La domanda posta dal giovane nichilista Ippolit al principe Myškin – protagonista de L’idiota di Dostoevskij – è intrigante: «è vero, principe, che una volta diceste che il mondo sarà salvato dalla bellezza? […] Quale bellezza salverà il mondo?». In verità, non c’è autentica bellezza, che non faccia i conti con il dramma serio del dolore immane dell’uomo nella storia, dello scandalo della sofferenza dell’innocente, del fatto incontrovertibile che l’uomo è votato alla morte. Può la bellezza risplendere nel male, nel disordine, nell’indifferenza? Quale possibilità ha lo splendore della bellezza d’essere percepito nelle forme storiche del negativo e del malvagio?
Ogni filosofia della bellezza deve fare i conti con questo inquietante interrogativo che sorge dal profondo dell’ambiguità radicale della bellezza, nella condizione tragica dell’uomo. La filosofia della bellezza (ma anche ogni sapienza umana, antica e nuova) dovrà, senza negligenza, lasciarsi interpellare dalla sapienza della risposta data dalla fede cristiana alla questione di Ippolit – “quale bellezza?”: «la bellezza del risorto non è la bellezza seducente ma acerba dell’innocenza inviolata, della verginità ignara. È passata attraverso la passione della fedeltà e il fuoco della prova» (P.A. Sequeri). E la prova di una solidarietà “a caro prezzo”. Ha attraversato le doglie del parto: quelle della seconda nascita, con la morte come levatrice.
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Gesù di Nazareth, crocifisso e risorto è la bellezza che ha già salvato tutto il mondo, “una volta per tutte”. Senza confessare questo, come si resterebbe “cristiani”? Egli è Verbum abbreviatum, il Tutto nel frammento. È anche la manifestazione della Gloria di Dio, nella vicenda paradossale di chi, per dare testimonianza alla verità, compie tutto il “suo” bene e viene crocifisso per il “suo” amore, mostrando così sfigurato (senza decoro, né bellezza come il Servo di JHWH di Isaia) la bellezza del Dio-agape che lo rende “il più bello dei figli dell’uomo”. Senza una mediazione culturale (= critica) di questo sapere, come si resterebbe “teologi” (cattolici)?
Ippolit deve capire che la bellezza che salva tutti e tutto (e salva pure la bellezza da ogni superficiale mistificazione) sta proprio nel gesto d’amore con cui il principe Myškin lo ha accolto in casa sua: è l’ospitalità generosa (idioticamente espressa, cioè nella genuinità umana che non pensa tanto a sé stessa ma al dolore degli altri) a manifestare l’amore. “Questo” amore è la bellezza che salva, diventando come la “matrice” di ogni altro amore che possa contenere dentro di sé salvezza per gli umani. Perciò, Myškin, l’idiota, è figura di Cristo che agisce spingendo il dono della vita fino alla morte per affrancare, risollevare dalla miseria esistenziale e liberare dalla paura della morte. Il principe è figura enigmatica dell’Innocente che soffre per amore di tutti (cf. R. Guardini). L’ospitalità cristiana è allora il “dove” risorge Dio sempre, nella carità che prende corpo.
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“Ciò che compiamo in vita echeggia nell’eternità”, è una bella frase che il comandante, nel film – Il Gladiatore –, grida solennemente ai suoi soldati, pronti per muovere in battaglia e forse perdere la vita. Nessun problema! Si troveranno felici a passeggiare nei Campi Elisi. Un po’ come i vichinghi che aspiravano a morire in battaglia per raggiungere il Valalla. Noi sappiamo però che la guerra è disumana, perché distrugge e uccide esseri umani. E anche perché è “contronatura”: “agire con violenza è contrario alla natura dell’anima e di Dio”, disse Benedetto XVI nella tragicamente famosa lezione di Regensburg. Gli umani – creati a immagine e somiglianza di Dio –, sono “impastati d’amore”, le informazioni originarie che costituiscono l’uomo e lo determinano sono “pacifiche”, “solidali”, “fraterne”.
Le corde tese sul corpo degli umani dal creatore sono corde di simpatia e però si odiano, guerreggiano, si mercificano. Era il latino Orazio a stabilire: video meliora proboque, deterioria sequor (vedo le cose belle e le approvo, seguo le peggiori). C’è una spaccatura avvilente, c’è una crepa mortificante, uno sfondo di dolore, di conflitto che oscura la luce, quasi un “nulla fagocitante le cose” o un buco nero divorante tutto quanto si avvicina. E però, come sostiene Leonardo Cohen in suo Inno: “There is a crack in everything, That’s how the light gets in” (C’è una crepa in ogni cosa ed è da lì che entra la luce).
