Giannino Piana: un libro postumo

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Un anno fa, l’11 ottobre 2023, moriva ad Arona (Novara), a 84 anni, Giannino Piana, uno dei più autorevoli e ascoltati teologi moralisti italiani.

Commentando il commovente ricordo che Pier Davide Guenzi, presidente dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM), ne ha fatto su SettimanaNews del 13 ottobre 2023 (Giannino Piana, in memoria), un lettore del blog ha parlato (condivisibilmente) di Giannino Piana come di «uno dei pochi moralisti italiani che, in 35 anni di oscurantismo (1978-2013), ha mantenuto libera la sua voce, cercando di valorizzare le persone e non inchinandosi solamente davanti ai documenti pontifici».

Nella postfazione al libro, a cura di Paolo Benanti e Francesco Compagnoni, che gli è stato dedicato per i suoi 80 anni, Un’etica per i tempi incerti. Giannino Piana (Cittadella, 2021), Gianfranco Ravasi, l’amico cardinale e compagno di studi teologici – nei primi anni ’60 del secolo scorso – alla Gregoriana, scriveva: «Giannino Piana testimonia in modo trasparente la bellezza della ricerca, la gioia del credere, l’attrattiva della verità, l’amore per l’essere umano. Se vogliano uscire dalla soglia della teologia, divenendo partecipi della sensibilità di tante persone in ricerca, potremmo forse applicare a lui un asserto della Critica della ragion pratica di Kant: L’etica non è esattamente la dottrina che ci insegna come essere felici, ma ci insegna come possiamo fare per renderci degni della felicità».

Un libro postumo

Queste caratteristiche del pensiero di Giannino Piana emergono anche nel suo libro postumo, L’ultimo orizzonte. Questioni di fine vita (Interlinea Edizioni, Novara 2024). Il testo, consegnato all’editore nella primavera 2023, esce ora, a un anno dalla morte dell’autore, che fece in tempo a vistare le ultime bozze.

Si tratta di un piccolo libro, scritto nel tipico italiano scorrevole ed elegante dell’autore, sulle questioni legate al fine vita che – come si legge nell’Introduzione – «presentano oggi una indiscussa attualità» e «sono sempre state oggetto in tutte le culture di particolare considerazione per le criticità (e la problematicità) che presentano, ma anche per la delicatezza che rivestono e, non raramente, per la drammaticità con la quale si manifestano». Questioni in parte da lui già trattate nel secondo volume del manuale di etica teologica In novità di vita, dedicato alla Morale della persona e della vita, edito da Cittadella Editrice nel 2014.

Il saggio si articola in quattro parti. Aprono e chiudono il percorso un’istruttiva Introduzione e un avvincente breve Epilogo, che riportano in esergo rispettivamente alcuni versi dell’Infinito di Giacomo Leopardi («Sempre caro mi fu quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.») e un frammento di una bellissima poesia-preghiera di Rainer Maria Rilke («Signore, dà a ciascuno la sua morte/: la morte fiorita da una vita/ in cui ha saputo amare, capire e soffrire»).

Una nuova prospettiva di approccio al fine-vita

Nella prima parte (“Le ragioni di una nuova prospettiva di approccio”) vengono evidenziate le tre ragioni per le quali oggi alle problematiche del fine vita – legate a casi strazianti come quelli di Piergiorgio Welby, di Eluana Englaro, di Fabiano Antoniani e di molte altre persone – si attribuisce una così grande rilevanza rispetto a non molti anni addietro.

La prima ragione è rinvenibile negli sviluppi delle tecnologie biomediche che, da un lato, hanno permesso di debellare malattie un tempo letali, ma che, dall’altro, hanno permesso il prolungamento artificiale della vita biologica a scapito del rispetto della vita biografica con forme inedite, sofisticate e devastanti di accanimento terapeutico.

La seconda ragione va ricercata nell’acquisizione di una sempre maggiore presa di coscienza del valore fondamentale della dignità umana che si estende a tutte le fasi della vita – comprese quelle terminali – e che deve anche tradursi nel fare esperienza di una morte umanizzata.

