Francia: il caos dopo il letargo

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I recenti avvenimenti della vita politica francese potrebbero servire da libro di testo per chi si cimenti nello studio del populismo e per chi voglia cercare di capire le vittorie a cascata dei populisti in generale e di quelli dell’estrema destra in particolare dentro e fuori Europa.

Governare senza il parlamento

Riepiloghiamo: il presidente Emmanuel Macron ha convocato le elezioni anticipate a inizio luglio, le ha perse sonoramente, e quindi ha messo in piedi un governo sostenuto da due partiti votati rispettivamente dal 13 per cento (il partito di Macron) e dal 4,3 per cento (i superstiti gollisti) dell’elettorato, che totalizzano 198 seggi all’Assemblea nazionale (camera bassa) su 577.

Tra l’altro, il sostegno del partito di Macron al governo capeggiato da Michel Barnier, scelto da Macron, è condito di mugugni e di precoci distinguo.

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Ricordiamo che il sistema istituzionale francese garantisce al presidente della Repubblica poteri molto ampi, più che in qualunque altro paese democratico. Tra quei poteri vi è anche la facoltà di dar vita a governi privi di maggioranza parlamentare e di far passare leggi cruciali nonostante l’opposizione del parlamento.

Le elezioni sono state vinte al primo turno dall’estrema destra del Rassemblement National (RN) col 19,01 per cento degli aventi diritto; al secondo turno, è risultata in testa l’eterogenea coalizione di sinistra del cosiddetto Nuovo fronte popolare (NFP) col 16,2 per cento.

Chi conosce il sistema elettorale francese a due turni sa che la tanto celebrata vittoria del NFP è una finzione: infatti, laddove si vada al ballottaggio, vige il sistema maggioritario secco del First Past the Post – è eletto il candidato che ottiene più voti; quindi, per tagliare la strada ai candidati RN, il NFP e il partito di Macron hanno deciso di convergere sul candidato non RN meglio piazzato, col risultato che conosciamo.

Aggiungiamo, per dovere di cronaca, che i piagnistei del partito di Marine Le Pen sulla «vittoria mutilata» si sono calmati non appena ci si è accorti che, tra il primo e il secondo turno, l’RN aveva perso per strada più di mezzo milione di voti. Paradosso dei paradossi, il NFP – pur ottenendo il maggior numero di deputati – aveva perso per strada, tra il primo e il secondo turno, cioè nel giro di una settimana, più di due milioni di voti, nonostante il decisivo apporto degli elettori macronisti.

Il sistema istituzionale francese non è costruito per rispettare la «volontà popolare», ma per garantire la stabilità politica. Charles de Gaulle era cresciuto sotto il sistema parlamentare della Terza Repubblica, e ne conosceva molto bene la precarietà e la volatilità. Era stato d’altronde il parlamento eletto nel 1936 – con la vittoria del Fronte popolare – a votare i pieni poteri a Philippe Pétain nel giugno 1940 e la conseguente alleanza con la Germania nazista. Ma De Gaulle, in qualità di fondatore e di presidente della Quinta Repubblica, ha sempre goduto del sostegno della maggioranza del popolo. Quando l’ha persa, in un referendum di secondaria importanza nel 1969, si è dimesso.

Il suo giovane ammiratore e attuale inquilino dell’Eliseo ha invece seguito un’altra strada: lungi dal dimettersi, ha ignorato il risultato del secondo turno delle elezioni e ha formato un governo minoritario dei perdenti contando sulla non belligeranza del vero vincitore, il Rassemblement National. In un certo senso, ha riconosciuto la «volontà del popolo», benché si trattasse della volontà del 19,01 del corpo elettorale.

Pur potendo contare solo su 198 voti su 577 all’Assemblea nazionale, il governo è perfettamente legittimo. Può essere scalzato solo da una mozione di censura votata dalla maggioranza: prontamente, il NFP che lamenta a sua volta la «vittoria mutilata», ha depositato la mozione, non riuscendo però a mettere insieme più di 197 voti, a causa della mancata adesione dell’estrema destra.

Ancora un paradosso: il governo, per continuare a esistere ha bisogno del benign neglect dell’RN, e la sinistra, per far cadere il governo, ha bisogno dell’appoggio dell’RN. Tutti, insomma, sono costretti a corteggiare il partito di Marine Le Pen.

Il gioco si fa duro

Il problema è che, in questo caso, quando il gioco si fa duro, i duri potrebbero smettere di giocare.

