Sto riflettendo sulla storia di Antigone, narrata da Sofocle e, disposto ad accogliere inevitabili connessioni, reincontro suo padre, Edipo, l’Edipo di Renè Girard, che ne rivela i tragici limiti nel confronto con Gesù di Nazareth.
Edipo si sottomette, infatti, alla logica sacrificale del potere e della società e accetta come giusto il verdetto che lo esclude da Tebe, mentre Gesù non riconosce la legittimità sacrificale dei poteri che lo condannano a morte.
Gesù si oppone radicalmente alla logica di Caifa e del Sinedrio: “È meglio che un uomo solo muoia per il popolo” (Gv 18,14) La solidarietà e il consenso sociale che si fondano a partire dal sangue delle vittime sono condannate dal condannato che inaugura un nuovo modo di morire, come protesta disarmata e amorosamente rivoluzionaria contro i poteri religiosi e politici costitutivamente violenti e sanguinari.
Dobbiamo certamente distinguere la violenza degli stati gestiti da dittature nazifasciste da quella degli stati inaugurati dalle rivoluzioni, quella giacobina e quella più recente di matrice marxista-leninista. Ed è la distinzione ovvia e necessaria tra imperativi categorici alternativi che ispirano la difesa armata di privilegi, razzismi e oppressioni, oppure cammini di giustizia, diritti e solidarietà.
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Di fatto, però, l’amore per la giustizia, religiosamente assolutizzato, kantianamente categorico, si trasforma in tragedia con la ferrea e tirannica determinazione dei Robespierre e degli Stalin. Alla fine, sembra davvero che scompaiano le motivazioni iniziali. E ciò che rimane è la cieca obbedienza all’imperativo categorico.
Esemplare la storia del comunista cecoslovacco Artur London narrata in un film del 1970 diretto da Costa-Gavras, “La confessione”. London, nel 1951, durante le purghe staliniste, è arrestato, torturato e obbligato a confessare colpe e crimini mai commessi; inizialmente resisterà, ma, in seguito sceglierà, nonostante la sua innocenza, di giustificare ideologicamente i suoi accusatori per rimanere fedele al credo comunista.
Come non sospettare la possibilità di un’analogia con la cieca obbedienza di Adolf Eichmann al führer che ordina lo sterminio degli ebrei, narrata da Hannah Arendt, nel libro “La banalità del male”, nel 1961?
Sono le forme di fedeltà alle ideologie e alle personalità autoritarie ad espellere l’etica dalla politica. E sappiamo – se non persistiamo nell’illuderci ed ingannarci – che questa nostra storia continua a ripetersi.
A partire “dalla morte di dio” e dall’insostenibilità filosofica e giuridica del potere di diritto divino, la Rivoluzione Francese inaugura una successione di poteri legittimi, che, però, sorgono tutti da stati di eccezione, da rotture illegittime e violente dell’ordine costituito.
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Mi sembra, tuttavia, che l’evidenza negativa più marcante non sia costituita dall’imbroglio giuridico, bensì dall’espulsione dell’etica dal campo politico da parte della destra, che abbandona gli argomenti e sceglie la forza bruta; e da parte della sinistra che privilegia la dialettica o, nelle sue peggiori e attualmente più frequenti prestazioni, il pragmatismo e l’opportunismo.
Ed ecco che finalmente riappare Antigone, che da venticinque secoli cerca di rivelarci la poderosa e mortifera illegittimità del potere politico. Tebe è un esempio dell’instabilità del potere politico, soggetto a sanguinose dispute familiari: Laio, Edipo, Eteocle e Polinice, Creonte. Due fratelli si faranno guerra per conquistare il trono. Moriranno ambedue nel confronto, ma Creonte, il nuovo sovrano decide di privilegiare la memoria di Eteocle e di lasciare il cadavere di Polinice in pasto agli avvoltoi, senza i riti funebri prescritti.
In nome di Altro – dèi, affetti fraterni, valori, etica – Antigone sceglie di stare dalla parte della vita opponendosi alle decisioni mortifere del potere. Avrà cura del corpo del fratello e, per la sua disobbedienza, sarà perseguitata e minacciata di esilio e di morte. Alla fine, le resterà la morte suicida quale estrema arma di lotta contro l’ingiustizia.