La terza ragione sta nella difficoltà che si registra nel rapportarsi con la morte e che è strettamente legata ad alcuni tratti sotto i quali il suo volto oggi si manifesta, come la «de-naturalizzazione» (non accettare che la morte sia una componente ineluttabile di ogni esistenza umana), la «de-socializzazione» (sganciare l’evento del morire da ogni riferimento sociale), la «de-simbolizzazione» (guardare la morte rifiutando di aprirsi al mistero cui allude e rinvia), la «de-temporalizzazione» (rifiutare l’idea della morte a motivo del ripiegamento sul presente senza apertura al futuro) e la «de-contestualizzazione» (morire in ospedale, in hospice, al di fuori del contesto in cui si è vissuti e lontano dalla cerchia delle persone care).

Visioni diverse dalla vita: possibilità di dialogo

La seconda parte (“Alcune questioni preliminari”) prende in considerazione le due visioni della vita che vengono spesso tra loro contrapposte e che fanno capo rispettivamente all’idea di «sacralità» e a quella di «qualità» della vita: la prima attribuita al mondo cattolico e la seconda al mondo laico. Da questa visione discenderebbe il confronto, a volte conflittuale, tra la bioetica cattolica e quella laica.

In realtà, le due visioni non sono radicalmente alternative e tra loro incompatibili. «Sacralità» e «qualità» possono convergere – è questa l’ipotesi suggerita da Piana – nel concetto di «dignità», concepita in termini non individualistici ma relazionali. Il valore della vita può conciliarsi con l’esigenza di una «morte dignitosa» che implica il prendersi cura del malato, il far uscire la morte dall’occultamento e dalla rimozione, il fornire un’assistenza sanitaria adeguata ed efficiente, il commisurare le terapie alla concretezza di ogni singola situazione.

Di per sé, anzi, non si dovrebbe neanche parlare di bioetica cattolica e di bioetica laica, «ma semplicemente di bioetica tout court o meglio di bioetica autonoma, in cui la definizione normativa delle questioni in causa va prodotta attraverso il ricorso ad argomentazioni razionali, dunque universalizzabili».

Eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico

La terza parte del saggio (“Eutanasia, suicidio assistito e accanimento terapeutico”) è quella più corposa e più importante. Forse risulta essere anche quella di maggiore attualità, essendo il legislatore italiano in procinto di intervenire in materia di «morte volontaria medicalmente assistita», a seguito di alcune recenti decisioni della Corte Costituzionale.

Questa parte cerca sostanzialmente di fornire una risposta soddisfacente alla seguente domanda: quali percorsi attivare per recuperare dignità alla morte, superando l’attuale stato di disagio, che, determinando la sua rimozione, finisce per favorire il ricorso all’eutanasia, al suicidio assistito o all’accanimento terapeutico?

Si tratta di nodi critici che, per la loro delicatezza e complessità, «esigono un approccio etico rigoroso, al di fuori di pregiudizi ideologici, nel pieno rispetto di una visione laica, cioè razionale, evitando tanto posizioni rigidamente confessionali quanto posizioni di stampo laicista».

Medico e paziente: un’alleanza terapeutica da costruire

Nella quarta e ultima parte (“Cure palliative e testamento biologico”) Giannino Piana, forse alla luce della situazione personale in cui si è trovato negli ultimi mesi della sua vita, offre alcune preziose indicazioni per «il costituirsi di una alleanza terapeutica tra medico e paziente, fondata su un rapporto di reciproca fiducia, e sulla attivazione di un confronto che il medico non può (e non deve) trascurare».

Quanto alle cure palliative, realtà piuttosto recente nel campo dell’assistenza medica, Giannino Piana, citando un testo di Deborah Gordon e Carlo Peruselli, ricorda che, alla base della loro filosofia, «vi è il concetto che la vita va difesa nella sua dignità e integrità fino all’ultimo istante. Il malato inguaribile non è un quasi morto, ma una persona che ha diritto di vivere l’ultima parte della sua esistenza, non importa quanto lunga essa sia, nel modo migliore e più significativo possibile».

A determinare la necessità del ricorso al «testamento biologico» o «Dichiarazioni Anticipate di Trattamento» (DAT), hanno concorso sia gli enormi progressi della tecnologia in campo biomedico, sia l’accresciuta coscienza del rispetto dovuto alla dignità del morire, sia «l’emergere, all’interno della bioetica, del principio di autonomia, che implica la possibilità di autodeterminazione del paziente anche circa i tempi e le modalità della propria morte».

