La quinta monografia del 2024 della rivista Presbyteri si prefigge di «fare il punto sulla situazione del diaconato nelle nostre Diocesi, partendo da riflessioni di tipo ecclesiologico e storico, valorizzando percorsi di discernimento e formazione alla vocazione diaconale e mettendoci in ascolto di esperienze e relazioni che in questi anni stanno crescendo in consapevolezza e valorizzazione». Riprendiamo di seguito l’editoriale del numero.
Il percorso di queste riflessioni si orienta in maniera spontanea sul tema del «servizio», che è trasversale al ministero dell’Ordine, ma che è divenuto sempre più, nella sensibilità ecclesiale attuale, il DNA di ogni discepolo di Gesù[1]. In effetti i diaconi sono chiamati ad esprimere, secondo la loro grazia specifica, la diaconia, ossia il servizio-ministero di Gesù Cristo, servo del Padre, servo di tutti, «ricordando così anche ai presbiteri e ai vescovi, la natura ministeriale del loro sacerdozio, e animando con essi, mediante la Parola, i Sacramenti e la testimonianza della carità, quella diaconia che è vocazione di ogni discepolo di Gesù e parte essenziale del culto spirituale della Chiesa», come ricorda il documento della CEI I diaconi permanenti nella Chiesa italiana[2].
Il diaconato è la memoria viva del valore irrinunciabile del «servizio» nella chiesa. E lo può essere, in maniera altrettanto efficace, in questo nostro tempo in cui la vita delle persone spesso è ripiegata su se stessa e allergica ad uno sguardo di interesse e di cura per la vita degli altri.
A gloria di Dio
Lo afferma con forza San Paolo: «Fratelli, non cerco il mio interesse, ma quello di tutti, perché tutti siano salvati» (1Cor 10,33). E a tutto ciò fa precedere una espressione minuscola e meravigliosa: «Fate tutto a gloria di Dio».
Nel linguaggio corrente «gloria» significa entrare nella «Hall of fame», nella galleria della fama e della celebrità; la più famosa è quella di Hollywood, riservata alle stelle del cinema del teatro, della televisione, del teatro e della musica. Sorge spontanea una domanda: ma che Dio è quello che ha bisogno di un nostro tributo di onore o di una passerella sul tappeto rosso come i grandi divi di oggi? E la domanda può farsi ancora più inquietante: come può essere buono e santo un Dio che agisce unicamente per il proprio esclusivo interesse?
Il cortocircuito nasce dal fatto di attribuire al soggetto «Dio» la parola «gloria», intesa però nell’accezione umana di prestigio, notorietà e popolarità. Se così fosse, il termine gloria sarebbe un vocabolo davvero indecoroso da abbinare a Dio. Al contrario, Gesù ci ha rivelato il volto di un Dio estroverso e affabile che, come unico scopo, agisce in favore degli uomini rendendosi presente in mezzo a loro per prendersi cura di loro.
Questo è amore! Un amore limpido, totale, tutto teso a dare non per dovere, non per avere il contraccambio, ma a dare solo per amore. Le prove di tutto questo sono le grandi opere di Dio. La creazione, l’incarnazione, che ci rivela un Dio «che ha tanto amato il mondo da aver dato il proprio figlio», come ricorda l’evangelista Giovanni (Gv 3,16). A ciò Giovanni aggiunge qualcosa di molto importante, probabilmente affermato da Gesù stesso: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Tutte le religioni sostengono che l’uomo si deve sacrificare per Dio, ma solo il cristianesimo annuncia un Dio che si dona e si sacrifica per l’uomo.
«Non cerco il mio interesse»
Se Dio trova la sua gloria mettendosi a servizio dell’uomo, se Gesù si mette, in prima persona, a lavare i piedi ai suoi discepoli dicendo più volte di essere venuto per servire e non per farsi servire, per il discepolo del Signore lo stile del servizio si dilata all’intera esistenza, dal principio alla fine.
Servire è un verbo che prima di definire un’azione, dice una identità. Il servizio, prima che un fare, è un modo di essere. La stola e il grembiule di cui parla don Tonino Bello, in una delle intuizioni che più hanno colpito l’immaginario cristiano, e non solo, non si possono indossare a giorni alterni[3]. Il grembiule del servizio è la divisa che non può essere mai riposta nel guardaroba del discepolo.
