A proposito di donne autorevoli

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«Francesca Cabrini», produzione americana degli Angel Studios, è uscito in Italia a metà ottobre, dopo aver riscosso, come film «indipendente», uno straordinario successo di pubblico negli Stati Uniti.

Non un capolavoro

Non è un capolavoro, purtroppo. E spiace, perché sarebbe bastato poco al regista messicano Alejandro Monteverde per dare un tocco di verità più convincente alla storia di santa Francesca Cabrini che è di per sé straordinaria, che non chiedeva di inventare nulla, e che invece rischia l’agiografia.

Si poteva evitare, in prima battuta, la sottolineatura emotiva forzata e inutile di una colonna sonora enfatica, a prescindere dal contributo canoro di Andrea Bocelli e figlia.

Per un contatto più credibile con la realtà, poi, non bisognava rinunciare ad affrontare la complessità linguistica della situazione, in cui una missionaria che non è mai uscita dalla provincia lombarda si reca oltre oceano e interloquisce con immigrati italiani per lo più meridionali, con un arcivescovo e un sindaco di origini irlandesi, con giornalisti e altri notabili newyorkesi. Eppure, tutti parlano inspiegabilmente l’italiano standard, senza sottotitoli e senza nemmeno un’inflessione (se si eccettua la caricatura del dialetto mafioso siciliano nella figura del protettore della prostituta Vittoria).

Ambedue queste scelte rivelano la disposizione ad accompagnare fin troppo lo spettatore, togliendogli ogni fatica interpretativa ma anche molta autonomia di giudizio, e quindi generando diffidenza in un pubblico adulto e critico.

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Per finire con le osservazioni negative, aggiungiamo – in una sceneggiatura per altro ben congegnata – un paio di situazioni caricate (come la scena in cui il piccolo Paolo viene respinto dall’ospedale cittadino dove va a supplicare aiuto per la madre morente) o caricaturali (come il magnaccia brutto e cattivo di cui si è già detto o come il prete italiano sfiduciato che non smette di arrotolare spaghetti sulla forchetta mentre incontra per la prima volta le suore missionarie a New York).

E aggiungiamo pure, per non far sconti, che nella fotografia – che pure consente di apprezzare l’accurata ricostruzione storica dei bassifondi del quartiere di Five Points e dell’eleganza dell’Upper East Side – si sarebbe potuto rinunciare all’estetismo oleografico di alcune inquadrature (come il controluce con riflesso sull’acqua dentro la cornice di un arco, pure raddoppiato nel riflesso, nella scena del funerale della madre di Paolo) o al bozzettismo di altre (il lampionaio che accende la fiammella a gas al porto, sullo sfondo della Statua della Libertà). Ma si tratta, comunque, di un problema di sobrietà e di misura, perché non vorremmo rinunciare, invece, alla scena potente di Madre Cabrini in controluce, completamente velata di nero, che compare a sorpresa nell’ufficio di redazione del New York Time, come un pensiero rimosso e ineludibile.

Le ragioni per vederlo

Di grandissima qualità, in ogni scena, tale da giustificare anche da sola l’invito alla visione, è l’interpretazione di Cristiana Dell’Anna nella parte di Francesca Cabrini: nella rigida cornice del velo il suo volto acquista un’espressività ancora più intensa, ma sempre autentica (si scioglie nel sorriso soltanto quando accudisce i bambini abbandonati e nel pianto quando ne muore qualcuno), mentre l’abito religioso, indossato «come un’armatura», fa del suo corpo uno strumento consapevole di lotta.

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Notevole anche l’interpretazione di D. Morse nei panni dell’arcivescovo di New York, mons. Corrigan, a esprimere la reticenza di un ecclesiastico prudente, la sua sofferta soggezione ai poteri forti, ma anche la sua sofferta ammirazione per la forza della piccola suora e la rara umiltà di riconoscere di non esserne all’altezza.

Più facile il ruolo di Giancarlo Giannini nel ruolo di un papa Leone XIII saggio e benevolo, fin troppo facilmente contrapposto al cardinale «cattivo» che intercetta e blocca le richieste di suor Cabrini.

Ma ci sono anche altre convincentissime ragioni per raccomandare la visione del film.

