L’attacco durante il quale l’IDF (Israel Defense Forces) ha sparato «ripetutamente» e «deliberatamente» contro le basi dell’ONU nel Sud del Libano, gestite dai militari italiani, ha suscitato dure rimostranze da parte del nostro Governo.
Per la prima volta, dall’inizio della guerra di Gaza, ora estesasi al Libano, un suo esponente, il ministro della Difesa Crosetto, ha accusato Israele di «crimini di guerra» e di «gravissime violazioni alle norme del diritto internazionale, non giustificate da alcuna ragione militare», precisando che «non si è trattato di un errore né di un incidente».
Anche il ministro degli Esteri Tajani ha dichiarato che «è stato violato il diritto internazionale» e – in rapporto alle pressioni fatte ultimamente dall’IDF perché il contingente italiano dell’UNIFIL spostasse le sue basi operative in un’altra parte del territorio – all’ambasciatore israeliano Jonathan Peled, convocato d’urgenza, ha detto: «Riferisca a Netanyahu che le Nazioni Unite e l’Italia non possono prendere ordini dal governo israeliano».
Una crisi diplomatica imprevista
Sono toni mai usati finora da un membro del Governo nei confronti di un Paese, come Israele, che fino a oggi è sempre stato trattato come un alleato e un amico.
È trascorso poco più di un mese dalla visita a Roma del presidente israeliano Herzog, a cui Giorgia Meloni «ha ribadito la vicinanza del Governo italiano ad Israele e la ferma condanna del terrorismo di Hamas», senza far cenno alle gravissime violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali di cui, secondo la stragrande maggioranza degli osservatori, si sta rendendo responsabile l’esercito israeliano.
La premier si è limitata a esprimere al suo ospite una «forte preoccupazione per la situazione umanitaria nella Striscia di Gaza», un riferimento abbastanza vago e in cui colpisce soprattutto l’evidente silenzio sul ruolo determinante che ha in questa «situazione umanitaria» la politica dello Stato ebraico.
Di fatto, il governo italiano ha sempre scrupolosamente evitato qualunque presa di posizione contraria alla linea di Netanyahu, astenendosi sistematicamente nell’Assemblea dell’ONU su tutte le mozioni che chiedevano, insieme alla liberazione degli ostaggi, una immediata cessazione della campagna militare che sta devastando la Striscia di Gaza.
Solo l’aggressione dell’IDF ai soldati italiani, poco più di un migliaio, che fanno parte del contingente dell’UNIFIL, poteva cambiare l’atteggiamento di un governo che ha al primo punto del suo manifesto elettorale: «Politica estera incentrata sulla tutela dell’interesse nazionale e la difesa della Patria».
Anche se non sembra che da parte di Tel Aviv ci sia l’intenzione di fermarsi. È significativo che, mentre Tajani ha esplicitamente dichiarato di attendersi delle scuse, l’ambasciatore israeliano abbia giustificato l’accaduto dandone la colpa all’UNIFIL: «Abbiamo raccomandato più volte ai militari italiani di ritirare parte delle loro forze ma purtroppo la richiesta è stata respinta».
Il 7 ottobre e la «sindrome della Shoah»
In attesa di vedere quali sviluppi avrà la situazione, non possiamo evitare l’impressione che Israele, inebriato del suo strapotere tecnico-militare, abbia perduto il senso dei limiti e si sia ormai messo in un atteggiamento di sfida al mondo intero. Nella consapevolezza di un isolamento sempre più grande, da parte dell’opinione pubblica mondiale, isolamento percepito come un’ingiustizia inaccettabile non solo dallo Stato ebraico, ma dalle comunità ebraiche presenti in altri Stati.
La copertura ideologica di questa battaglia a tutto campo è – sulla base di un tacito richiamo alla tragica memoria della Shoah – la denuncia dell’antisemitismo sempre più dilagante nel mondo, che ispirerebbe le critiche da più parti all’IDF. È di pochi giorni fa l’accusa mossa da Netanyahu all’Assemblea dell’ONU di essere «una palude antisemita».
Una copertura, peraltro, avallata dai quasi tutti i Governi occidentali e dalla grande maggioranza dei nostri opinionisti, che da settimane indicano in questo ritorno dell’antisemitismo il vero pericolo su cui polarizzare l’attenzione, per non ricadere – come ha detto Netanyahu al Congresso degli Stati Uniti – nella barbarie.
Il resto – i 42.000 morti palestinesi, la devastazione di un territorio e delle sue infrastrutture, la politica di sistematico annientamento delle fonti di vita (alimentari, sanitarie, culturali, religiose) della popolazione di Gaza – passa, in questa logica, in seconda linea. Anzi, ogni riferimento ai costi umani della campagna che Israele sta conducendo viene avvertito come un sostegno dato ad Hamas e una giustificazione del terrorismo.