La resilienza umana – capace di attivare la potenza empatica di quelle corde di simpatie con le quali l’uomo suona le melodie “divine” dell’amicizia, degli affetti, della fratellanza e della solidarietà – non risulterà vincente solo perché l’uomo matura in “consapevolezza”, in coscienza di potercela fare, cresce “in sapienza”, “in conoscenza”: non si può essere tanto “pelagiani”, paradossalmente, quanto “gnostici” dopo duemila anni di cristianesimo. Perciò, Gaudete et exsultate mette in allerta davanti ai due pericoli, addirittura chiamati “nemici” della santità: anzitutto lo gnosticismo e poi il pelagianesimo. La spiritualità cristiana è la radice ultima di ogni azione caritativa: essa si definisce non nei termini di un emozionalismo inconcludente o di una ricerca soggettiva di interiorità e di profondità dell’umano. Tutt’altro, la spiritualità cristiana è “vita secondo lo Spirito”.
Il sapere della fede cristiana – quello della Rivelazione di Dio in Cristo, Figlio eterno di Dio nella carne umana, sapienza eterna del Padre che agisce nell’amore del Risorto, inviando, insieme al Figlio lo Spirito santo (Filioque) per riscattare tutti gli esseri umani dal male (“liberaci dal Male”, come preghiamo) − racconta dell’esistenza umana come lotta e agonia e parla di un necessario “aiuto di grazia” perché il cristiano vinca le sue battaglie contro l’egoismo, la superbia della vita, l’avarizia e l’attaccamento al denaro (“la brama delle cose” che è la radice di tutti i mali, per dirla con Gesù e il motivo di tutte le guerre, per dirla con Emanuele Severino che rielabora il detto eracliteo – “la guerra è l’origine di tutte le cose” − in “le cose sono l’origine di tutte le guerre”).
Ora la “grazia” non è una sorta di modello esteriore a cui riferirsi (come sostenevano i pelagiani) o un ammonimento autorevole, quasi un consiglio esterno che aiuti l’uomo nella sua lotta contro il peccato (personale e strutturale). Il potere di immedesimazione – di empatia, nel senso della fenomenologa di Edith Stein – inscritto nelle fibre più profonde degli umani, si riattiva con l’aiuto della “grazia increata”, lo Spirito santo, “amore effuso” nel cuore dell’uomo, secondo san Paolo, che agisce nell’essenza dell’anima umana e la converte alla carità. È questa l’esistenza nello Spirito che fonda la spiritualità cristiana, la quale vive, ora e qui (hic et nunc) della fede operosa nella carità, perché liberamente corrisponde (cioè risponde in libertà) alla carità che urge dal di dentro del suo cuore, affinché “si allarghino gli spazi dell’amore” (= dilatentur spatia caritatis, sant’Agostino).
Non c’è altro motivo perché, nella Chiesa cattolica, i santi vengono canonizzati: sono la “prova provata” che la grazia di Cristo è all’opera, che Dio non è una idea vaga di infinito che avvolge il tutto in espansione, ma è un Padre che parla e agisce, entra nella storia degli umani, nelle vicende storiche. La vita del santo lo attesta per chiunque ha occhi per guardare senza pregiudizi. È questo “positivismo teologico” (J. Ratzinger) a fare la differenza tra la spiritualità cristiana e qualsiasi altra spiritualità.
Se questo non è un “falso teologico” (e non lo è), meno di questo non potremmo dirci “cristiani cattolici”: seguire Cristo “nella carne”, vince la possibile deriva dell’intimismo e dell’alienazione religiosa. Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte lo aveva perentoriamente affermato: «si deve respingere la tentazione di una spiritualità intimistica e individualistica che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione» (n. 52).
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L’aver inventato una fede in sé consistente e autonoma – come adesione intellettuale a dottrine – senza le opere della carità, ha fatto perdere al cattolicesimo lo “splendore della grazia cristiana”, svuotandolo di cristianesimo e, dunque, rendendolo spiritualmente non più interessante. È questo “cattolicesimo convenzionale” che è spiritualmente irricevibile, come il biglietto rispedito al mittente di Ivan Karamazov. L’opera che riecheggia per l’eternità e destina alla gioia del paradiso è quella della misericordia corporale (dare da mangiare all’affamato, da bere all’assetato, vestire il nudo…) investendo – da buoni samaritani – tutta la “naturalmente umana” partecipante sensibilità al dolore e alla sofferenza degli altri.
