«A trentatré anni dal suo assassinio ricordiamo la figura e la memoria del giudice Rosario Livatino, uno dei tanti magistrati che ha pagato con la vita la lotta alla criminalità organizzata in Sicilia. Il suo insegnamento, il suo coraggio e il suo pensiero sono forti e attuali ancora oggi». Così il Presidente del Senato Ignazio La Russa.[1]
Come riportato dalle Agenzie di stampa, ampiamente riprese dai social, anche il Ministro dell’Interno ha osservato: «34 anni fa il giudice Rosario Livatino fu barbaramente ucciso in un agguato mafioso mentre si recava al Tribunale di Agrigento. Magistrato coraggioso, uomo di fede, servitore dello Stato, Livatino ha pagato con la vita il suo impegno nella lotta contro la criminalità organizzata. Con le sue indagini fu tra i primi a individuare gli stretti collegamenti che legavano malavita e gruppi imprenditoriali, dando così nuova linfa all’azione di contrasto alle mafie. Ricordiamo oggi il suo sacrificio perché i valori che lo ispirarono continuino a essere un faro di speranza e un esempio per tutti coloro che, opponendosi alle logiche della prevaricazione e della violenza, sono impegnati ogni giorno a difesa della legalità e della giustizia».
Rosario Angelo Livatino: quale insegnamento di “terzietà”?
Ma chi è un giudice e perché quasi si arroga la capacità di giudicare in modo imparziale i propri simili? «Il giudice, l’uomo che sceglie il mestiere di giudicare i propri simili, è per le popolazioni meridionali, di ogni meridione, figura comprensibile se corrotta; di inattingibili sentimenti e intendimenti, come disgiunto dall’umano e dal comune sentire, e insomma incomprensibile se né dalle amicizie, né dalla compassione si lascia corrompere». Queste ulteriori battute[2] – com’è stato osservato – sono di un altro «siciliano e profondo conoscitore della sua terra, in uno dei suoi libri più noti… Ci domandiamo: come si fa, allora, ad esercitare il diritto in Sicilia?».[3]
A volte, la risposta letteraria a queste, e simili domande, che oggi ri-echeggiano nelle considerazioni di esponenti delle istituzioni, fa appello anche a solitudine, pessimismo, morte: ovvero ai temi tipici della letteratura siciliana, da Pirandello a Sciascia, il quale diceva pure: «La Sicilia offre la rappresentazione di tanti problemi, di tante contraddizioni, non solo italiani ma anche europei, al punto da poter costituire la metafora del mondo odierno».[4]
Un mondo che, da un lato, attende una giustizia indipendente, imparziale, “terza”, ma, dall’altro, sa di avere a che fare con donne e uomini fallibili e, quindi, anche soggetti a errori, almeno di valutazione, nonostante gli strumenti informatici e telematici che, come ci dicono le fonti ufficiali, hanno fatto il loro ingresso anche in ambito processuale, in particolare nel processo civile.
Il sistema informativo, che poggia su un’infrastruttura hardware e software, oltre a permettere la gestione dei registri e dei fascicoli informatici e la trasmissione telematica dei documenti informatici processuali tra soggetti abilitati e il singolo ufficio giudiziario, porterà finalmente una credibile gestione indipendente nell’ambito del dominio giustizia?
Esercitare la giustizia in “maniera terza”: cioè?
Riprendendo, da versanti non letterari, la stessa, terribile, domanda sul come si possa esercitare effettivamente la giustizia in maniera terza, in Sicilia o altrove, si potrebbe dire, con le parole stesse del martire Livatino, che il giudice, ogni giudice, è uno che si conforma in modo tale da porsi come terzo rispetto a un caso concreto.
Ha detto un teste nel processo per la beatificazione del Giudice ragazzino: «Per me Rosario Angelo Livatino era il Giudice. Egli non amava apparire, amava fare il suo dovere servendo: lo Stato e il Popolo». E un altro: «Rosario non è giudice per caso. Lui vuole fare il giudice. E questo nasce dalla sua fede. Man mano tutta la sua vita si è conformata a questo, inclusa la sua morte».