Il governo Barnier ha una missione: ridurre il deficit pubblico, che nel 2024 ha raggiunto i 166,6 miliardi di euro, contro i 146,9 previsti nella finanziaria dello scorso anno. La Francia è il terzo paese europeo più indebitato, con un peso percentuale sul PIL del 110,8 (al primo trimestre 2024), preceduta da Italia (137,7 per cento) e Grecia (159,8 per cento), e seguita dalla Spagna (108,9 per cento) e dal Belgio (108,2 per cento).

Rispetto all’anno precedente, il debito greco è però diminuito di 2,1 punti, quello dell’Italia è cresciuto di 0,4 punti e quello della Francia di 0,9. Il 26 luglio scorso, il Consiglio Europeo ha aperto una procedura per disavanzo eccessivo nei confronti della Francia, insieme a Belgio, Italia, Ungheria, Malta, Polonia e Slovacchia. Brutto affare per chi, come Macron, si era messo in testa di guidare l’Unione Europea verso l’autonomia strategica dagli USA.

Un avvertimento chiaro glielo ha mandato, a inizio ottobre, il ministro tedesco delle Finanze, Christian Lindner, che ha chiesto ai suoi omologhi francesi di «non scherzare con la credibilità delle finanze pubbliche nei confronti dei mercati finanziari». Il deficit pubblico è diventato così, quasi all’improvviso, l’argomento centrale intorno a cui ruota la vita politica francese, proprio nel momento in cui entra in esercizio il governo più debole di tutta la Quinta Repubblica. Come se la Francia e i francesi si fossero risvegliati da un letargo di cinquant’anni per accorgersi di colpo che le finanze pubbliche del loro paese si erano inesplicabilmente deteriorate.

Macron si era fatto eleggere nel 2017 come il presidente liberale che avrebbe messo in riga il paese, ricevendone d’altronde il mandato dagli elettori. Tuttavia, sotto la sua gestione, il debito è passato dal 98,3% del PIL al 110,8% attuale. Tutta colpa del Covid, ripete la presidenza, ma il grafico che segue mostra che la crescita del debito è iscritta in una tendenza di lunghissimo periodo; e mostra anche, en passant, che politici presentatisi come liberali votati al risanamento delle finanze – come Édouard Balladur (primo ministro 1993-1995) e Nicolas Sarkozy (presidente 2007-2012) – hanno contribuito più di altri ad aggravare la situazione.

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Debito pubblico in miliardi di euro (linea blu) e in percentuale sul PIL (linea rossa), 1975-2023. In alto: presidenti della repubblica. I colori di sfondo rappresentano i governi in carica (azzurro: destra; rosa: sinistra; giallo: Macron). © Amrcmln – Wikipedia

Come abbiamo visto, non si tratta di una tendenza esclusivamente francese, ma nemmeno esclusivamente europea. Le vecchie potenze industriali (Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia) hanno reagito alla diminuzione dei loro margini di profitto sui mercati mondiali moltiplicando la spesa pubblica per mantenere artificialmente elevati i livelli di vita delle loro popolazioni, cioè dei loro elettori.

È così che fra il 1980 e il 2015 – molto prima della crisi del Covid – il loro debito statale si è moltiplicato per più di tre volte, passando da una media del 38,3 per cento del PIL a una del 120,3 per cento.

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Debito pubblico in percentuale sul PIL (USA, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia e Italia, 1980-2015). Fonte: FMI e contabilità nazionali

Ma restiamo alla Francia, dove la tendenza a ricorrere alle casse pubbliche è moltiplicata da una statolatria dalle radici lontane.  Lo Stato, per i francesi, ha il dovere non solo di proteggerli, ma di soddisfare ogni loro bisogno. Per ogni problema, e non solo per il Covid, tutti esigono sempre solo la stessa soluzione: ottenere più soldi.

Due esempi recenti

A gennaio, dopo qualche giorno di blocco delle autostrade da parte dei contadini francesi (ai quali, ricordiamolo, va la fetta più grossa dei fondi della Politica agricola comune europea, il capitolo di spesa più elevato dell’UE), il governo ha sospeso una serie di misure previste dal piano di transizione energetica, ha promesso la protezione dalle importazioni straniere (comunitarie comprese), ha stanziato un pacchetto di 150 milioni di euro in sostegno fiscale e sociale agli allevatori e ha innalzato la soglia di esenzione sulle eredità agricole.

