In occasione della pubblicazione dell’enciclica “Dilexit nos”, sull’amore divino e umano del Sacro Cuore di Gesù, riprendiamo una riflessione di Marcello Neri sul rapporto tra papa Francesco e la devozione al Sacro Cuore pubblicata su Il Foglio il 9 aprile 2014.
Che Francesco sfugga con ostinazione ogni genere di protocollo e schema previsto per il Pontefice regnante, è fatto di cui ormai ci siamo accorti tutti. Basterebbe chiedere al personale della sicurezza vaticana; che, anche se forse non lo sa fino in fondo, è probabilmente il soggetto oggi più indicato per interpretare e spiegare questo Papa.
E non mi riferisco semplicemente al suo stile di stare in mezzo alla gente, ai suoi modi di fare; no, penso invece al suo modo di intendere la Chiesa e la missione che egli vede affidata al suo ministero di vescovo di Roma – che è poi la ragione per cui uno è anche papa.
Questioni teologiche ed ecclesiali, quindi; di cui i migliori esegeti e conoscitori sono gli uomini, discreti e invisibili, della scorta. Con buona pace dei teologi; e anche degli editorialisti di questioni ecclesiali di ogni colore, con la loro preoccupazione di suggerire a Francesco cosa egli dovrebbe fare per il vero bene della chiesa.
Tutti un po’ in apprensione, per usare un eufemismo, perché vedono montare un’opposizione interna o dare troppo spazio a posizioni come quelle del cardinal Kasper (ma, poi, poco importa). Tutti anche un po’ stizziti, perché sembra che il papa non ascolti i loro saggi suggerimenti, che gli fanno giungere quotidianamente attraverso l’armata dei media; che, a loro volta, si sono innamorati alla follia di Francesco perché fa cassetta e tira un po’ su le vendite.
Un groviglio di contraddizioni e paradossi, insomma. Ma lui non sembra curarsene più di tanto; e continua imperterrito a occuparsi delle due cose che più gli stanno a cuore: il Vangelo e la folla, poi viene il resto – al quale sta lavorando, altrimenti non si spiegherebbero i malumori che sorgono da ogni parte degli schieramenti cattolici.
Due amori questi, il Dio della buona novella e la folla, che duemila anni fa avevano appassionato anche l’uomo di Nazareth. Non male che un successore di Pietro torni a condividere con il suo Maestro questi affetti intorno ai quali aveva costruito la sua rappresentanza di Dio.
Detto a costo di sembrare ingenui, perché si sa che la Chiesa è una macchina complessa che rivendica delicate alchimie diplomatiche e talvolta l’astuzia dei figli del mondo – che lo stesso Figlio di Dio non sembrava poi disdegnare del tutto. Ma questo Francesco lo sa benissimo; e accorda i due lati della cosa con una naturalezza che genera scompiglio.
In fin dei conti è stato gesuita tutta una vita, e non ha certo scordato la lezione. Forse siamo noi che non teniamo debitamente conto di questa radice spirituale del papa attuale; e della sua conseguente declinazione all’interno del contesto latinoamericano.
Ma siamo onesti, ce lo aveva detto fin dal primo giorno quando, tra il disappunto di alcuni e lo stupore di molti, si affacciò su Piazza San Pietro per chiedere la benedizione su di lui della sua gente.
Ecco l’anello che mi sembra sfugga ai più nel cercare di leggere tra le righe di questo pontificato: l’atmosfera spirituale in cui si è formato Bergoglio, quella di cui si è nutrito e ha lasciato entrare in tutti i pori della sua pelle di religioso e di prete.
Se lo manchiamo, perdiamo molto di questo papa; lo inquadriamo in chiavi di lettura che sono una forzatura indebita. La cosa è stata evidente nelle reazioni, un po’ scomposte, che il tema della giustizia sociale, su cui Francesco torna in continuazione, affrontandolo in forma ufficiale nell’Evangelii gaudium, ha suscitato in settori anche autorevoli del liberalismo economico e finanziario – più che a Novak con la sua teologia del capitalismo, che ha trovato spazio sul Corriere, penso a una serie di articoli usciti sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung nel periodo seguente alla pubblicazione dell’esortazione.
Infatti, alla base della sua educata critica all’attuale sistema, perché il nostro si preoccupa anche di quelli che potrebbero “sentirsi offesi dalle mie parole” (Evangelii gaudium, 208), non sta né un affetto anticapitalistico né una qualsiasi forma di ideologia – né il furore evangelico del poverello di Assisi né la teologia della liberazione (tanto per intenderci); ma piuttosto nella tradizione popolare del cattolicesimo: la devozione.
Dovremo farci l’abitudine, per il momento abbiamo un papa devoto – che ci piaccia o no. La giustizia sociale, così cara alla predicazione di Bergoglio, come alla stragrande maggioranza della popolazione dei paesi sviluppati che arriva a stento a fine mese e deve considerare l’avere un lavoro qualsiasi come un privilegio (figuratevi il resto del mondo), si radica in un’inedita riconfigurazione culturale di una devozione oramai in via di estinzione nella Chiesa cattolica, quella del Sacro Cuore.
Di questo ci accorgeremmo se avessimo l’orecchio un po’ allenato al lessico ottocentesco di questa perduta spiritualità. Proviamo a fare qualche piccolo esercizio di rieducazione alle assonanze della devozione.
