Peraltro un nome c’è e la foto del protagonista è in prima pagina: p. Giuliano Stenico. C’è la storia di un’istituzione sociale di grande rilievo nell’ambito di Modena e dell’Emilia-Romagna: il Centro di solidarietà CEIS. Ma, se si toglie il contesto familiare, la vita comune della sua scelta religiosa, la comunità come strumento essenziale di intervento sociale e il contesto territoriale, resterebbe una biografia monca. «Del resto non ho mai pensato alla mia felicità personale. Ritengo abbia poco senso farlo. Ho invece cercato di fare cose che abbiano senso per me e per gli altri. È il significato che riempie, anche se comporta affrontare difficoltà, sofferenze e dolore» (p. 16).
Una presenza discreta, poco esibita e rumorosa, quella di p. Giuliano, ma è invece molto visibile la Fondazione CEIS e il Gruppo CEIS che ne costituisce la struttura. 33 comunità dislocate fra Modena, Bologna, Parma, Ravenna, Forlì; 2 centri diurni per gli anziani; 76 appartamenti; 544 operatori; 101 volontari; 3.437 assistiti; 14.792 ragazzi contattati nelle scuole; 3 indirizzi prevalenti: servizi minori, tossicodipendenze, consulenze scolastiche ecc.
Cosa può venire da Gazzadina?
Ho attraversato le 300 pagine con una triplice attenzione: il vissuto, il metodo di intervento sociale, la fede.
All’accurata disamina dei metodi e dei criteri per l’intervento sociale è premessa la narrazione di vita che illumina gli elementi valoriali su cui poi si innesterà la competenza tecnica e lo sviluppo delle modalità di servizio.
Dai profondi legami familiari in un paese alla periferia di Trento (Gazzadina) negli anni ’50 del secolo scorso al modo di coltivazione e di rapporto con la terra e i suoi frutti, dalle forme educative essenziali ed efficaci all’approccio ai poveri, dalla prima educazione scolastica agli anni dell’adolescenza nei collegi dei padri dehoniani: il percorso è descritto con molta simpatia, ma senza fronzoli. Ecco cosa scrive del suo paese, Gazzadina: «Oggi quel paese non esiste più. Certo c’era un controllo sociale molto rigido, le possibilità di realizzazione personale erano limitate, l’accesso alla cultura difficoltoso, le disuguaglianze sociali ancora molto forti ed evidenti» (p. 44).
Dalle regole alle relazioni
Un cammino formativo coerente e scandito, capace di abilitare al nuovo. All’indomani del noviziato, quando il post-concilio alimenta il rinnovamento ecclesiale e i moti sociali scombinano le rigidità delle differenze di ceto e di cultura, entra anche negli istituti formativi ecclesiastici (il liceo Leone Dehon di Monza) il vento delle novità impreviste e delle sfide radicali.
Non casualmente si accenna nel testo ad alcuni formatori e insegnanti interni di valore, ma anche a presenze esterne e preziose come quella di Giovanni Bianchi, poi presidente delle ACLI nazionali, deputato e tra i fondatori dell’“Ulivo” (il centro-sinistra), e di Umberto Galimberti, assistente di E. Severino, divenuto poi noto filosofo, saggista e psicanalista.
Al ritmo della vita interna di preghiera e studio si aggiunge una crescente attenzione esterna, ai movimenti sociali e, in particolare, con l’attività di “Mani Tese”, organismo di volontariato internazionale che celebra quest’anno (2024) il 60° di vita.
L’apertura missionaria, il rinnovamento teologico e il flusso di informazioni dai paesi del “terzo mondo” modificano la temperie interna, evidenziano le differenze e i contrasti, creando un “micro-clima” di grande efficacia formativa.
Non casualmente si profilano nuove domande sia per la vita religiosa, sia per lo studio filosofico-teologico. Nel 1971 si avvia, a Modena, una piccola comunità religiosa alla ricerca di un passaggio fra comunità di regola e comunità di relazioni, fra automantenimento e preparazione al sacerdozio, fra ministero e professionalità. «Soprattutto agli inizi, la comunità, composta da studenti di teologia che si preparavano al sacerdozio fuori del seminario e aderivano pienamente alla concezione di Chiesa popolo di Dio, propria del concilio Vaticano II, che si esponevano su temi caldi a livello culturale ed anche a valenza politica, era vista da parecchi sacerdoti con sospetto, da alcuni con esplicita disapprovazione […] Oggi la situazione nella percezione ecclesiale è molto cambiata» (p. 89).
La prefazione del volume da parte del card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, e l’aperto sostegno di Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Carpi, lo testimoniano.
Non perdere nessuno
Da quel crogiolo e dall’impatto devastante delle tossicodipendenze nasce nel, 1982, la prima comunità del CEIS a Modena dedicata al contenimento, alla cura e al rientro nella vita familiare e sociale dei ragazzi.