Servire non è un frammento del nostro tempo o del nostro agire, non è una serie di cose da fare o di prestazioni da dare, è semplicemente un modo di essere, di essere cristiani e basta. Vuol dire che non si possono vivere alcuni tempi della propria vita come servizio e altri tempi orientati alla ricerca di sé. Significa che non si può servire pensando di ricevere riconoscimenti e onori divenendo importanti e facendo carriera. Servire gli altri per realizzare se stessi è una contraddizione totale del senso del servizio.
Scrive Martin Buber:
«Abbiamo imparato che ogni uomo deve tornare a se stesso, che deve abbracciare il suo cammino particolare, che deve portare a unità il proprio essere, che deve cominciare da se stesso; ed ecco che ora ci viene detto che deve dimenticare se stesso! […] Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé»[4] (pp. 49-50).
Diaconi … la profezia dell’essere dono
«Un impegno mosso dall’ansietà, dall’orgoglio, dalla necessità di apparire e di dominare, certamente non sarà santificante. La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo». È una citazione dell’Esortazione apostolica di papa Francesco Gaudete et exsultate (28)[5].
Gli uomini del nostro tempo spesso hanno la pretesa di poter controllare e dominare gli altri. I discepoli del Signore, invece, dovrebbero avere il coraggio di imparare non tanto la logica del potere, ma quella del servizio, non quella del ricevere ma quella del donare.
Gesù sulla Croce non tiene per sé neppure la sua mamma, ma la dona come madre di tutti (Gv 19,25-27). E in quell’ultimo attimo di esistenza, nel momento supremo della morte, egli dona all’umanità il respiro della Vita: «Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito» (Mt 27,50).
C’è un altro grande dono di cui oggi c’è un grade bisogno: è il dono dell’ascolto, per liberarci da ciò che ingombra e affanna i nostri cuori e preparare la via al Signore. Un ascolto che può lasciare lo spazio alla rivelazione e alla scoperta. Se ognuno di noi scoprisse i doni deposti dentro alla propria vita, alla propria intelligenza, al proprio cuore, lo stupore sarebbe incontenibile, come quello dei bambini.
«Gli scienziati dicono che siamo fatti di atomi, ma un albero mi ha sussurrato che siamo fatti di sogni, un’onda mi ha detto che siamo fatti di viaggi, un bambino che gioca con le fate mi ha raccontato che siamo fatti di meraviglia» (Fabrizio Caramagna).
Oppure, come afferma Khalil Gibran: «Se poteste mantenere la meraviglia del vostro cuore dinanzi ai miracoli quotidiani della vita, il vostro dolore non sembrerà meno meraviglioso della vostra gioia».
Abbiamo bisogno del dono degli altri e di chi con la propria vita lo testimonia con coerenza e continuità. Gesù stesso ha avuto bisogno di una conferma di amicizia e affetto da parte di Pietro: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene» (Gv 21,17).
Ascoltare è scoprire simultaneamente lo splendore e la fragilità, la pienezza e l’abisso della vita stessa. Significa uscire dal circolo vizioso della competitività perfezionistica, del confronto continuo con gli altri, sempre teso a desiderare ciò che non abbiamo o ci sembra di non avere. L’ascolto ci porta a prenderci cura degli altri, cioè avere a cuore, innanzitutto le persone e le relazioni. Come non ricordare le parole affettuose e intense con cui Paolo saluta i fratelli della comunità di Efeso, sulla spiaggia di Mileto: «Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge. Vi affido al Signore e alla parola della sua grazia. Ricordate le parole di Gesù: vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,28-38).
In queste parole ci viene consegnato un atteggiamento essenziale e particolarmente significativo soprattutto in alcuni momenti difficili della vita: prendersi cura degli altri, alla fin fine, vuol dire saper prendersi cura di sé stessi.
È un atteggiamento che ci permette di riflettere sulla nostra vita, su come gestiamo le relazioni, i progetti, i nostri impegni quotidiani. Può divenire un bel viaggio dentro di noi, permettendoci di comprendere come a volte lasciamo da parte la cura perché troppo presi dai nostri impegni o, forse, troppo assorti e ripiegati su noi stessi.
«Sedevo in rispettosa ammirazione, mentre l’anziano monaco rispondeva alle nostre domande. Io sono timido di natura, ma quella volta mi sentivo così a mio agio in sua presenza, che mi ritrovai ad alzare la mano: “Padre, parlaci di te stesso”. “Di me stesso?”, rispose. Ebbe una lunga pausa di riflessione e lentamente disse: “Il mio nome … era… Io … ma ora… è …Tu”» (Teofane il monaco)[6].
Questa piccola parabola potrebbe essere la risposta più efficace e convincente per comprendere quanto possa essere significativo e necessario il servizio diaconale nella chiesa oggi.