L’atto della carità è interiore e non estrinseco all’atto di fede. La fede cattolica è testimoniale, diversamente è “fede morta” (san Giacomo). E tuttavia è anche “verità teologica” che “si possono dare tutti gli averi ai poveri o perfino dare il corpo a bruciare” senza avere la carità. Sembra addirittura si possa operare miracoli, ma senza la carità nulla riecheggia nell’eternità, per il Paradiso, parola di Gesù. Anche questo appartiene al sapere cristiano della fede che la teologia in quanto “scienza” deve sapere mostrare nella sua intelligenza e sensatezza umana. Meno di questo, come si potrebbe restare teologi (cattolici)?
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La coscienza credente accoglie il sapere della Rivelazione di Dio sul mondo, sull’uomo e su Dio: rispetto a questo sapere, la coscienza non crea nulla, ma è recettiva, in tutta libertà. È una libertà di coscienza “attiva”, perché si pone nell’atto di conversione per accogliere la Parola di Dio qual è, “Parola di Dio e non parola di uomini”. La fede è dogmatica, accede al proprio sapere credendo, perché l’autocomunicazione di Dio accade dentro “parole e fatti” di uomini. Perciò il cristiano cattolico “sa ciò che crede” e “credendo sa”: c’è una lunga tradizione filosofica a cui ci si può riferire, fino alla Katholische Weltanschauung (concezione cattolica globale della realtà) di R. Guardini. Certo, non bisogna cedere alla trappola illuministica che forgiando la propria ragione come unica fonte del sapere, relega la fede nella mitologia antica, dopo aver giudicato tutta la sapienza del mito come fosse una favola.
Esistono pertanto in giro tanti teologi – sedicenti tali perché dotati di titoli di dottorato delle Università ecclesiastiche cattoliche e non (si pensi in Germania dove la teologia è presente nelle Università dello Stato) − rimasti (forse anche con consapevolezza) irretiti nel metaverso illuminista che oppone pregiudizialmente “credere e sapere”, separa violentemente “fede e ragione”, ritenendo (da scienziati) di dover con la propria ragione decostruire e manipolare o anche eliminare – quasi retaggio del vecchio passato o di un linguaggio tradizionale desueto − i dogmi della fede: e allora, Gesù di Nazareth è o non è “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato e non creato della stessa sostanza del Padre”? È Gesù di Nazareth – l’incarnato duemila anni orsono nel grembo di Maria (Theotokos) − “prima di Abramo, prima di Adamo, prima che il mondo fosse”? E come potrebbe essere un “falso teologico” l’affermazione di Pietro sull’unicità della salvezza in Cristo, senza saltare di pari passo la fede in Gesù, Verbo del Padre, Dio presso Dio?
La fede cristiana sa bene che “Dio nessuno l’ha visto e nessuno lo può vedere, ma Gesù di Nazareth, l’unigenito Figlio di Dio, è venuto a darcene la spiegazione”. La singolarità di esegesi su Dio – la rivelazione del volto di agape, solo e sempre amore, quale mistero nascosto nei secoli e ora “messo in chiaro” −, è fatta con “parole e gesti” intrinsecamente connessi. Non è pertanto assimilabile a nessuna sapienza che la mente di un uomo abbia potuto concepire. Poiché il Vangelo è la persona di Gesù, la rivelazione cristiana non può patire una interpretazione intellettualistica, quasi fosse un insegnamento dottrinale di sapienza, simile a quella del Buddha o di Gandhi. È l’evento dell’impatto “corpo a corpo” con il Logos di Dio, la Sapienza del Padre.
Senza pensare criticamente questo, come si resta teologi (cattolici)? E se per dirlo – dato il contesto culturale di secolarizzazione e di esculturazione del cattolicesimo − qualcuno si offende o si scandalizza, allora si può in tutta umiltà “chiedere scusa o perdono”, oppure usare la frase di rito Absit iniura verbis. Il teologo cattolico non può tacere, anche se il clima culturale è avverso e ostile. Ne va della sua testimonianza non negligente al sapere della fede, mentre resta disponibile al dialogo con tutti ed è pronto a dialettizzare con cogni sapienza, filosofica o scientifica che sia, religiosa o mitologica.
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Questo sapere – che un sàpere sapido, gustoso e fecondo nella vita, tutto sapore − non può essere annacquato o ridotto, disteso come nel letto di Procuste delle legittime istanze della cultura (come fece Ario) o di esigenze insindacabili della ragione (come fecero Abelardo o Berengario) o di un’acculturazione dell’esperto in teologia che ritenga – per esempio, con F. Nietzsche e gli altri − san Paolo responsabile dell’invenzione del cristianesimo, con una sostanziale falsificazione del messaggio di Gesù, che poi, invece, estrapolato dal contesto neotestamentario, si troverebbe “papale papale” già nelle antiche sapienze greche e romane, oppure nelle religioni orientali. Ecco la sentenza dei sofiologi: cosa avrebbe detto di nuovo Gesù? Nulla!