La scelta di sottrarsi alle contrapposizioni ideologiche, di fare dell’esperienza comunitaria un vettore trainante del recupero umano e civile, di privilegiare un metodo sottoponendolo a verifica e mutamenti, di avvertire le sfide delle nuove povertà come possibili risorse, di sviluppare una “governance” che unisca stabilità, comunicazione interna e verifica: sono alcuni degli indirizzi che hanno accompagnato il tumultuoso sviluppo di iniziative, comunità, gruppi, centri di studio.
«Il CEIS è nato così poiché, a differenza di altre cooperative, non poteva usufruire all’inizio di alleanze con altri enti e istituzioni. Si è dimostrata una minoranza attiva dal comportamento consistente, con una metodologia definita, caratterizzata da un approccio alle fragilità – quasi sempre emergenze sociali – coerente, solido, implementato nel tempo. Il CEIS ha puntato sul realizzare contesti relazionali, spesso comunitari, quasi sempre di gruppo, favorenti lo sviluppo, la maturazione e la riabilitazione delle persone, mettendole al centro. Non le ha accolte a partire dalle loro eventuali patologie, ma dalle potenzialità. Non le ha osservate solo con la lente dello specialista, ma coinvolgendo la globalità della propria persona. È stato ed è innovativo nella cultura dell’intervento diversificandosi da approcci classici rispetto, per esempio, alla malattia mentale, ai disturbi alimentari, ai disturbi adolescenziali. Nella governance si è sforzato e si sforza di coniugare direttività e comunicazione; l’area amministrativa, tecnica, educativa e terapeutica devono operare congiuntamente. Nel rapporto con le istituzioni ha evitato ogni collateralismo, coltivando una relazione strutturata, collaborativa e critica allo stesso tempo» (pp. 93-94).
La mappa delle emergenze
Il racconto degli interventi sociali del CEIS sul territorio è una cavalcata di informazioni, sollecitazioni, cambi programmati di modalità che mette a prova l’attenzione, ma costituisce una preziosa mappatura delle emergenze sociali e delle nuove povertà emerse in questi decenni nel nostro contesto, anche nazionale e occidentale. Dalle dipendenze patologiche che vanno dalle droghe ai disturbi alimentari, dalla gestione dell’Aids ai “maltrattanti” all’interno delle famiglie, dalle condizioni delle donne “della tratta” con figli ai crescenti disturbi psichici dell’adolescenza, fino ai migranti.
Il racconto sottolinea i singoli passaggi, le ragioni che li hanno motivati, i mutamenti di competenze che richiedono, la crescente collaborazione con le strutture di intervento pubblico, la necessità delle relazioni con esperienze di altri paesi e l’opportunità di un approfondimento (istituto universitario Toniolo) sia per la formazione degli operatori, sia per ricerche teoriche.
Mi limito ad accennare a tre passaggi di emergenze considerate insuperabili nel momento della loro evidenza.
Il primo è quello originario della droga giovanile degli anni ’70-’80. In una lettera pubblica di un gruppo di genitori (1981) si dice: «Eravamo timorosi di tutto, eravamo schiacciati, abbiamo tentato ogni strada per aiutare i nostri ragazzi, le cliniche, gli ospedali in Italia e all’estero, tutto inutile». Poi i pellegrinaggi nelle comunità e, infine, la decisione di sostenere l’avvio del CEIS a Modena. «È tempo che si parli dei nostri figli come persone e non come esseri perduti» (p. 97).
L’affannosa corsa contro il tempo, la necessità di raccogliere fondi, competenze e strutture si sono solidificate in pochi mesi in un percorso preciso e progressivamente convincente. Non era facile gestire la disperazione delle famiglie, l’imprendibile identità dei ragazzi e le fragilità contraddittorie della narrazione pubblica. Negli ultimi anni il problema ha perso le caratteristiche emergenziali, ma è tutt’altro che risolto e merita costante attenzione.
AIDS e immigrati
Difficile oggi percepire l’onda di disgusto, la facile condanna e l’avvelenamento di molte relazioni all’apparire della malattia dell’AIDS. Il «se la sono cercata» era ampiamente condiviso. Il racconto dell’apertura di Casa San Lazzaro (Modena) è ricco di colpi di scena, di resistenze e opposizioni tenaci, di testimonianze commoventi. «Oggi, a differenza degli inizi, gli ospiti di Casa San Lazzaro vengono accolti non tanto per la malattia in sé, che potrebbe benissimo essere curata da soli conducendo una vita regolare, ma perché affetti da altri problematiche come la dipendenza cronica da sostanze e alcool, i disturbi di personalità, l’adesione irregolare alle cure, l’assenza di una rete familiare e amicale, la precarietà economica» (p. 184).
L’emergenza dei minori stranieri non accompagnati, i MSNA, è cominciata da non molti anni. Difficile da gestire per i numeri, le difficoltà dei ragazzi all’adattamento, le resistenze di alcuni ambiti civili e, soprattutto, la sordità “invincibile” delle istituzioni politiche. In particolare delle forze politiche di destra, che riducono l’intera questione delle migrazioni a problemi d’ordine pubblico.