Lo stesso papa Francesco, che aveva in un suo discorso condannato la violenza sia dell’una che dell’altra parte, ha avuto in risposta la dura nota in cui il Consiglio dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia gli rinfacciava di avere messo sullo stesso piano, «in nome di una supposta imparzialità», «aggressore e aggredito».
E la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche Italiane, Noemi Di Segni, aveva anche lei protestato, in quella occasione, facendogli notare che «l’equidistanza e l’equivicinanza non aiutano a cogliere il vero problema». Ed effettivamente il trauma subìto non solo da Israele, ma dagli ebrei di tutto il mondo, col massacro del 7 ottobre, rende comprensibile questa «sindrome della Shoah».
Emblematico il documento diffuso un mese dopo dalla stessa Di Segni: «Non abbiamo ancora trovato un nome univoco per far comprendere l’orrore che si è abbattuto su tutto il popolo ebraico», vi era scritto. «Il 7 [ottobre] mattina è cambiato il nostro destino, è cambiato il mondo, e nulla può tornare come prima».
Questo strazio già allora era accresciuto, secondo lei, dal silenzio di chi dovrebbe denunciare l’accaduto:
«Silenzio dell’ONU per le sevizie contro bambini e neonati, violenze e torture sulle donne, rapimento di civili e la lista è lunga. Silenzio della Croce Rossa che non lamenta o non prova a visitare ed accertare la situazione degli ostaggi. Silenzio di tutte le ONG di difesa diritti umani per quanto avvenuto il 7 ottobre e per quanto sta accadendo in questi giorni in molte nostre comunità in tutto il mondo. In parallelo al silenzio assordante, ci sono gli slogan urlati da chi difende in modo superficiale e demagogico il popolo palestinese e attacca gli interventi di difesa dell’esercito israeliano».
Seguiva l’invito a «far cessare gli appelli umanitari diretti unicamente verso Israele, un Paese che agisce secondo morale e non si è sottratto alle norme internazionali». Dopo questa appassionata difesa di Israele, la denuncia: «L’antisemitismo è tutto questo. Non è mai sopito e si è presentato in questi trenta giorni con il volto del terrorismo radicale e l’abbraccio europeo dell’ignoranza e l’ottusità dilagante».
Ma se tutto è antisemitismo…
Su questa linea, anche nel periodo successivo e fino ad oggi, ogni opinione, ogni manifestazione, ogni presa di posizione in favore del popolo palestinese e critica verso i metodi dell’esercito israeliano è immediatamente catalogata – dal governo di Tel Aviv, dai rappresentanti ufficiali delle comunità ebraiche e da gran parte dei governi e della stampa occidentali – come allarmante espressione di un ritorno all’antisemitismo.
Col risultato che, mentre non solo a Gaza, ma in Cisgiordania (dove non c’è Hamas, ma i coloni ebrei vogliono prendersi le terre dei palestinesi e lo fanno con aggressioni continue, protetti dall’esercito) e ora nel Libano, assistiamo a un susseguirsi di inaudite violenze ai danni della popolazione civile, in nome del «diritto di Israele di difendersi», leggendo i nostri giornali si potrebbe credere di vivere nella stagione di una «caccia all’ebreo» che starebbe imperversando nelle nostre città e nelle nostre università.
Salvo dover poi constatare, senza tema di smentite, che mentre la «caccia al palestinese» sta producendo decine di migliaia di vittime – nella maggioranza donne e bambini –, quella «all’ebreo», per fortuna, si risolve nella peggiore delle ipotesi in azioni dimostrative, odiose e riprovevoli, certamente, ma di gravità immensamente minore.
Grazie a Dio ci sono molti ebrei che riconoscono questa situazione e la denunciano coraggiosamente. In un articolo apparso su «Vita e Pensiero Plus» la storica ebrea Anna Foa, il cui ultimo libro si intitola Il suicidio di Israele ed è molto critico verso la politica del governo di Tel Aviv, faceva notare il paradosso: «Ogni rifiuto della politica del Governo viene bollato da Netanyahu come antisemitismo. Ma se tutto è antisemitismo, dov’è l’antisemitismo?».
Il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres – per aver fatto notare che la strage del 7 ottobre (da lui decisamente condannata) non nasce dal nulla, ma ha alle spalle anni di politica antiaraba israeliana –, è stato fin dall’inizio catalogato come un amico del terrorismo e ultimamente addirittura dichiarato «persona non grata», in Israele, col divieto di metterci piede. Di papa Francesco e della pesante polemica nei suoi confronti si è detto prima.