La storia è vera, anche se è più romanzesca di un romanzo di avventura. La drammaturgia non aggiunge nulla a una vicenda già narratologicamente perfetta: gli inizi difficili di un grande progetto missionario e l’audacia di un grande sogno (costruire un «impero della speranza» a partire dai bambini abbandonati che vivono nelle fogne); la sproporzione tra la piccolezza della protagonista e l’alto rango degli interlocutori potenti (dalla gerarchia cattolica al sindaco di New York); il susseguirsi delle «prove» cui l’eroina si deve sottoporre (trovare denaro, affrontare la malavita dei bassifondi, scavare pozzi per l’acqua, affrontare i plurimi sabotaggi, e non è mai finita);  il ruolo degli «aiutanti» (il giornalista del New York Times e l’amico medico volontario) e degli «antagonisti» (dal cardinale di cui sopra al magnaccia di Vittoria, dai notabili newyorkesi apertamente razzisti al sindaco di New York, che Madre Cabrini arriva a minacciare in prossimità delle elezioni facendosi garante del voto della comunità italiana della città); la «spannung» per cui la piccola suora si trova a perdere, con l’incendio doloso del grande ospedale in costruzione, tutto quello ha impegnato per l’acquisto, cioè tutto); la «crisi» che ne segue, in cui vediamo la protagonista affranta, inginocchiata in camicia da notte davanti al crocifisso; e lo «scontro finale» per ottenere giustizia e risarcimento, preceduto da una scena di «vestizione» che ha il suo analogo narratologico nella vestizione delle armi dei guerrieri epici. Quanto all’happy ending, il racconto è umilmente ellittico, così come è ellittico degli inizi (la formazione, la vocazione, la fondazione dell’ordine religioso).

Una storia attuale

È una storia attuale, e non c’è neanche bisogno di argomentarlo: i migranti, l’emarginazione, la povertà e la ricchezza che convivono senza mai incontrarsi nelle nostre città, i bambini sempre e ancora vittime, l’esclusione delle donne da ogni ambito di potere.

Quanto alla povertà e all’emarginazione, c’è da chiedersi se il progetto di Madre Cabrini di un grande ospedale per curare «insieme» gli americani ricchi e i migranti poveri, dove le rette pagate dai primi sostengano anche i costi per i secondi, non sarebbe oggi considerato pericolosamente «sovietico» e quanto il sistema sanitario americano abbia ancora bisogno delle istituzioni religiose caritatevoli.

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Quanto poi all’esclusione delle donne dal potere, chi credesse enfatica o caricaturale, nel film, la contrapposizione tra le figure e gli ambienti suntosi degli alti prelati e l’austerità castigata delle piccole suore potrebbe leggere quanto scrisse circa cento anni dopo la morte di Francesca Cabrini la teologa cattolica Mary Daly, presente nel settore riservato alla stampa ad alcune sedute del Concilio Vaticano II in San Pietro, osservando a distanza il gran numero di cardinali e vescovi, «uomini anziani in vesti color cremisi» e, in un altro settore, gli uditori, tra i quali «alcune donne cattoliche, per lo più suore con lunghe vesti nere e il capo velato. Il contrasto tra il portamento arrogante e l’abbigliamento vistoso di quei “principi della Chiesa” e l’atteggiamento umile, dimesso e le vesti scure di quelle pochissime donne suscitava sgomento». Solo discorsi di uomini, «voci senili, fesse, lagnose»: le poche donne «sedevano docilmente, ascoltando la lettura in latino di documenti che né loro né i lettori sembravano comprendere. Nessun film di Fellini avrebbe potuto superare quell’involontaria autoparodia del cattolicesimo».

Cosa è cambiato?

Questo sessant’anni fa. Di pochi giorni fa è invece lo stupefacente invito rivolto dal card. Fernández del Dicastero per la Dottrina della Fede al gruppo di studio del Sinodo sul tema del diaconato alle donne a esaminare la vicenda di «donne che nella storia della Chiesa hanno esercitato una vera autorità» per «provare ad allargare gli spazi per una presenza femminile più decisiva».

Ebbene. Madre Cabrini si vede rifiutato undici volte il suo progetto, senza che le sia concessa udienza. Le è impossibile accedere ai livelli più alti dell’interlocuzione (tanto al papa quanto al sindaco) se non dopo estenuanti insistenze ed escamotage al limite della trasgressione. È continuamente richiamata all’obbedienza, accusata di invadenza, testardaggine, ma soprattutto di ambizione, perché (allora come ancora, verrebbe da dire) nella Chiesa un uomo di potere svolge un servizio, una donna che chiede di accedere allo stesso «potere» è ambiziosa. «Stia al suo posto», si sente ripetere Madre Cabrini.

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Cos’è cambiato? La differenza è che oggi sindaco di New York può essere una donna senza scandalo di nessuno (attualmente ci sono due donne a Los Angeles e a Boston e non è escluso che ce ne sia una prossimamente alla presidenza degli USA), mentre nella Chiesa cattolica le donne si sentono invitate a «studiare» quale sia il loro posto, variante di cortesia per dire di «stare al loro posto».

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