«Sostenuti dalla coscienza del bene compiuto, forti e perseveranti nella fede, siano immagine del tuo Figlio, che non venne per essere servito ma per servire, e giungano con lui alla gloria del tuo regno» (dalla preghiera del Rito di Ordinazione diaconale).
[1] Questa visione era già emersa nella precedente monografia di Presbyteri 04-2021, Vescovi, presbiteri e diaconi: tre sacramenti in uno.
[2] Conferenza Episcopale Italiana, I diaconi permanenti nella chiesa italiana. Orientamenti e norme, Roma, 1 giugno 1993, 7.
[3] A. Bello, Chiesa. Stola e grembiule, EMP, Padova 2006.
[4] M. Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Monastero di Bose-Magnano (BI) 1990, 49-50.
[5] Francesco, Gaudete et Exsultate; esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo, Roma 19 marzo 2018.
[6] Teofane il Monaco, Fiabe del monastero magico, (traduz. L. Bonfatti), Gribaudi, Torino 1988.
Un’ immagine che ci è cara è quella del diacono uomo della soglia, non tanto perché sta fermo sulla porta della chiesa, ma come colui che porta fuori il Signore dalla chiesa e prova a presentarlo alle persone che incontra, Con parole ed opere come l’ esempio empatico del sorriso che porta fuori il cuore. Preti e diaconi e cristiani “musoni” non rappresentano l’ amore che il Signore ha per ogni persona.
I diaconi possono ricevere già ora , e senza riforme, dal vescovo compiti importanti nelle curie diocesane e in parrocchie senza prete, ma nella pratica sono chirichetti ordinati, come dice il Card. Fernandez. Sembra che solo i preti celibi e i vescovi possano tenere in piedi la struttura organizzativa della Chiesa e questo esclusivismo porterà al collasso, come molti già dicono.
Ho sempre saputo che è la comunità che fa emergere la figura del Diacono per esigenze di servizio pastorali. Il Parroco indica e fa un primo discernimento,e poi il percorso per accedere all Ordinazione.Alloea il Vescovo indica come il Diacono possa svolgere il suo servizio nella Comunità.Non dipendiamo dal Parroco pur avendo rapporti di i reciproca stima ,e il “vulnus”secondo me è qui ….
Diaconi: il modo di essere tocca a noi come si evince in questa bella pubblicazione, il nostro agire personalmente tocca a noi, e quindi facciamoci l’esame di coscenza. Ma agire in nome della Chiesa, servizio che responsabilmente deriva dall’Ordine ricevuto, necessitano le direttive e autorizzazioni del Vescovo e del parroco dove siamo inseriti. Se serviamo da chierichetti il servizio è da chierichetti. Ma il campo vastissimo dei bisogni in questa variegata società che in modo veloce se non velocissimo si sta scristianizzando, necessita la fiducia responsabile in tutti che i nostri Pastori sanno e sappranno prendere gli opportuni provvedimenti.
Mons Nico è proprio bravo. Meriterebbe un premio
Anche agli inizi non tutti i presbiteri erano aperti a questo nuovo, ma antico ministero, sono trascorsi 29 anni dalla mia ordinazione, sono e rimango presente e operante nella Chisa di Cristo come servo fedele.
Da quale punto di vista è opportuno avviare una riflessione sul Diacono?
Da quello degli “interessati” avremo tante sfaccettature secondo l’esperienza di ciascuno, pos/neg, visionaria/depressa …
Non fermiamoci neppure a scandagliare il pensiero dei sacerdoti…
Preferisco che abbiamo a considerare soprattutto quella della gente, dei ragazzi/e disabili, delle persone sole, etc.etc.
L’articolo risolve il problema principale del Sinodo universale: se i diaconi non servono alla Chiesa, tanto meno le diaconesse.
Mi pare che il senso dell’articolo sia esattamente l’opposto: i diaconi SERVONO alla chiesa (e, per come la penso io, anche le diaconesse…)
Mi pare che in tutta questa ampia discussione, e di tutto quanto emergerà in futuro e forse anche prossimi giorni sul diaconato, si ascoltino poco i diaconi o meglio vi sia poca attenzione al loro vissuto. Poi personalmente eviterei generalizzazioni che poco si sposano con la natura variegata e carismatica del popolo di Dio, rischieremmo di non riconoscere la ricchezza dei doni che il Signore pone nelle nostre giornate.
Tutto molto condivisibile. I cuscini non solo servono alla Chiesa, ma servono la Chiesa. Non tuttavia serve questo modo di vivere il diaconato. Ormai sono dei super-chirichetti.