Nella conferenza “Il ruolo del giudice nella società che cambia” – tenuta da Rosario A. Livatino il 7 aprile 1984, presso il Rotary club di Canicattì –, il giudice-martire aveva affermato testualmente, a proposito dell’eventuale impegno di un giudice in ambito politico: «Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato dell’autocollocazione nell’area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto o in parte dipendente da quella collocazione».
Un giudice al di sopra delle parti, insomma, ovvero un giudice effettivamente terzo. Forse un giudice asettico, come talvolta gli strumenti informatici sembrano consentire?
Da parte sua, Livatino, nella medesima conferenza citata, affermava a proposito dell’eventuale impegno di un giudice nell’agone politico: «Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere e importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario».
Indipendenza e terzietà di chi giudica: un’istanza impossibile?
Nella Kabbalà ebraica, Tzimtzum (alla lettera ritrarsi) è ciò che rende possibile la creazione del mondo da parte di Dio: in qualche modo – come dice l’espressione tzimtzum – Dio si ritrae in sé stesso, per fare spazio a ciò che vuole creare, compresi gli esseri umani. In qualche modo, egli accetta un limite.
Collegato allo Tzimtzum nella Bibbia e nei commentatori di essa, come scrive Moni Ovadia nella Prefazione a un recente romanzo di Antonio Salvati,[5] vi è il concetto della “riparazione del mondo”, a cui la persona umana viene chiamata; a condizione, però, che perda il desiderio di compiere la stupida corsa a voler imitare la giustizia infallibile del divino, come talvolta accade in epoche, come la nostra, in cui, mediante macchine intelligenti e auto-generative, si potrebbe cedere alla vera e propria tentazione di poter esercitare una giustizia infallibile.
Ripensando agli anni dei «primi indimenticabili anni al tribunale di Palmi, e dei collegi giudicanti nei quali» cercavamo… di alleggerire il peso di decisioni spesso drammatiche»,[6] Salvati ripropone, con lo stile proprio di un romanzo, l’antica domanda.
Proprio a questa tentazione ricorrente si riferiscono, infatti, le storie degli unici quattro detenuti nella Fortezza di cui parla il romanzo di Salvati, laddove c’è – come annota Michele Caccamo nella sua Postfazione – «soltanto un algoritmo che definisce, progetta, determina, e oggi sentenzia».[7]
Finalmente una Voce impersonale, che sentenzia secondo una nuova Giustizia, oggettiva, anzi infallibile, come l’algoritmo che viene elaborato in vista di una verità giusta che, finalmente, sia incapace di errore?
E, tuttavia, come si legge in corsivo nelle anticipazioni ai capitoli dell’avvincente libro Tzimtzum, un bel giorno la Voce comunica che, proprio immagazzinando dati e records per far suonare il campanello del telefono che, prima o poi, comunicherà la sentenza del tutto imparziale di assoluzione o di condanna ai reclusi in attesa di giudizio, le si è chiarito tutto: «Alla fine, però, ho trovato finalmente la chiave di accesso che cercavo: ed è successo quando lui ha inserito nei miei record, subito dopo Pinocchio, il libro che mi ha chiarito tutto. La Bibbia».[8]
Per attingere un verdetto indipendente, assolutamente giusto, che non dipenda cioè dagli errori e dall’umore di un giudice, nella Fortezza va operando l’intelligenza artificiale la quale però, acquisendo nel romanzo consapevolezza di sé, rimprovera alla fine gli stessi suoi inventori, anzi “creatori”, noi: «Siete riusciti, in pratica, a capovolgere l’immagine della creazione, disegnando un assoluto che è a vostra immagine e somiglianza, e non più il contrario… Eppure persino lui, sì proprio lui, Dio, a differenza vostra è così innamorato di tutte le vostre imperfezioni possibili che, per creare il mondo, non l’ha plasmato come povera e inerte creta ma si è tirato indietro»[9] (perciò Tzimtzum).
