Una risposta alla domanda teologica “Che faremo in Cielo per sempre?” trova una prima risposta in uno dei tre verbi che formano l’epitaffio della tomba del beato Antonio Rosmini a Stresa: «Adorare, Tacere, Godere». Non è risposta completa, ma assai importante. Il cristianesimo ha le sue provocazioni più forti con il suo credo nella vita futura…
Il dialogo dentro la Famiglia trinitaria
Non sorprenda se si afferma che l’adorazione sia anzitutto una forma del dialogo di comunione che vige dentro la Comunità tripersonale di Dio. Ci dà spunto per dirlo, uno dei significati etimologici della stessa parola adorazione. “Adorare” (dal lat. ad + orare: parlare a…) significa anche rivolgere la parola e dunque esprime la volontà di dialogo. Da ciò che l’esperienza cristiana è in terra (è essenzialmente esperienza della Parola a tanti livelli) possiamo indurre che in Cielo non può essere il suo contrario: non c’è mutismo lassù, ma – lo si dirà subito – ci sono solo alti silenzi, che fondano il dialogo anziché impedirlo.
Il Cielo è infinito dialogo anzitutto perché dialogano le Tre divine persone, dentro il misterioso vortice di una sola Natura, vivendo la stessa comunione di Verità, di Amore e di Bellezza. Tale infinito dialogo fra il Padre (l’Amante) e il Figlio (l’Amato) nell’immensa comunione dello Spirito (l’Amore) non ci esclude:[1] in un qualche modo partecipiamo ad esso nel limite, ma anche nell’incomprensibile grazia di essere rispetto al Dio trinitario creature e figli; più arduo, però, è pensare e immaginare come esso possa avvenire.
La riverenza radicale dell’uomo a Dio
L’adorazione è l’inchino più profondo che l’uomo fa nella sua esistenza. Il senso della stessa parola ce lo ricorda (dal gr. proskynein – sebazesthai = inchinarsi, servire):[2] è chiaro anche che è un atto riservato e unico perché non è degno per l’uomo dedicarlo a un altro uomo, né alcuno lo può pretendere da alcuno. Adorazione è parola perfino pericolosa perché, se l’atto che indica fosse usato o preteso da un pari di dignità umana, sarebbe disastroso: nessuno, se non Dio, merita di essere adorato, perché con lui – a motivo della sua infinità amorosa – i significati estremi dell’adorazione si realizzano quietamente e con dolcezza, senza imbarazzo e violenza di sorta.
Cosa accadrebbe se gli atti indicati dei due verbi greci riportati (proskynein e sebazesthai), che significano “temere, rivolgersi con timore”, fossero pretesi da un uomo nei confronti di un altro uomo? Sarebbe la più grande arroganza possibile. Guai all’uomo che pretendesse per sé l’adorazione (cf. At 12,21-23), anche quando questa venisse offerta per errore in piena fede (cf. At 14,14)… E se quell’atto fosse liberamente dedicato da un uomo a un altro uomo? Sarebbe la debolezza più preoccupante, il servilismo più auto-lesionista immaginabile. Questo è un punto fermo del cristianesimo quale religione di adorazione:[3] solo Dio può e dev’essere «adorato» (Simbolo niceno-costantinopolitano) ricevendo un simile atto di omaggio (cf. Es 20,1-4). In concreto l’adorazione va dedicata alla Prima Persona come Creatore e Padre, alla Seconda Persona come Salvatore e Figlio, alla Terza Persona come Santificatore e Spirito.
Schiacciati dalla gloria di Dio?
Il vedere Dio faccia a faccia, il trovarsi a contemplare la sua infinita gloria, lo stupore ineffabile davanti alla sua bellezza, la gioia traboccante di fronte alla sua amabilità, l’intuizione della sua assoluta santità, la percezione dell’immisurabile differenza nei confronti della sua condizione creaturale, in Cielo dovrebbero portare il beato alla prostrazione più profonda, ma non più legata alla sua condizione di peccato (ormai superata e da Dio “dimenticata”) e neppure l’adorazione come atto di accettazione umile in occasione delle disgrazie, delle umiliazioni, dei fallimenti, delle sconfitte difficili da accettare, perché queste sono esperienze di un mondo ormai passato che non trova posto fra le “cose di lassù” e non riguarda più la condizione di chi è ormai felicemente dentro la spirale della gloria.
Adorazione filiale e gloriosa
La gloria di Dio, in Cielo, non schiaccia l’uomo. Già nell’esperienza di adorazione nella vita terrena egli esprime il senso creaturale, che fa percepire che tutto è dono, tutto è di Dio, tutto viene da lui ed è per la sua gloria. Nell’adorazione celestiale evoca immensamente di più l’evento glorioso della risurrezione. Anche lì l’immagine dello stare profondamente inchinati dice il farsi piccoli alla presenza dell’Altissimo e del Signore (cf. Fil 2,10), ma forse quello stato di adorazione, in un più intenso contesto di luce, può essere anche espresso – come in un ossimoro di immagini – anche dallo stare in piedi: come lo stare in piedi ricorda la risurrezione, la prostrazione a terra ha ancora un significato glorioso di vittoria: è infatti segno di adorazione di Colui che, risorto, è il vivente.
