I costi della sindrome dell’“invasione”

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Bari, 19 ottobre 2024: la Guardia Costiera riporta in Italia 12 dei 18 migranti trasferiti qualche giorno fa al centro di permanenza per il rimpatrio di Gjader in Albania (Lapresse/Nino Ratiani)

La notizia che il Tribunale di Roma non ha convalidato il trattenimento dei migranti nel centro di permanenza per il rimpatrio di Gjadër, in Albania, arriva poche ore dopo quella che, dei sedici (dieci provenienti dal Bangladesh e sei dall’Egitto) sbarcati dalla nave militare «Libra», quattro avrebbero comunque dovuto tornare in Italia, due perché si è scoperto che sono minorenni e due per problemi di salute (i centri sono per uomini maggiorenni non fragili).

Alla fine un viaggio di due giorni che, secondo i calcoli, è costato intorno ai 18.000 euro per ogni migrante trasferito, si sta risolvendo in un clamoroso flop.

La decisione dei giudici romani è stata attaccata dai giornali di destra come un «golpe politico-giudiziario» e il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia, Lucio Malan, ha parlato di «un’invasione di campo di una parte della magistratura politicizzata». Essa si fonda in realtà, dice il provvedimento del Tribunale, sulla «impossibilità di riconoscere come paesi sicuri gli Stati di provenienza delle persone trattenute», Bangladesh ed Egitto.

Un requisito, questo, rigorosamente prescritto dal diritto internazionale, oltre che dal buon senso, trattandosi di persone giunte in Italia per sfuggire ai pericoli presenti nel loro paese.

Quand’è che un paese è «sicuro»?

In polemica con i giudici, il governo rivendica il diritto di decidere lui quali sono i «paesi sicuri». Il problema è che i suoi criteri non sempre coincidono con quelli espressi da organismi internazionali autorevoli o comunque qualificati.

«Nei miei ventidue anni in Medici senza Frontiere non avevo mai incontrato un’incarnazione così estrema della crudeltà umana», diceva Joanne Liu, la presidente internazionale di «Medici senza Frontiere», in un’intervista al Corriere della Sera del 1 febbraio 2018. La dottoressa Liu si riferiva ai centri libici per la detenzione di migranti e rifugiati creati in base agli accordi tra il ministro Minniti, al tempo del governo Gentiloni, e il governo libico.

Poco prima, nel settembre del 2017, il commissario dei Diritti umani presso il Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, aveva scritto al nostro ministro degli Interni ricordandogli che «consegnare individui alle autorità libiche o altri gruppi in Libia li esporrebbe a un rischio reale di tortura o trattamento inumano o degradante».

Questi segnali eloquentissimi non hanno impedito alla premier Meloni di prorogare il memorandum Italia-Libia, il 2 febbraio 2020, ignorando l’appello dell’ONU che, nell’ottobre precedente, aveva chiesto al governo italiano di non procedere al rinnovo dell’accordo, per mettere fine «a una delle pagine più tristi e vergognose della nostra storia recente».

Sulla stessa linea, il 16 luglio 2023, la firma da parte della nostra premier di un «Protocollo d’intesa», con il presidente tunisino Kaïs Saïed. Proprio in quel periodo Amnesty International ha denunziato la campagna di odio razzista scatenata da Saïed contro i migranti neri sub-sahariani emigrati in questi anni in Tunisia, aizzando la popolazione alla violenza nei loro confronti.

La sindrome dell’«invasione»

Insomma, è chiaro che i criteri del governo Meloni per stabilire se un paese sia «sicuro» oppure no risentono pesantemente di una scelta politica di fondo che ritiene prioritario, a qualunque costo, impedire ai migranti di varcare le nostre frontiere.

In questa logica si colloca anche la decisione di spendere circa 800 milioni di euro (stima de Il Sole 24 Ore) in cinque anni per creare i centri di permanenza in vista dell’eventuale rimpatrio sul territorio albanese, invece che su quello italiano, dove ovviamente i costi sarebbero stati immensamente inferiori.

Peraltro, questa ossessione della difesa dei confini da quella che viene definita una «invasione» sembra essersi comunicata a tutta l’Europa. Emblematico il fatto che, il modello «albanese» della Meloni è stato esaminato con estremo interesse nella riunione del Consiglio europeo tenuta il 17 ottobre scorso, a Bruxelles.

Già alla vigilia della riunione, peraltro, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, aveva scritto ai leader europei prospettando l’opportunità di istituire «hub per i rimpatri al di fuori dell’UE, soprattutto in vista della nuova normativa sul rimpatrio», citando proprio l’accordo stretto tra Italia e Albania, come un modello da cui «trarre lezioni pratiche».

La riunione del Consiglio ha corrisposto pienamente a questa sollecitazione della von der Leyen, prendendo in seria considerazione la proposta di allargare su scala europea quanto fatto dall’Italia con l’Albania. L’iniziativa, patrocinata dalla premier italiana, ha trovato il supporto di Olanda e Danimarca, e l’interesse di altri otto paesi.

L’Olanda, del resto, sta già seriamente lavorando all’idea di allestire in Uganda degli hub per richiedenti asilo, in attesa di poterli rimpatriare. Da parte sua, il primo ministro danese, la socialdemocratica Mette Frederiksen, guarda al Kosovo come destinazione per una possibile esternalizzazione dei campi di detenzione e si è rallegrata del fatto che «finalmente» i Paesi UE discutono seriamente di cambiare la politica di asilo.