Secondo esempio, più localizzato ma non meno rappresentativo dell’atteggiamento diffuso nei confronti del denaro pubblico. L’impresa che gestisce i trasporti pubblici di Parigi aveva accumulato un deficit di 950 milioni di euro nel 2023; la sua presidente (dello stesso partito di Barnier) ha chiesto, e ottenuto, un finanziamento di 800 milioni da parte dello Stato. Nonostante il buco residuo di 150 milioni, l’azienda ha deciso di assumere altre 5.300 persone nel corso del 2024. Pantalone veglia.

Come trovare i soldi per soddisfare tutti è, per gli elettori, questione sussidiaria. Purché non lo si faccia attraverso il fisco. Il 19 settembre scorso il quotidiano economico Les Échos ricordava che la Francia è «uno dei paesi in Europa e nell’OCSE dove la ratio tasse/PIL è più elevata» (tra il 46 e il 48 per cento secondo le fonti), aggiungendo che «tre quarti dei francesi ritengono il livello di imposizione fiscale eccessivo».

L’Argentina prossima ventura

Per restare all’OCSE, uno studio rivela che gli studenti francesi sono sotto la media dei 38 paesi dell’Organizzazione in termini di competenze matematiche: al sedicesimo posto, subito dietro la Turchia.

Questo forse aiuta a capire come i «tre quarti dei francesi» si perdano nella loro equazione immaginaria che vorrebbe più spesa pubblica e, al tempo stesso, meno tasse, niente inflazione e la pensione più presto possibile per più tempo.

Fino a oggi l’ex banchiere Emmanuel Macron ha finto di non vedere l’errore; adesso, però, la ricreazione è finita. Se vuole continuare a nutrire ambizioni di gloria in Europa e nel mondo, la Francia deve rimettere ordine in casa propria. Ed ecco saltare fuori dal cilindro Michel Barnier, alla testa di un governo che non deve rendere conto al parlamento, e ancor meno agli elettori, ma solo al presidente Macron.

Il 10 ottobre, Barnier ha presentato la legge finanziaria per il 2025, che prevede tagli per 60 miliardi di euro, di cui 40 di riduzione delle spese – in particolare la spesa sanitaria – e 20 di aumenti delle tasse «per i più ricchi e le aziende più grandi». Si noti che il progetto di legge aveva ottenuto un sostanziale via libera da parte dell’Alto consiglio delle finanze pubbliche, presieduto dal socialista Pierre Moscovici.

Come prevedibile, il progetto di legge è stato oggetto di duri attacchi da parte dei due gruppi più numerosi all’Assemblea nazionale, l’RN e il NFP. I primi hanno accusato il governo (che avevano appena salvato dalla mozione di censura) di continuare a comportarsi come tutti i suoi predecessori, cioè spremendo ulteriormente una popolazione presentata come stremata dai sacrifici. I secondi, per far vedere che hanno studiato, si sono lanciati in una lezione di keynesismo elementare: l’unico modo per far crescere il PIL è dare più soldi a tutti; e per limitare l’inflazione, basta ridurre i prezzi al consumo tagliando sui profitti delle aziende.

Emmanuel Macron, però, appartiene alla scuola secondo la quale il motore cruciale della crescita economica sono gli investimenti, e ha quindi impostato la sua presidenza su questo obiettivo primario. Con risultati apparentemente rimarchevoli: secondo il Rapporto sul commercio e lo sviluppo dell’ONU del 2023, la Francia è oggi una delle destinazioni globali più attraenti per gli investitori stranieri, la prima in Europa davanti a Regno Unito e Germania – un titolo che conserva ininterrottamente dal 2019.

Il problema è che la crescita del PIL resta asfittica nonostante gli investimenti (+1 per cento previsto per il 2024) e che un debito pubblico fuori controllo non costituisce certo un’attrattiva per gli investitori, e ancora meno l’aumento delle tasse sulle grandi imprese.

Su questo capitolo, Barnier ha ripreso una delle rivendicazioni tradizionali dei due blocchi populisti: tassare le società più ricche.  Se si entra nel dettaglio di quello che è ancora solo un progetto, si nota però che si tratta di un’imposta di solidarietà «eccezionale, temporanea e mirata» riguardante le circa 300 società con un fatturato superiore al miliardo, senza toccare le restanti quattro milioni di dimensioni più piccole; da questa imposta straordinaria dovrebbero arrivare 200 milioni (su un obiettivo totale di tagli, ricordiamo, di 60 miliardi).

