Una Chiesa degli arabi

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Verso la fine del documento approvato dai padri sinodali (qui), lì dove si parla dell’esercizio del ministero petrino, si trova un’indicazione tanto importante quanto di rilievo per l’attualità e il futuro di tutto il Mediterraneo.

Ribadito che la sua essenza sta nel garantire l’unità nelle diversità, si afferma che «il Vescovo di Roma assicura la salvaguardia dell’identità delle Chiese Orientali Cattoliche, nel rispetto delle loro secolari tradizioni teologiche, canoniche, liturgiche, spirituali e pastorali. Per incrementare tali relazioni, l’Assemblea sinodale propone di istituire un Consiglio dei Patriarchi, Arcivescovi Maggiori e Metropoliti delle Chiese Orientali Cattoliche presieduto dal Papa, che sia espressione di sinodalità e strumento per promuovere la comunione e la condivisione del patrimonio liturgico, teologico, canonico e spirituale».

Questa indicazione è preziosa ma andrebbe attualizzata, cioè riferita a un contesto oggi autenticamente drammatico. Presentando il volume La Chiesa degli arabi del teologo Jean Corbon, scomparso nel 2001, tutti i siti on line ci introducono così alla sua intuizione sempre più urgente, quasi una priorità: «Ci sono arabi cristiani: molti occidentali ancora non lo sanno. Poco conosciuta, annegata nel plurale indistinto delle Chiese d’Oriente, la “Chiesa degli arabi” ha un destino molto singolare: comunità locali dislocate, radicate ma emarginate, oggi minacciate, ingessate nella cultura araba e da sempre prive di qualsiasi influenza politica. In un nuovo mondo arabo, soggetto a tensioni e violenze di ogni genere, in un momento in cui l’incontro tra Oriente e Occidente è segnato da nuove forme di incomprensione o di scontro tra islam e cristianesimo, quale sarà il suo futuro?».

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Parlando anni fa della Chiesa degli arabi teorizzata da Corbon già nel 1977, l’allora patriarca melchita Gregorio III affermò: «L’espressione “Chiesa” degli arabi sta a significare che la Chiesa di Gesù, che ha vissuto e vive nel mondo arabo, è in profonda relazione con il mondo arabo, con i suoi dolori e le sue speranze, le sue gioie e le sue sofferenze, le sue difficoltà e le sue crisi. Questa è la Chiesa dell’Emmanuele, una Chiesa con e una Chiesa per, con la società araba e nella società araba. Senza dimenticare le sue radici arabe e la sua arabicità attraverso la storia e la geografia, ciò che è più importante non è l’espressione dell’arabicità della Chiesa, ma la missione che essa ha nella società araba.

E la realtà è che questa società araba in cui vive la Chiesa araba, piantata in terra araba e seminata nelle profondità della sua storia e della sua geografia, la realtà è che questa società araba è a maggioranza musulmana. All’interno di questa società, i cristiani sono 15 milioni su un totale di circa 260. Ecco perché la Chiesa degli arabi è la Chiesa della società araba, la Chiesa del mondo arabo, così come è anche la Chiesa dell’islam, la Chiesa della società musulmana. Una Chiesa che vive in questo mondo arabo e musulmano, che interagisce con esso, che soffre e gode con esso, che costruisce e spera, che crede e ama. Questa Chiesa è veramente la Chiesa dell’Emmanuele, la Chiesa con e la Chiesa per».

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Che le cose stiano così, proprio come indicato da padre Jean Corbon, lo ha confermato papa Giovanni Paolo II nella sua esortazione apostolica dopo il sinodo sul Libano del 1995, dove scrisse: «Vorrei insistere sulla necessità per i cristiani del Libano di mantenere e di rinsaldare i loro legami di solidarietà con il mondo arabo. Li invito a considerare il loro inserimento nella cultura araba, alla quale tanto hanno contribuito, come un’opportunità privilegiata per condurre, in armonia con gli altri cristiani dei Paese arabi, un dialogo autentico e profondo con i credenti dell’islam».

Non ha più alcun senso riferirsi a illusioni ormai prive di riscontro nella realtà: i cristiani del Medio Oriente sono arabi, ne vivono i drammi, hanno ormai un rapporto profondo con i musulmani dei Paesi arabi – impossibile negare nel 2024 che ne condividano carne e sangue, etnia, nazionalità, cultura, civiltà e costumi. Una Chiesa che ha vissuto fianco a fianco con l’islam ogni giorno per 1400 anni non può pensare di non esserne stata influenzata e di non aver influenzato i suoi vicini. L’islam infatti è presente in tutte quelle società, famiglie, negli interessi, negli studi. E oggi nella stessa tragedia dei loro comuni Paesi in macerie.

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Per coadiuvare gli arabi cristiani nella ricostruzione di un loro ruolo sociale, culturale, come è stato nel loro glorioso Ottocento, coadiuvarli nella elaborazione della consapevolezza che la prima necessità è edificare la Chiesa degli arabi e dell’islam è riconoscere che soffrono, patiscono, partecipano insieme agli altri, non in una astorica via diversa.

Tutte le Chiesa, cattoliche e ortodosse, dell’oriente arabo dovrebbero essere in questa e di questa Chiesa degli arabi, aiutandoci a superare retaggi vecchi di secoli e che resistono solo in nome di presunti scontri di civiltà.

Non credo che serva un Patriarca della Chiesa degli arabi, questo sarebbe fuorviante; ma riconoscere l’esistenza di un soggetto plurale, che rappresenta questi arabi di fede cristiana. Immaginiamo il Libano di oggi: cosa li differenzierà nella realtà che vivono?

Le bombe sono forse diverse per i maroniti e i melchiti, o altri? Se davvero la realtà è superiore all’idea, proclamare che esistono arabi cristiani pronti a dialogare con la Chiesa d’Occidente, più filosofica, più dogmatica, ma che avverte il bisogno anche di tornare al suo Oriente, li aiuterebbe a riconoscersi nella loro storia, da protagonisti delle scelte d’oggi e quindi del comune futuro. Ma è soprattutto la fine di un senso di solitudine che darebbe a questi gruppi, a queste isolate comunità di cristiani la possibilità di tornare protagonisti con i loro fratelli arabi musulmani della difesa del loro presente e della comune progettazione e scelta del loro futuro.

La raccomandazione dei padri sinodali è importantissima e richiede alla Chiesa d’Occidente, e alle numerose Chiese d’Oriente, di vedere che non possono correre il rischio di divenire Chiese etniche, ma di doversi fare carico di un rapporto unitario con il loro territorio, arabo.

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