Il «filo rosso» del libro

Nell’Epilogo Giannino Piana scrive che la «vera anima del libro» è il desiderio di metterne in luce il «filo rosso» costituito dall’esigenza di guardare alla morte come ad un elemento costitutivo della vita umana che, per chi crede nel Dio di Gesù Cristo, significa apertura alla vita altra e futura. Infatti, «accogliere la morte come realtà che ci appartiene e alla quale non possiamo sfuggire […] è un’esperienza che va invocata dall’alto e che ci impegna nel contempo a crearne, per quanto è possibile, le condizioni attraverso una vita piena, spesa nell’offerta di sé al servizio dei fratelli».

Parole che rimandano a quanto scriveva sul primo numero della rivista Rocca dell’anno 2021: «Al di là del dramma al quale nessuno può sfuggire, il mistero pasquale, che ha nella risurrezione il momento culminante, immette un fascio di luce sulla realtà della morte. La risurrezione di Cristo ci ricorda infatti che l’umanità, cui è stata partecipata nel Figlio la figliolanza divina, non può che godere dello stesso destino. La morte non è più dunque l’ultimo traguardo: essa segna l’ingresso in una vita di eterna beatitudine. La speranza cristiana, che fiorisce ai piedi della croce, ha qui il suo definitivo suggello. E la fede ci dice che questo cammino è iniziato fin da quaggiù, perché – come l’apostolo Giovanni non manca con insistenza di annunciare – quella vita promessa ci è già stata partecipata, con l’impegno che la facciamo crescere in noi e negli altri, fino al suo definitivo compimento nella pienezza del regno del Signore».

Senso e stile del lavoro e della vita di Giannino Piana

L’8 marzo 2024 la Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (Sez. di Torino) ha organizzato una giornata di studio in memoria di Giannino Piana. Uno dei relatori è stato l’amico fraterno Francesco Compagnoni che, per decenni, con il teologo novarese ha intensamente lavorato nell’ambito dell’Associazione Teologica Italiana per lo Studio della Morale (ATISM), rimanendo in contatto con lui fino al momento della morte.

Assolutamente calzanti le parole di Compagnoni, all’inizio e al termine della sua testimonianza: «Se si dovesse riassumere il senso della vita di Giannino Piana, si potrebbe riferire a lui quanto dichiarato da Elmar Salmann (ndr. docente per circa trent’anni alle Pontificie università Anselmianum e Gregoriana: vedasi SettimanaNews del 27 febbraio 2024): “Ho cercato di contribuire a che il Dio cristiano possa fare bella figura nella storia del pensare e agire umano e di chiedermi perché questo risulta tanto difficile”».

Concludendo poi il suo intervento, Francesco Compagnoni ha citato la risposta che, nel corso di un’intervista, il teologo tedesco Gisbert Greshake ha dato ad una domanda sulla perdita di importanza della teologia cattolica registrata da qualche anno in Germania: «Potrebbe anche avere a che fare con il fatto che la teologia di lingua tedesca ha avuto un enorme impulso teorico. Ciò significa che, soprattutto i teologi più giovani, credono di dover dimostrare scientificamente, soprattutto nelle università, di avere un’elevata capacità di teorizzazione, anche rispetto ad altre scienze. Di conseguenza, però, si è persa la teologia come scienza che, in ultima analisi, deve servire la fede, che deve dischiudere il mondo della fede. Quello che sento ripetere sempre dagli studenti è che manca qualcosa nello studio della teologia, cioè che ne esca qualcosa per la loro fede personale. Per me questo ha a che fare con l’immensa priorità data alla teoria nella teologia di lingua tedesca».

«Questo errore – ha commentato Francesco Compagnoni – Giannino Piana, pur nella serietà scientifica dei suoi testi, non lo ha mai commesso. Ha servito la sua comunità di fede, locale e nazionale, e l’ha interpretata per tutti noi in modo eccellente».

Come non essere profondamente d’accordo con Francesco Compagnoni? Non vi è dubbio, infatti, che quella di Giannino Piana sia stata e continui ad essere – grazie alla corposa eredità lasciataci con i suoi numerosi scritti – non una teologia fine a se stessa, che si perde nella cura del proprio sapere teorico, ma una teologia pensata con serietà scientifica e radicata nell’esistenza concreta delle persone per offrire loro sprazzi di luce e di speranza mettendo in risalto le potenzialità umanizzanti del Vangelo di Gesù Cristo.

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