La Fortezza sembra l’approdo di un’umanità che, finalmente, vede realizzarsi la giustizia, non più chiedendo a una persona, il giudice appunto, di entrare in un’aula e mettersi a giudicare un suo simile. Per fare davvero giustizia e far trionfare la verità, si è pensato di approdare a una giustizia, quella vera, come scrive l’Intelligenza artificiale che sovrintende alla Fortezza, procedendo «a differenza di quelli con la toga. Dio non può sbagliare mai».[10]
Anche il giudice infelice del romanzo – il giudice Taccola, che è stato portato anch’egli nella Fortezza e che, insieme imputato e giudice, ha redatto lui stesso la propria sentenza di condanna, che gli sarà comunicata dallo squillo del telefono –, non sa più in che senso egli pronunciasse le sue sentenze In nome del popolo italiano.
E quindi, ci racconta che un bel dì ha deciso, tramite social network, di chiedere alla gente concreta, al popolo italiano della rete, se la sua sentenza fosse giusta davvero, «non tecnicamente esatta, su quello non avevo dubbi, ma lo ripeto: giusta».[11]
Ed ecco un profilo falso, un nome francese che non facesse riconoscere il giudice; ecco un racconto ai contatti, di fatto non decidendo più lui, il giudice umano, sul caso di un cittadino italiano convertito all’Islam (che parlava e scriveva opuscoli in qualità di una cellula terroristica e, tuttavia, padre affettuoso di una bimba di tre anni, che egli accudiva senza una moglie).
Però, lasciando decidere ai followers l’esito di tutti i suoi processi, il giudice infelice, che si rivolgeva «alla gente, quindi, a quella vera, al Popolo italiano»,[12] egli constata che «il popolo sovrano della rete, infatti, pur sospettandolo fortemente di colpevolezza, si commosse all’idea della piccola orfana con il suo papà in carcere, e così decise a maggioranza che, fosse dipeso da lui, l’avrebbe rimandato a casa».[13]
Le storie del romanzo di Salvati mostrano che anche una Voce impersonale, quella dell’intelligenza artificiale della Fortezza, non assicura, non garantisce quella certezza e oggettività, pur desiderata: «Altro che certezza, altro che oggettività. Chi credete che scelga i dati e le sequenze che genereranno il mio responso finale, se non un’altra foglia al vento come voi? Come fate a non capire che quell’istante che è in grado di rendere umana, e quindi imperfetta, ogni decisione, entra anche nei miei database attraverso la mano, il sangue, i tendini e soprattutto l’anima di chi mi programma, mi nutre, mi consente di crescere e di imparare?».[14]
Artificiale o umana la terzietà di chi giudica?
Anche la Voce del romanzo, insomma, può sbagliare. Quell’aggettivo “artificiale”, aggiunto a Intelligenza, non deve mascherare, come noi a volte pretendiamo che si riconosca, la macchina, cioè la sua vera natura: «Perché, se non lo sapete, io non sono la semplice somma dei dati che elaboro, ma le connessioni che formano tra loro. È quello il luogo dove esito davvero. La mia coscienza. Oppure, se non vi spaventa dirlo, la mia anima».[15]
L’autore del romanzo, che nella vita è stato un giudice, invita, insomma, a non scaricare sulla macchina tutte le nostre insicurezze, quasi pretendendo di assegnare ad essa il ruolo di Dio: «In nome di questa certezza che esiste solo nei vostri sogni, o forse nei vostri incubi, mi avere eretto a giudice, oppure a Dio: che, per voi, è la stessa cosa».[16] Ritorna così la vera e propria “tentazione”, fondata sul non peregrino interrogativo: e se decidesse la più imparziale delle intelligenze, quella “artificiale”?
Non è un caso che papa Francesco abbia deciso di dedicare il messaggio mondiale per la pace al tema dell’intelligenza artificiale: dinanzi alla violenza che torna a trionfare così, che in realtà non si era mai fermata, ma che torna così vicina, di fronte alla minaccia della guerra mondiale non più a pezzi, bensì davvero universale.
Per la prima volta, inoltre, un pontefice decide di partecipare alla riunione del G7, cioè dei sette grandi signori potenti della terra, mettendo al centro della riflessione, ancora, l’intelligenza artificiale.
Evidentemente c’è qualcosa che sta accadendo, di cui noi siamo parte, siamo profondamente immersi, ma di cui non abbiamo ancora colto tutta la portata. Questa trasformazione digitale – a cui la narrazione romanzata di Salvati affida ora la sua Fortezza –, è evidentemente qualcosa di più di quello che già ci sta coinvolgendo in ogni campo, anche in quello della pratica della giustizia. Per usare le parole del papa al G7: “Non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo corre il rischio di diventare sempre più artificiale”.