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Come non cancellare dalla memoria la storia di Zenone, filosofo, scienziato e alchimista, narrata nel romanzo “L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar, nel 1968? Siamo in Belgio, nel XVI secolo, e Zenone, dopo anni di studio e peregrinazioni nelle corti europee con minacce da parte della Chiesa, riesce a nascondersi sotto falso nome vivendo, come medico, una vita semplice e nascosta. Ma, alla fine, sarà scoperto e consegnato al tribunale dell’Inquisizione. In carcere, prima dell’esecuzione sul rogo come eretico, Zenone si toglierà la vita, per strappare agli inquisitori il potere ingiusto e illegittimo di ucciderlo.
Come non ricordare il suicidio in massa dei mille zeloti e delle famiglie giudaiche che subivano l’assedio delle legioni romane nella fortezza di Masada, nel 73 d.C.? Scelsero la morte per privare l’impero aggressore del potere di decidere il loro destino.
Anche in questi casi, letterari e storici, la scelta di morire è un atto estremo contro l’ingiustizia e la prepotenza delle religioni e degli imperi.
L’accettazione dell’inevitabilità della morte, che si trasforma nell’ultima risorsa disarmata della lotta contro il potere politico, ci rimanda nuovamente a Gesù di Nazareth e a coloro “che passarono per la grande tribolazione e lavarono le loro vesti nel sangue dell’Agnello” (Ap 6,14): i martiri che lo hanno imitato e seguito nella sconfitta del Venerdì Santo. Insomma, seguire Gesù è sapere che il nostro destino è la sconfitta, perché chi vince nella storia è sempre condannato a ripetere cicli di guerra e di morte.
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Può sorgere, allora, un dubbio sulla possibilità di un approccio cinico, disincantato, che esclude ogni impegno a servizio della giustizia e del bene comune. Ma la vita pubblica di Gesù, testimoniata dai quattro vangeli, ci dice del suo progetto di fraternità e della sua prassi indignata e amorosa.
Optare per una teologia della sconfitta significa forse che Antigone, Zenone e Gesù testimoniano un’identica opzione fondamentale? Meditando sulla radicalità che caratterizza le tre biografie, non possiamo certamente negare profonde analogie, ma Gesù, Messia, estremizza incomparabilmente il tema della morte come vittoria, il tema della sconfitta della Croce come Gloria, il sepolcro vuoto come impensabile e indicibile Risurrezione.
Carissimo Flavio,
hai toccato un argomento scottante e decisivo. La violenza e l’uomo: chi usa la violenza è solo un debole che ricorre a strumenti di aggressione per imporsi. Chi usa la violenza non è ancora un uomo, non è un umano, è un subumano. Un uomo realizzato bandisce qualsiasi tipo di violenza dal suo orizzonte.
Quando la smetteremo di celebrare come grandi uomini coloro che hanno usato e usano violenza, seminando distribuzione e morte? I libri di storia definisco grandi e “magni” personaggi che hanno compiuto crimini a iosa. Sono trascurate, nei libri di storia, le persone che fuori dalla violenza ricostruiscono i fili della rete umana lacerata da questi cosiddetti “grandi”. Ripeto: chiunque usa violenza è ancora non uomo, è un subumano. Per essere chiaro del tutto: un abele è un uomo, non è ancora uomo un caino. Nonostante le apparenze, Abele non è uno sfigato, ma è seme inannientabile di umanità. Laddove Caino, con sangue di Abele nelle vene fatica a trovare la strada del riscatto e dell’umano. Non capisco perché quando in uno stato di diritto un individuo commette una sola violenza subito viene fermato e perseguito, mentre a vari capi e soci in vari stati del mondo si concede immunità fino allo sfogo totale di violenze inaudite di annientamento e morte. Quando verrà una legge universale per cui un chiunque usi violenza decada dalla sua funzione di guida e governo?E la polizia dell’ONU non potrebbe essere usata per intervenire su ogni caso di terrorismo nel mondo? La tanto celebrata rivoluzione francese del principio di fraternità se n’è proprio scordata…
Se
Giustizia senza redenzione, si vede anche nelle Mosche di Sartre, ennesimo richiamo al Teatro greco.