Un teologo cattolico che non focalizza la “singolarità di Gesù Cristo” e la “differenza cristiana” (intesa anche come differAnce, alla Derrida), come resterebbe “teologo”? E non è affatto esclusivismo! Perché un sano “cristocentrismo teologico” dispone la spiritualità cristiana a saper discernere e scrutare i “beni” e le “ricchezze” o i tesori del Logos dentro tutte le tradizioni religiose e, perfino, in quelle teosofiche. Il teologo vero, però, che pratica una “teologia teologica” (W. Kasper) “giudica” tutto nella sapienza di Cristo, l’agape che rivela il volto vero di Dio-amore, la cui bellezza splende nell’agire dell’uomo, se è vero che “la Gloria di Dio è l’uomo vivente” (s. Ireneo).
Il cristocentrismo, infatti, non è cristomonismo e la teologia conciliare lo ha ben chiarito. Il messaggio della fede è destinato agli uomini, perché l’umano dell’uomo venga liberato e salvato. La spiritualità del credente “sa” del potenziale di rinnovamento antropologico proprio dell’esperienza della fede. La verità rende liberi, l’adesione al Vangelo è redenzione dentro la storia: la sequela Christi permette la rinascita dell’uomo nella sua ultima verità e bellezza. Così l’uomo vero – cioè l’uomo nuovo di san Paolo, dunque il cristiano − mostra la qualità bella dell’umano, verificandola di fronte alla morte, accettata in assoluta libertà per amore: la stoffa dell’uomo è questa partecipante solidarietà al dolore e alla sofferenza di altri che spinge il dono della vita fino a morire per amore.
Meno di questo, la teologia cattolica non serve la missione della Chiesa, la cui evangelizzazione ha l’obiettivo di sempre. È quello di ricreare una “mentalità cristiana” in tutti gli ambiti della vita, superando il dramma contemporaneo della scollatura tra Vangelo e vissuto quotidiano, tra fede e cultura (cf. Evangelii gaudium che riprende direttamente Evangelii nuntiandi). L’assunto di fondo è la convinzione credente che il contenuto di verità del cristianesimo, mostrato nella testimonianza dell’amore, risulta esistenzialmente capace di promuovere e di far progredire la cultura della libertà dell’uomo, di ogni uomo, stimolandone la creatività.
Meno di questo, il teologo non serve da “teologo” l’annuncio del Vangelo e continuerà magari a chiamarsi “teologo” come veniva pur denominato Platone per la sua teoria sull’Idea del bene o Aristotele per il Motore immobile o anche i fisici naturalisti (detti presocratici) che indagano l’Archè di tutte le cose. Ai giorni nostri, anche un Cacciari che da filosofo indaga l’Inizio o concepisce il fondamento della sua “Metafisica concreta” come “apertura abissale”, potrebbe essere chiamato “teologo”. Tanto più Cacciari che, secondo il cardinale Martini, parla “come un Padre della Chiesa” e lavora filosoficamente sull’Incarnazione come evento, meglio di quanto non facciano alcuni sedicenti teologi. Tuttavia, se la fenomenologia di Hegel non sembra si possa collocare nel campo della teologia − attesa l’attuale consapevolezza epistemologica della teologia cattolica − allora nemmeno i su citati filosofi sono “teologi”, tutt’al più sono “teiologi” (lo preferirei a “sofiologi”), indagatori del mistero, del Theiòn, del “divino”.
La Teiologia potrebbe infatti, nel futuro, svilupparsi come disciplina “ponte” per un dialogo interdisciplinare, multidisciplinare e transdisciplinare tra la teologia e tutti gli altri saperi critici, come auspicato dalla Lettera apostolica del 1° novembre 2023 di papa Francesco Ad Theologiam promovendam:
«La transdisciplinarità va invece pensata “come collocazione e fermentazione di tutti i saperi entro lo spazio di Luce e di Vita offerto dalla Sapienza che promana dalla Rivelazione di Dio” (Costituzione Apostolica Veritatis gaudium, Proemio, 4c). Ne deriva l’arduo compito per la teologia di essere in grado di avvalersi di categorie nuove elaborate da altri saperi, per penetrare e comunicare le verità della fede e trasmettere l’insegnamento di Gesù nei linguaggi odierni, con originalità e consapevolezza critica» (AThP n. 5).
È un servizio che la buona teologia deve offrire all’annuncio del Vangelo per fa sperimentare a tutti la gioia della sua bellezza cha ha salvato il mondo.
- Antonio Staglianò, vescovo emerito di Noto, è presidente della Pontificia Accademia di Teologia.