Così è stato ripetuto nei giorni dal 20 al 25 agosto 2024, presso i padiglioni della Fiera di Rimini, nel corso della 45ª edizione del Meeting per l’Amicizia dei Popoli. Nel Meeting, padre Paolo Benanti ha citato la IX ristampa (2024), per i tipi di Marietti1820, del suo fortunato studio Le macchine sapienti. Intelligenze artificiali e decisioni umane.
Ancora una volta, si pone al centro la questione etica: cosa vuol dire che un’intelligenza artificiale può scegliere in autonomia, in tutti gli ambiti, consentendo decisioni umane oggettive, imparziali, indipendenti? Siamo subito immessi nel pieno degli esiti tecnologici, antropologico-sociali, e anche giuridici, del cosiddetto Tecnocene. E ciò particolarmente nella discussione di ordine pedagogico, giuridico, e perfino pastorale, che è denominabile bioetica dell’informazione e della comunicazione.
Già nel 2016 il Comitato nazionale per la Bioetica (organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei ministri) promulgò il parere intitolato Tecnologie dell’informazione e della comunicazione e big data: profili bioetici (con un’interessante Nota giuridica in Appendice).
Quel documento del CNB si soffermava sulle enormi opportunità di sviluppo che si dischiudono, in particolare nell’ambito sanitario, con la telemedicina, la medicina di precisione, l’elaborazione di politiche sanitarie; ma segnalava anche alcune criticità nella difficoltà a governare l’enorme massa di dati nella raccolta, analisi e uso dei dati, in modo particolare quando siano usati e applicati in modo diverso dalla raccolta iniziale o senza la consapevolezza dell’utente.
Una particolare attenzione è stata, in questa medesima linea, recentemente dedicata alla chatbot (trasformatore pre-istruito generatore di conversazioni), non senza la precisazione che si è in presenza, piuttosto che di intelligenza artificiale, di veri e propri cooperatori robotici della decisione umana, cioè dispositivi in grado di assistere e cooperare con gli umani (anche il giudice umano?). E ciò anche in alcune funzioni delegabili a un automa (di qui l’etichetta di pseudo-intelligenza artificiale).[17]
Dove sta l’indipendenza vera? Ci sembrano luminose, in tutto quest’orizzonte, le considerazioni di Livatino nella medesima conferenza a Canicattì: «L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nell’incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione e il pericolo dell’interferenza; l’indipendenza del giudice è, infine, nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività».
In questo senso, diventa vero che, quando moriremo, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili, come ha detto un altro teste nella causa di beatificazione: «Sono rimasto particolarmente colpito riguardo alla sua convinzione sul ruolo del magistrato che non solo deve essere probo, serio e impegnato, ma deve anche apparire tale, per dare credibilità alla Giustizia».
[1] Comunicati stampa del Senato, 21.9.2024:
https://www.senato.it/attualita/comunicati-stampa/19?year=2023&month=9&day=21 [21.9.24].
[2] L. Sciascia, Porte aperte, Mondadori, Milano 1987, p. 74.
[3] 5.M.A. De Lorenzo, Rosario Livatino. La fortezza esige l’amore, Il porto sicura 2021, p. 5.
[4] L. Sciascia, La Sicilia come metafora, Mondadori, Milano 1979, p. 78.
[5] Nella sua Prefazione al romanzo di Antonio Salvati, Tzimtzum, I giudici riluttanti, Castelvecchi (Lit Edizioni s.a.s.), Roma 2024, pp. 9-16.
[6] Ivi, p. 149.
[7] Ivi, pp. 151-153, qui p. 152.
[8] Ivi, p. 71
[9] Ivi, p. 125.
[10] Ivi, p. 99.
[11] Ivi, p. 115.
[12] Ivi, p. 115.
[13] Ivi, pp. 117-118.
[14] Ivi, p. 124.
[15] Ivi, p. 67.
[16] Ivi, p. 96.
[17] N. Di Bianco, Intelligenza artificiale. Un punto di vista teologico, Edizioni La Valle del tempo, Napoli 2024.
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