Il beato adorante è presente in Cielo come creatura e figlio avvolto ormai dalla gloria trinitaria e da quella gloria è penetrato, animato, elevato, rallegrato e riempito di gioia e letizia nella massima misura di cui egli è capace. Insomma, si potrebbe dire che lo stare in piedi è la postura che confessa la dignità e la libertà filiali donate al discepolo glorificato da Cristo risorto che, in Cielo, anzitutto lui vive il paradosso d’essere, a un tempo, «Agnello sgozzato e ritto in piedi» (cf. Ap 5,6).
L’adorazione, risposta filiale alla presenza gloriosa di Dio
Nel significato semplicemente etimologico dell’adorazione c’è anche quello del “cadere” davanti a qualche grande uomo per esprimere l’onore che si vuole o si pensa di dovergli rendere. In Cielo il beato è colpito, in tutta la sua identità, dalla trascendente e avvolgente gloria di Dio, dinanzi alla quale egli si pone in adorazione, ossia nell’estrema reazione orante possibile, esprimendo così la sua verità creaturale e filiale in forma gioiosamente ringraziante e laudativa. Nell’adorazione del Cielo si esprime in pienezza e nella perfetta trasparenza spirituale il rapporto con Dio, che – in modo incipiente e imperfetto perché condizionato dall’esperienza d’esilio e di peccato – è adombrato nell’idea di adorazione della prima Alleanza.[4]
Più ancora, della seconda Alleanza, nella quale l’adorazione è espressa con i termini di una marcata dimensione teologale,[5] della necessaria forma trinitaria[6] e della conseguente concentrazione cristologica,[7] con l’accentuazione dell’interiorità e dell’intimità spirituale,[8] con l’individuazione del contesto ecclesiale[9] e, in modo particolare, in quello eucaristico,[10] oltre che con il coinvolgimento bello e sorprendente del creato che diventa anch’esso un soggetto adorante.[11] L’adorazione, infine, è qualificazione centrale della liturgia del Cielo (cf. Ap 4,10; 5,14; 7,11) ed è modello dell’adorazione dei cristiani, i quali sono chiamati semplicemente «oranti» (Ap 11,1). L’adorazione è l’eterna attività dei beati nel Cielo trinitario.
Verso l’adorazione gloriosa del Cielo
L’adorazione perfetta è quella del Cielo, ma, già nel tempo e in terra, il cristiano ne fa doverosa e letificante esperienza, raggiungendo il vertice dell’esperienza religiosa e credente. «Nell’adorazione è realizzato in forma particolare l’aspetto “adorante”, insito in ogni rapporto religioso con Dio, cioè il riconoscimento dell’infinita differenza di Dio da ogni creatura, della sua santità e gloria infinita; esso può essere puramente interiore o esplicito e accompagnato da atti cultuali; si realizza però nella attualizzazione pratica della vita, al di là di una simile distinzione».[12]
a) L’adorazione eucaristica, profezia dell’adorazione celeste. L’adorazione eucaristica, che si diparte dalla celebrazione eucaristica e di cui non può essere la sostituzione, vuole porsi come un segno, una motivazione e un nutrimento di quell’adorazione-comunione che s’esprime nell’adesione alla parola di Dio, nell’accoglienza del prossimo, nella capacità di partecipazione dentro la chiesa. L’assimilazione di una spiritualità adorante è la forma più elevata della vita cristiana. Essa si nutre e s’esprime nel costante dialogo orante con Dio e, in modo speciale, nella partecipazione alla celebrazione frequente e completa della liturgia eucaristica.[13] I discepoli di Gesù, avendo per fine ultimo di adorare il Dio trinitario per l’intera eternità, devono pertanto fare dell’adorazione un punto fermo della loro esperienza credente vivendo costantemente nella presenza di Dio e consacrando «in quanto adoratori dovunque santamente operanti, a Dio il mondo stesso».[14]
b) Adorando ci si scopre orientati verso il Cielo. L’Alto e l’Oltre spesso indicano Dio stesso che sovrasta infinitamente tutti in tutto (in santità, bellezza, sapienza, forza, vita…): l’assidua e orante meditazione su questo allena a convergere verso un punto al di là di noi, al di sopra delle nostre faccende di vita; in tal modo s’allenta la tensione che nasce dal nostro confronto orizzontale (del volto a volto, del petto a petto, dell’incontro frontale) fra di noi. Come pure, con l’esperienza dell’adorazione, s’intenerisce la durezza dovuta al camminare in molti sulle strade strette di questo mondo e si supera la miopia dovuta al mirare agli orizzonti troppo corti delle nostre imprese umane. L’adorazione aspetta d’essere inserita come un punto fermo della vita cristiana e come anima della pastorale, della missione e di tutti i cammini sinodali L’esperienza adoratrice apre già alla contemplazione del Cielo e nutre il desiderio di raggiungerlo per incontrare Cristo, la ragione dell’esistenza umana, luce della vita e del mondo.