Ci troviamo in uno dei passaggi cruciali dell’esortazione, dove Francesco si sofferma sulle “ripercussioni comunitarie e sociali del kerygma”, ed ecco che ti spunta davanti un’affermazione di questo genere: “Neppure la nostra risposta di amore dovrebbe intendersi come una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche individuo bisognoso, il che potrebbe costituire una sorta di ‘carità à la carte’ (…) La proposta è il regno di Dio; si tratta di amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui egli riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana tendono a provocare conseguenze sociali” (EG, 180).
Una frase come questa sarebbe suonata, tra fine Ottocento e inizio Novecento, come l’endorsement più esplicito possibile da parte del vicario di Cristo per una larga parte della pletora di congregazioni religiose legate alla devozione del Sacro Cuore.
Se proprio volete fare la prova, accostate al tema del regno/regnare il termine Sacro Cuore e il gioco è fatto. La ricaduta sociale che contrassegnò la stagione di questa devozione fu la conseguenza diretta del suo recupero dell’umanità di Cristo, anestetizzata dal rigore formale dell’impianto neoscolastico, e dello spessore affettivo di un’esperienza della rivelazione di Dio sentita come manifestazione esigente di agape.
Temi, questi, che vengono esplicitamente ripresi da Francesco: “Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio. Confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi ci impedisce di conservare il minimo dubbio circa l’amore senza limiti che nobilita ogni essere umano” (EG, 178).
Ecco che in un sola battuta troviamo riformulata la dottrina dell’unione ipostatica attraverso l’immaginario della devozione, dove non si pensa in astratto (natura) ma si vive concretamente (carne umana), da un lato; e rimessa in campo la nozione di sacrificio con tutta la portata espiatrice di questo gesto, dall’altro, non però per rimanere inviluppati nel suo carattere giuridico, ma per sentirla come un atto che dà certezza che l’amore di Dio è la ragione della dignità ultima di ogni essere umano.
Quella devozione coltivò con tutte le sue forze proprio ciò che oggi Francesco desidera riaffermare con la sua passione spregiudicata per l’umano, ossia la “certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto” da Dio (EG, 6).
A questo punto, qualche sospetto che dietro il tema della giustizia sociale in Francesco ci stia un inusuale recupero della devozione al Sacro Cuore può farsi legittimamente spazio. Nell’esortazione esso viene visto come l’espressione di un “dinamismo di uscita” (EG, 20) che spinge la Chiesa a non stare tranquilla, in una attesa passiva, ma a muoversi con decisione verso le esteriorità del mondo.
A cavallo tra il XIX e il XX secolo lo slogan di un’“uscita dalle sagrestie”, per andare verso le masse operaie che si stavano rapidamente decristianizzando, caratterizzò i tratti principali della presa in carico della questione sociale da parte di uno dei rappresentanti emblematici del cattolicesimo francese che si nutriva alle fonti di questa devozione, Léon Dehon: “La comunità evangelizzatrice (…) assume la vita umana toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo” (EG, 24).
Troviamo qui un altro aspetto centrale che l’immagine del Sacro Cuore aveva cercato di promuovere nel cattolicesimo di allora: quello di una condivisione di vita col Cristo sofferente per i peccati dell’umanità. Su questo aspetto Francesco lavora di cesello, lasciandosi a sua volta lavorare dalla condizione di popolo vissuta sulla sua pelle in Argentina e in America Latina.
Perché è sempre nel solco della devozione al Sacro Cuore che egli propone la sua comprensione teologica dei poveri; che “hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente (…) La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa” (EG, 198).
È proprio questa specifica sensibilità devozionale che spinge, quindi, Francesco a considerare i poveri non solo come una categoria teologica, ma come un vero e proprio locum theologicum nel quale la fede attinge il suo sapere su Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Altro che pauperismo o sprovvedutezza, questa è roba per menti fini e sensibili allo Spirito; impegno al pensiero e all’immaginazione di cui, oggi come oggi, solo il cristianesimo sembra essere ancora capace.
C’è lavoro per tutti nel campo che questo papa va dissodando. E lo fa proprio riconfigurando una devozione che oramai sembrava essere tenuta in vita solo artificialmente.
In fin dei conti, oggi come allora, la devozione al Sacro Cuore, nell’uso intelligente che ne fa Bergoglio, funziona esattamente allo stesso modo: come soglia di un confronto critico durissimo con lo spirito del tempo che, erodendo i fondamentali dell’umana dignità di essere, tocca il nocciolo duro della fede cristiana e ne provoca la reazione appassionata.
Allora si trattava del secolarismo di cui si nutriva l’ideologia della costruzione degli stati nazionali europei, che cercava di togliere alla religione ogni rilievo di carattere pubblico, e del comunismo che drenava le masse popolari dall’alveo della Chiesa cattolica.
Oggi si tratta del neoliberalismo deregolato che abbandona il destino degli uomini all’insaziabile voracità della finanza disancorata dall’economia reale e all’ingiunzione categorica del mercato di un godimento illimitato.
Ma la devozione al Sacro Cuore sembra essere sempre lì, pronta a fiutare le derive del tempo e a fronteggiarle senza timore. Che la si possa rubricare come intransigentismo cattolico agli inizi del XX secolo e progressismo cattolico agli inizi del XXI, dice che forse non abbiamo compreso bene come essa funzioni – un po’ come sta succedendo del papa che oggi l’ha rimessa in circolo sulla soglia tra Chiesa e mondo contemporaneo.