Nella sostanza, insomma, si punta a dare un contentino poco più che verbale a quelli che vedono nei «ricchi» la causa di ogni male, tranquillizzando al tempo stesso attuali ed eventuali investitori.

barnier e macron

Michel Barnier ed Emmanuel Macron

Sui capitoli di risparmio, i tagli maggiori dovrebbero riguardare la sanità pubblica. Le misure annunciate parlano di «deburocratizzazione» e di mancato rimpiazzo di chi va in pensione.

Lo scorso anno la Sécurité sociale (l’INPS francese) ha versato 470 miliardi di prestazioni, corrispondenti a circa il 25 per cento del PIL. A fine maggio, la Commissione per i conti della previdenza sociale ha segnalato l’aumento del deficit a 16,6 miliardi, avvertendo che un’«azione di aggiustamento» non poteva più essere rimandata. Toccare la Sécu, come la chiamano i francesi, significa profanare il sancta sanctorum della spesa pubblica, attaccare il secondo pilastro, insieme alle pensioni, del sacro tempio del welfare state.

Per ora non siamo che alle prime avvisaglie e, data la debolezza intrinseca di questo governo, non è detto che quelle avvisaglie si traducano in realtà. Se non si traducono, però, la Francia rischia non solo di essere sanzionata dalla Commissione Europea, ma anche e soprattutto di perdere investimenti e ulteriore credibilità politica.

Barnier si è quindi affrettato ad annunciare che, se il parlamento voterà contro il suo progetto, allora farà ricorso al 49.3, l’articolo della Costituzione che permette al governo di far passare una legge per decreto. I governi di Emmanuel Macron se ne sono finora serviti ben 24 volte, cioè più di un quinto del totale di tutta la storia della Quinta repubblica (di cui l’era Macron rappresenta poco più di un decimo).

Nella testa di Macron

Gli osservatori e i commentatori della politica francese passano una parte del loro tempo a cercare di capire cosa passi per la testa del presidente francese. Fin dal momento in cui ha deciso di sciogliere l’Assemblea nazionale, gli interrogativi e le ipotesi si succedono.

Quel che non è soggetto a supposizione, perché sotto gli occhi di tutti, è che la promessa di una svolta che avrebbe tolto il terreno da sotto i piedi all’estrema destra è stata travolta dalla sua stessa politica ondivaga – un’annunciata offensiva liberale subito trasformatasi in capitolazione incondizionata di fronte alla sommossa diciannovista dei gilets jaunes.

Risultato netto: il Rassemblement National è il primo partito di Francia, Marine Le Pen è sempre meglio piazzata per diventare il prossimo presidente, e la sinistra populista ha fagocitato politicamente la sinistra «di governo» (quella dei Moscovici e persino di un redivivo Lionel Jospin, per intenderci).

Per seguire l’onda dei commentatori della politica francese, possiamo anche noi avanzare due ipotesi. La prima è che, per far passare la pillola del risanamento delle finanze pubbliche si mandi consapevolmente al macello il governo dei perdenti, composto, appunto, da due partiti che non hanno più granché da perdere (e comunque i macroniani – non si sa mai – si riservano il lusso di mugugnare).

Nella seconda, il calcolo di Macron – troppo machiavellico per essere credibile, ma il presidente ci ha abituato a ben altro – potrebbe essere di trascinare nel vortice dell’impopolarità un’estrema destra che appoggia surrettiziamente il governo sedotta dalle misure securitarie e anti-immigrazione, realizzando così con un triplo salto mortale la promessa del primo Macron del 2017. Un’ipotesi, d’altronde, non esclude l’altra.

Il rischio è comunque molto elevato.  Sulle cosiddette politiche sociali, populisti di destra e di sinistra convergono dando voce a quei tre quarti di francesi che vogliono più soldi, meno tasse, zero inflazione, e la pensione a sessant’anni.  Il risanamento economico della Francia, la sua attrattività per gli investitori esteri, la crescita del PIL sono, per loro, tutte cose da stercum diaboli.

Se Macron non riesce nel frattempo a trascinare Marine Le Pen con sé negli abissi, dal 2027 i populisti di destra governeranno la Francia, affrontando gli inevitabili tagli al servizio sanitario in maniera più drastica ed efficace, cioè attraverso la politica «les Français d’abord» (prima i francesi), elettoralmente molto seducente.

Se ci riesce, saranno i loro dirimpettai di sinistra a farlo, adottando le politiche peroniste che non cessano di auspicare, anch’esse elettoralmente efficaci. Col risultato di fare, della Francia, una seconda Argentina.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 16 ottobre 2024

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