siria, dove negli ultimi giorni sono giunti 300mila fuggiaschi dal Libano. A tutto ciò va aggiunto l’imminente attacco contro l’Iran, annunciato dopo l’azione condotta contro Israele con missili balistici il primo ottobre, ultimo anello di una catena di eventi che hanno innalzato il livello dello scontro.

E sempre dall’Iran fonti definite attendibili da Middle East Eye riferiscono che sarebbe agli arresti il potentissimo generale comandante dell’unità di élite dei pasdaran. Lui nei giorni scorsi era in Libano e avrebbe dovuto partecipare all’incontro con il successore di Nasrallah durante il quale Israele colpì il suo bunker: all’ultimo momento il generale avrebbe dato forfait.

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Se tutto questo è riferito e commentato variamente da tutti i giornali, il quadro complessivo indica chiaramente un’accelerazione che si verifica nell’imminenza delle elezioni americane, con il Presidente che non è candidato e diverse, plausibili ripercussioni elettorali di ogni passo della Casa Bianca. Le note divisioni nel Consiglio di Sicurezza fanno il resto.

Il mondo arabo è chiaramente spaccato in due: da una parte l’area «sotto stress», Iraq, Siria Libano, senza dimenticare lo Yemen, e quella delle monarchie petrolifere, Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, che teme possibili colpi di coda iraniani contro le sue installazioni petrolifere e per questo ha ribadito la sua neutralità al ministro degli esteri iraniano in visita in quelle capitali.

Uno shock petrolifero danneggerebbe tutti i consumatori dei derivati del petrolio, un attacco contro le proprie installazioni soprattutto i produttori. Poi ci sono le numerose basi americane nell’area, a partire dalla più grande, quella nel Qatar, per arrivare a quelle in Iraq.

Non sembra questa l’ora dei piani di pace, che però dovrà arrivare. Ma quell’ora arriverà. Non è saggio farsi trovare impreparati.

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Il mondo arabo sta cambiando: un tempo i Paesi del Golfo erano affluenti, economicamente ma non altrimenti. Politica, cultura, complessità sociale, erano il retaggio dell’area sotto attacco, in piena devastazione. Oggi i principali epicentri del dialogo interreligioso, avviati dopo il trauma del 2001, sono in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti, in Arabia Saudita.

Gli stessi centri studi e documentazione del Golfo hanno grande rilevanza rispetto al passato. La Santa Sede stessa ha recentemente istituito un vicariato per la Penisola Arabica, dove la presenza autoctona di cristiani è molto contenuta, ma non quella numerica, essendo molto numerosa la presenza di immigrati di fede cristiana.

Il grande Levante è in crisi, ma resta il cuore della complessità; la prima linea della riedizione plurale di un mondo che ha bisogno di ripensarsi è e rimane lì. Allora non si possono trascurare i due grandi scenari che si delineano.

Gli Stati del Levante sono sotto stress, la loro storia moderna che ha portato al loro «fallimento» sono un mix di colpe: per non ripercorrerle tutte basterà dire che colonialismo, panarabismo e panislamismo vi hanno dato il peggio di sé. La questione palestinese, in tutta la sua storica gravità, non ha avuto poco ruolo nell’aggravarlo. Poi il khomeinismo. E domani?

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Al di là delle scelte euro-occidentali, un disimpegno nei confronti di questo vasto Levante, un’assenza di visione e di fondi (enormi) necessari a rimetterlo in piedi non potrebbe che condurre a una plausibile frammentazione su linee etniche tribali. In questi tre Paesi uno stipendio non basta a comprare un chilo di pace, grosso modo.

Gli Stati non hanno funzionato: e quando gli Stati non funzionano, non creano cittadinanza, e così è stato in Iraq, Siria e in Libano dal 1975, il tribalismo diviene l’unica realtà di riferimento, soprattutto quando la cinghia non ha più cosa stringere. Nella disattenzione dei petromonarchi, concentrati su sé stessi e i propri paesi, la tendenza potrebbe essere quella a rinserrarsi in spazi chiusi, omogenei anche confessionalmente. Questo potrebbe avere ricadute non solo geografiche, ma anche culturali sull’enorme diaspora siriana, irachena, libanese. Potrebbe essere l’esito di azioni belliche e inazioni politico-economiche.

Una scelta diversa da parte dei petromonarchi è possibile? Teoricamente sì. Si tratterebbe in sostanza di ricordarsi di quanto disse papa Francesco ai tempi della pandemia: da una crisi si esce migliori o peggiori, mai uguali.

Per uscirne migliori si dovrebbe ricostruire un Levante devastato in una prospettiva federativa, inclusiva. Non comunità che si chiudono impaurite dalla storia o da quella vicina, ma comunità che riconosciute come tali si incontrano con le altre per dare a tutte un futuro migliore: tutto sommato i cristiani del Medio Oriente vivono qui, per questo loro dovrebbero essere un possibile motore di questa visione sia sul territorio che nella diaspora. Queste diaspore oltre che molto numerose sono anche affluenti, in certi casi.

In vista di questa «speranza» (o illusione) c’è una previsione dell’attuale costituzione libanese, gli accordi di pace di Tajef, che appare decisiva: in Libano esiste una Camera, eletta su base confessionale e paritaria tra musulmani e cristiani. La previsione costituzionale oltre a questa ipotizza una seconda Camera, eletta su base partitica, con partiti politici e quindi interconfessionali. L’idea è: tutte le garanzie alle comunità, tutti i diritti agli individui. Potrebbe essere la bussola politica di una qualche forma di Federazione del levante di domani. Forse.

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