Le buone esperienze costruite con i minori italiani (provenienti dal carcere e con problemi comportamentali e psichici), in particolare nei moduli “ad alta intensità educativa”, si scontrano con l’imperativo che i minori stranieri ricevono dalle famiglie di origine: mandare soldi a casa. In un contesto legislativo che non consente elementi per contenere i trasgressivi. «Questa situazione incresciosa e vergognosa non interessa a nessuno, anzi se tenti di informare correttamente la reazione è irosa. L’ho sperimentato più volte. Un tempo non sarebbe mai successo […] È la prima volta che mi trovo ad affrontare un’emergenza che non ha soluzioni accettabili. I racconti dei migranti a cui vuoi bene ti immergono in un mare di violenza, sofferenze, ingiustizia e perfino morte: di fronte a ciò sei del tutto impotente, mentre l’Occidente continua inutilmente a inseguire il superfluo che mai sazia e non vuole essere disturbato. Pensa che la medicina al suo malessere sia la sicurezza, ma l’esterno non ha mai guarito nessuno. È l’assurdo che trasborda» (pp. 274-275).
La fede nelle note
Le cooperative sociali e le iniziative sulle emergenze vivono in una dialettica permanente con l’amministrazione e la politica. La semplice opposizione non ha fiato lungo, ma neppure la facile assimilazione. È una costante ricerca per un approccio condiviso ai problemi che si forma su atteggiamenti etici di fondo, al di là delle appartenenze partitiche, senza la piaggeria dei questuanti e senza la prosopopea delle istituzioni.
«La circolarità del potere sussidiario esprime meglio come, a proposito del lavoro nel sociale, non conta tanto rivendicare primati o priorità di iniziativa, sia essa presa da cittadini o da amministrazioni pubbliche, conta invece il fatto che si alimenti una necessaria integrazione delle iniziative di ogni tipo, un loro reciproco aiutarsi. È credere all’idea di una relazione pubblico-privato di tipo virtuoso che non si basa su tensioni e sospetti, su volontà elitarie di potere e di centralità assoluta, ma di attivazione di partecipazioni larghe, focalizzate sulle risposte da offrire a tutte le forme di fragilità» (288).
Di fede non si parla molto, a parte le pagine dedicate al cammino formativo. Ma, se essa fosse espunta, il racconto perderebbe il suo centro e gran parte della sua originalità. Gratitudine per la fede e la religiosità della famiglia e degli anni di studio, l’impatto profondo con le novità apportate dal Vaticano II, la centralità della Scrittura accanto al sacramento, la convinzione che nessun ruolo ecclesiale garantisce alcunché senza una maturità umana sufficiente, l’indispensabile responsabilità personale pur sempre in un contesto comunitario e di appartenenza, un incontro personale con il Signore Gesù e la sua tradizione ebraica, la collaborazione con i laici, la verifica storica dell’adesione al cattolicesimo soprattutto nel servizio ai poveri e nella difesa dei valori civili fondanti il vissuto collettivo: questi sono alcuni tratti di un percorso non privo di suggestione e di insegnamenti.
E, alla fine, riemerge, nell’asserita laicità dell’impresa, la forza dei riferimenti valoriali della dottrina sociale della Chiesa. La nostra «non è una scelta confessionale, l’antropologia e la visione sociologica che sono sottese non sono vincolate ad un’esplicita adesione alla fede cristiana. Il principio personalista, il bene comune, la destinazione universale dei beni, la sussidiarietà, la partecipazione e la solidarietà, in aggiunta ai concetti di fratellanza e amicizia sociali introdotti da papa Francesco: sono queste le linee guida, irrinunciabili e coerentemente collegate» (p. 284).
Sono sei le pagine dedicate espressamente a “l’evoluzione della mia fede” (83-89) e in esse spicca il riferimento al Vaticano II e alla consistenza delle note, più estese del testo. E nelle note le citazioni più care della Scrittura. Talora succede che il “sugo della storia” sia proprio nelle note a piè di pagina.
- Giuliano Stenico, Intuizioni di bene. Gruppo CEIS, a cura di Alessandro Alvisi. Artestampa Modena 2024, pp. 305. Al volume per uso interno è succeduto un secondo che andrà in libreria a fine novembre, Coordinamento editoriale: Carlo Bonacini Editing: Maria Pia Quitadamo Grafica e impaginazione: Greta Malavasi; a cura di Alessandro Alvisi; © Edizioni Arte stampa.
Devo confessare ai lettori che non sono un recensore asettico e imparziale. Ho condiviso con Giuliano gran parte della vita e, pur avendo fatto altro, ho condiviso le scelte nella vita comune. Altri sarebbero il tono, l’umorismo e gli accenti in una conversazione amicale e familiare.