In ogni caso, al di là del tema delle esternalizzazioni dei centri di smistamento, nel documento conclusivo della riunione del Consiglio si esorta ad agire in modo «determinato» a «tutti i livelli» per «aumentare e velocizzare i rimpatri», e si ribadisce l’impegno di «assicurare il controllo efficace dei confini esterni dell’UE con tutti i mezzi disponibili», valutando «nuovi modi per contrastare l’immigrazione irregolare, in linea con il diritto internazionale».

In realtà, abbiamo appena visto quali tensioni questa linea stia determinando, nel caso dell’Italia, proprio con il diritto internazionale e, più alla radice, con il rispetto dei più elementari diritti umani.

Ma, dopo l’avanzata dei partiti di estrema destra nelle ultime elezioni europee, tutti i governi temono che essi sfruttino le spinte xenofobe che attraversano i loro rispettivi paesi per accrescere ancora di più i loro consensi. Da qui il successo della linea sovranista, ma non antieuropea, della Meloni, considerata una soluzione intermedia accettabile per sfuggire a quella estrema dei Patrioti della Le Pen, di Salvini e di Orbàn.

La Spagna: una voce fuori dal coro

Unica eccezione, in questo quadro, quella rappresentata del premier spagnolo Sanchez, il quale, alcuni giorni fa, parlando davanti alle Cortes, ha affermato che «nel corso della storia, l’immigrazione è stata uno dei grandi motori dello sviluppo delle nazioni, mentre l’odio e la xenofobia si sono sempre rivelati i più grandi distruttori di nazioni».

Secondo il primo ministro spagnolo, l’accoglienza dei migranti non è solo una questione di umanità, ma l’unico mezzo realistico per far crescere l’economia e sostenere lo stato sociale, in un paese come la Spagna – e, bisognerebbe aggiungere, in un continente come l’Europa –, in cui il tasso di natalità è in picchiata.

L’idea è di valorizzare l’immigrazione come strumento efficace di prosperità: «La Spagna», ha detto ancora Sanchez – «deve scegliere tra essere un paese aperto e prospero o un paese chiuso e povero».

Il fenomeno migratorio, di per sé, non è una minaccia. L’unico problema è quello di saperlo gestire bene. In questa direzione, l’intenzione di Sanchez è ora quella di investire risorse per l’inserimento dei migranti nel mercato del lavoro e di ridurre la complessità delle procedure burocratiche per la valutazione delle domande di residenza.

In questo modo egli pensa di poter contrastare lo spopolamento dei comuni e di rispondere alla domanda di badanti per gli anziani, di programmatori, operai e tecnici per le aziende, oltre che di bambini per le scuole che rischiano di chiudere per mancanza di alunni.

Il premier ha anche citato i due milioni di spagnoli emigrati all’estero durante la dittatura franchista e i tanti altri che hanno lasciato la Spagna per cercare lavoro in altre parti del mondo: «Dobbiamo ricordare le odissee delle nostre madri e dei nostri padri, dei nostri nonni e delle nostre nonne in America Latina, nei Caraibi e in Europa. E capire che il nostro dovere ora, soprattutto ora, è essere quella società accogliente, tollerante e solidale che loro avrebbero voluto trovare». Parole che dovrebbero far riflettere anche noi italiani.

Non si tratta, peraltro, di un’apertura indiscriminata. Va in questo senso la recente visita di Sanchez a tre nazioni africane, Mauritania, Gambia e Senegal, con le quali c’è la volontà di instaurare una collaborazione diretta per una gestione condivisa dei flussi migratori.

L’obiettivo non è fermare le partenze con i campi di detenzione – come nel protocollo fra Italia e Libia –, ma solo cambiare il percorso. Non più via mare, ma via aereo, dopo un periodo di formazione nel paese d’origine.

Un economista per smentire le bugie

Sono d’accordo con Sanchez anche molti esperti italiani di questioni di economia. Come il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, che, nell’intervista rilasciata l’aprile scorso a La Stampa, spiegava che, con l’attuale andamento demografico, dopo il 2040 non si potranno più pagare le pensioni e indicava come unica soluzione l’apertura all’ingresso degli stranieri: «Le economie ricche», spiegava il presidente dell’INPS, «hanno tutte molti migranti».

E, facendosi interprete delle pressanti richieste degli imprenditori, che da tempo chiedono l’allentamento delle restrizioni all’ingresso di lavoratori stranieri, aggiungeva: «Anche noi abbiamo l’esigenza di coprire lavori medio-bassi da Nord a Sud con gli stranieri. La soluzione non può che essere l’accesso di immigrazione regolare e fluida». Con un’accoglienza non certo indiscriminata, ma volta alla reale integrazione culturale e materiale degli stranieri, oggi, nel nostro paese, del tutto assente, anzi ostacolata.

E forse anche Tridico – come tutti coloro che guardano con tristezza un’onda culturale e politica che si presenta come una difesa degli interessi dell’Italia e dell’Europa, ma è in realtà il cedimento a una visione ideologica, autolesionista – condividerebbe la conclusione del discorso di Sanchez alle Cortes spagnole:

«Voglio che i cittadini capiscano che questa non è una battaglia tra spagnoli e stranieri, o cristiani e musulmani o santi e criminali. È una battaglia tra verità e bugie, tra racconti e dati, tra ciò che è nell’interesse della nostra società e gli interessi di pochi che vedono nella paura e nell’odio per gli stranieri l’unica via per raggiungere il potere».

  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (www.tuttavia.eu), 19 ottobre 2024
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