L’Assemblea dell’ONU, ha detto Netanyahu, è una palude antisemita. Tutte le associazioni umanitarie impegnate a fronteggiare la terribile situazione di civili di Gaza sono antisemite. Anche Crosetto, ora che ha accusato l’IDF di aver commesso un «crimine di guerra», è antisemita?
Ingolfato in una guerra che inizialmente riguardava solo Gaza, ma che ora si dilata sempre di più – alla ricerca disperata di quella «vittoria totale» di cui Netanyahu parla spesso, e che appare lontana, malgrado i clamorosi successi militari –, Israele sembra aver dimenticato quella solidarietà con il resto dell’umanità che ha costituito la forza del popolo ebraico e gli ha consentito di avere uno Stato su un territorio che da duemila anni non gli apparteneva.
Senza l’ONU, senza l’appoggio morale di gran parte del mondo, questo Stato non esisterebbe. Non sarebbe più saggio – da parte dei governanti di Tel Aviv e dei rappresentanti del mondo ebraico -, invece di continuare a lanciare accuse, fermarsi e interrogarsi su ciò che con tutte queste guerre vogliono ottenere?
Magari smettendo, intanto, di trattare i civili come carne da macello. Per non rischiare che la storia, che ha visto gli ebrei vittime di uno spaventoso genocidio, li ricordi in futuro come gli autori di una strage che gli somiglia molto.
- Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 12 ottobre 2024
Primo Levi in effetti sosteneva che il vero spirito dell’ebraismo e’ quello della diaspora nonostante la ricostituzione di uno stato ebraico in Palestina.
Non più tardi degli anni ’70, Abba Eban, uno dei padri fondatori di Israele, ambasciatore all’ONU e poi ministro degli esteri del suo paese, teorizzo che nelle relazioni con le diplomazie internazionali ogni qualvolta la politica di Israele fosse criticata, si sollevasse il tema dell’antisemitismo. In questo modo il confronto su qualsiasi tema sarebbe divenuto impossibile, giustificando in modo aprioristico. E’ ciò che avviene tuttora. Non si può dir nulla contro le politiche scelerate di questo paese senza che si venga tacciati di esser antisemiti ed il discorso sia chiuso lì. Se Putin è un mostro, lo è anche Netaniahu. Se la Russia non può partecipare a nessun tavolo, a nessuna competizione sportiva, etc… allora non deve poterlo fare neppure Isreale, perché ciò che sta facendo è osceno. Ciò che avviene da quasi un secolo è il sostanziale apartheid del povero popolo palestinese, il quale nel 1946 aveva una terra della quale è stato defraudato. Albert Einstein, Hannah Arendt, due tra i tanti intellettuali che videro nel nascente partito poi divenuto Likud, la radice di un pensiero politico pericoloso e certamente non orientato alla convivenza tra popoli. Israele pare possa legittimamente fare tutto, anche sparare sui caschi blu, senza che questo comporti nessuna conseguenza de facto; lo facesse qualsiasi altro stato al mondo l’indignazione sarebbe totale, il sanzionamento anche.
https://www.theparentscircle.org/en/homepage-en/ ONG che unisce genitori israeliani e palestinesi che hanno perso dei figli
Non mi sembra che sia corretto parlare di antisemitismo. In questo momento parliamo di ingiustizia che sta conducendo Israele contro il popolo palestinese. Vogliono cambiare la geopolitica della zona, massacrando un grande numero di persone, continuando alla grande l’occupazione dei territori palestinese iniziata dopo il trattato di Oslo. Un senso di frustrazione e nel mio cuore di credente in Dio per questa grande ingiustizia di oppressione che vivono i popoli palestinese e del Libano.
Sono in totale sintonia.
La nobile, secolare e preziosa tradizione culturale e spirituale dell’Ebraismo rischia sempre più di essere fagocitata dalle politiche di uno Stato che ha propri obiettivi politici ed economici (oltreché militari). Legare in modo sempre più forte (e, mi sia consentito) anche ambiguo la tradizione ebraica ad un’istituzione statale (giovanissima e perciò fragile e in costante bisogno di forgiare una propria identità nazionale) ha forse contribuito a creare una situazione caotica, che non giova (a mio avviso) alla necessaria distinzione che va operata tra Stato e Religione, tra riconoscimento dei diritti civili e politici ed appartenenza etnica. Mi conforta vedere che nello stesso mondo ebraico, specie della diaspora, ci sono voci dissonanti rispetto alla narrazione dominante veicolata dalle istituzioni. Queste voci non saranno magari oggi la maggioranza, ma fanno comunque sperare che un giorno questa commistione avrà forse un termine. E di questo, penso, i primi a beneficiarne saranno gli stessi ebrei e lo Stato d’Israele