c) Adorando si sviluppa il senso creaturale e filiale. Il cristiano d’oggi è anch’egli tentato di scivolare nella Babele delle attività febbrili, nel vortice di imprese, nelle quali sempre di più il gigantismo dei progetti, il mito del grande numero e delle grandi quantità, convincendosi spesso che queste consuetudini o usanze o condotte di vita spersonalizzanti meritino addirittura di diventare leggi comportamentali con la pretesa che non dovrebbero essere neppure dubitate o poste in discussione… L’adorazione, chiedendo di spezzare la propria figura in due (questo anche indica il simbolo dell’inginocchiarsi), chiama l’uomo d’oggi a ritrovare le sobrie misure in tutte l’esperienza di vita e chiama soprattutto l’uomo cristiano a riacquistare l’identità creaturale e il senso filiale, per poter riaffermare l’assoluta grandezza e signoria che spettano solo a Dio.
Adorare ora e per l’eternità
La sequela di Cristo in questa vita sfocia nell’adorazione eterna di Dio. Ma, se i cristiani adoreranno per l’eternità, essi sono chiamati ad adorare anche nel tempo. L’adorazione celeste è l’esperienza ultima e definitiva che qualifica il rapporto del Dio trinitario con l’uomo: la sua futura esistenza in Cielo consisterà nell’essere adoratori immersi in un oceano di santità e di gloria. Questo impone che l’adorazione sia necessariamente la prospettiva immancabile anche della missione.
[1] Cf. S. Agostino, De Trinitate, 8, 10, 14.
[2] Questo estremo atto umano di ossequio porta il nome di Latria (dal lat. tardo latrīa; nel greco classico, λατρεία, latréia significa culto, ma indica anche la condizione di “servo” (Eschilo, Prometeo incatenato, 966). Il significato che più genericamente si affermò fu quello di “servizio”, poi usato specificamente per il servizio di Dio (cf. Platone, Apologia, 23 B).
[3] Etimologicamente non ci sono ragioni per non usare il termine in riferimento ad Angeli e Santi, ma nella letteratura cristiana antica si è chiarificato il suo riferimento di servizio di culto solo a Dio, come precisa, ad esempio, sant’Agostino: «Latria […] ea dicitur servitus quae pertinet ad colendum Deum [Viene detta latria quella servitù che ha a che fare con il culto a Dio]» (La Città di Dio, 10, 1). Per consolidata affermazione secolare nella religione cattolica il culto dell’adorazione si distingue dalla iperdulia, riservata alla Madre di Gesù e alla dulia, riservata ad Angeli e Santi).
[4] Cf. Gn 24,48; Gb 42,1-6; Sall 5,8; 95,1-6.
[5] Una delle affermazioni più autorevoli, al riguardo, è la risposta data da Gesù a Satana, durante una tentazione da questi provocata: «Adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo renderai culto» (Mt 4,10 par.).
[6] L’adorazione cristiana ha carattere trinitario. Una delle mediazioni di Cristo è portare i discepoli all’adorazione del Padre. Inoltre, Dio «che è Spirito», trasforma l’esperienza adorante e la porta alla sua perfezione: ormai «quelli che sono nati dallo Spirito» (Gv 3,8) possono adorare «in Spirito e verità» (4,24).
[7] Nel Nuovo Testamento la vera adorazione si riferisce in modo esplicito a Dio e al Kyrios Gesù, nella sua divinità e umanità: cf. Fil 2,6-11; Mt 28,9; Lc 24,52; Ap. 15,4; Mt 2,3; Gv 9,38.
[8] Questa forma di adorazione non ha più bisogno di Gerusalemme o del Garizim (cf. Gv 4,20-23) perché si compie nel misterioso Tempio del corpo di Cristo risorto (cf. Gv 2,19-22).
[9] San Paolo indica come luogo per eccellenza dell’adorazione la vera casa di Dio, che è il seno della comunità raccolta nel suo nome: «Dove sono due o tre radunati nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20).
[10] Luogo dell’adorazione di Cristo è anche la comunità che si raduna per celebrare il banchetto del Signore (cf. 1 Cor 10,14-22; 11,25-26).
[11] Per san Paolo (cf. Fil 2,9-11) e per l’Apocalisse (cf. 15,2-4) l’adorazione è tributata a Dio e a Cristo Signore da parte di tutto il creato.
[12] K. Rahner – H. Vorglimler, Dizionario di teologia, Herder-Morcelliana, Roma- Brescia 1968, p. 6.
[13] Cf. Concilio Ecum. Vat. II, Cost., Sacrosanctum Concilium, n. 48.
[14] Concilio Ecum. Vat. II, Cost dogm. Lumen gentium, n. 34.