Francesco dopo Francesco: Pietro

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albino1

Insieme ai nostri lettori e lettrici, ci siamo confrontati per due giorni nella comunità dehoniana di Albino su quale sia l’anima e il cuore del pontificato di Francesco (cf. SettimanaNews, qui). Per ampliare e approfondire il dialogo condiviso pubblichiamo i testi degli interventi tenuti nel corso della due giorni – iniziando con la meditazione introduttiva di suor Elsa Antoniazzi.

La confessione di Pietro e il pontificato di Francesco

Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,27-34).

Evidentemente il titolo del nostro incontro suscita timori: se è il pontificato che è destinato a fare un esercizio ermeneutico della Parola, possiamo, porre la domanda, imparata dal Cardinal Martini: a quale pagina possiamo paragonare questo evento/ questa situazione?  Ci tento, consapevole della parzialità che non è la confessione di un limite ma è la consapevolezza che solo l’inizio di un esercizio comune della lettura della Parola.

Dopo di me inizieranno riflessioni e non tutte svolte da persone che si riconoscono nella comunità, ma sappiamo che solo nell’ascolto di tutti, come un po’ fa qui Gesù, il pensiero di ciascuno avrà quello spessore necessario per edificare un tempio di pietre vive. Avviamo la lettura del testo noto veramente ai più e abbastanza pregiudicato dalla storia dell’interpretazione, così dovremo fare uno sforzo di sospensione del giudizio, detta filosoficamente, o più prosaicamente dovremo non farci invadere la mente e il cuore dall’immaginetta cattolica.

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Gesù è per strada tra i villaggi vicini a Cesarea di Filippo, periferia dei villaggi rispetto alla città, in zona abitata per lo più dalle genti perciò periferia della zona rispetto al centro che è Gerusalemme verso cui lui e discepoli con lui si stanno dirigendo. O sarebbe meglio dire verso dove Gesù si sta dirigendo portando con sé i discepoli.

E ci fa effetto scoprire che l’inizio dell’annuncio della sua passione non avvenga in casa, per il piccolo gruppo dei suoi, ma in strada dove Gesù si rivolgerà alternativamente ai suoi e alla folla. Quasi come se la situazione concreta lo avesse sollecitato ad affrontare una questione che lo preoccupa: lo hanno riconosciuto tutti come persona che parla e opera con autorità, in positivo o in negativo, ma il suo popolo e i suoi sembrano lontani dall’aver colto lo specifico.

È in strada e per ora il gruppo è con il maestro; potremmo anche pensare che la formazione veda comunque Gesù alla testa e gli altri che lo seguono, così come capita, a seconda del passo di ciascuno. Ma questo andar dietro man mano prenderà forza: l’andare dietro a lui da parte di Pietro sarà segno di un passaggio decisivo, poi sarà un richiamo a andare dietro a lui, fino a diventare vera e propria sequela.

La strada fa parte dell’annuncio, l’annuncio fa muovere Gesù verso Gerusalemme e i suoi, dietro a lui. Nel frattempo l’interrogare che rasenta la chiacchera in cui riportare ciò che tutti insieme avevano già ascoltato dagli “uomini”:

Il re Erode sentì parlare di Gesù, perché il suo nome era diventato famoso. Si diceva: «Giovanni il Battista è risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi». Altri invece dicevano: «È Elia». Altri ancora dicevano: «È un profeta, come uno dei profeti». Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto!» (Mc 6-14-16).

E qui l’evangelista ne fa un riassunto. Chi ha incontrato Gesù è stato richiamato a una novità di cammino, come il Battista proponeva a partire proprio dal Battesimo e con Elia è rimandato all’attesa del giorno definitivo, della venuta del regno, per dirla con linguaggio evangelico. Come leggiamo dunque nei versetti precedenti a 8,27 Gesù è collocato in un solco di uomini di Dio, ma ancora frainteso.

E poi, fermandosi – verrebbe da pensare – chiede ma voi chi dite che io sia? La domanda è destinata alla comunità dei discepoli perché la comunità colga che con Gesù è accaduto il kairos, il tempo in cui poter dire il «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,14). E per questo è necessario trovare parole che dicano Gesù. Esse non sono per forza parole nuove, ma devono essere parole che sappiano caratterizzare il tempo Gesù e il tempo che ha inaugurato.

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Pietro rispose tu sei il Cristo, e la determinazione posta dall’articolo crea uno stacco con la serie di unti. La risposta è precisa e sembra aver pienamente compreso il kairos annunciato precedentemente da Gesù, è una risposta unanime, visto che uno parla per tutti.

E qui deve un poco scattare la nostra sospensione perché l’immaginario cattolico fa di Pietro il capo. E pure le immagini fanno questo. Un’opera di Vincenzo di Biaggio Catena ora al Prado ha però attirato la mia attenzione.

Pietro e donne grande

Pietro sostenuto dalle tre virtù teologali. Senza fare del pittore rinascimentale un femminista non riesco a non pensare che essa ci aiuta a ricordare che tra quei discepoli c’erano donne. Per esempio quelle donne di cui lo stesso Marco dice che hanno seguito Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, nei giorni della Pasqua e che contrariamente agli uomini stettero a guardare e andarono al mattino presto.

Così oggi ci affidiamo a questa immagine per ricordarci che Pietro parla per la comunità, è nella comunità e le donne ci sono nella comunità. Alla comunità che legge l’evangelo di Marco, dunque, il nostro autore suggerisce la le parole per la confessione della fede.

In che consiste? Per Pietro è il rimando alla messianicità davidica, che negli scritti di Enoch ha ormai i connotati escatologici. Il discepolo dichiara la santità, la gloria di Dio nel Cristo; sì, ma – come poi si esplicita – il difficile di questa confessione, una volta guadagnata la rottura rispetto alla serie dei profeti, è riconoscere che quell’uomo autorevole in parole e opere, ma pure segnato dalla tristezza di chi non è riconosciuto, è l’unto.

La grandezza del Cristo di Dio come dice Giovanni, o come esplicita Matteo del Cristo Figlio del Dio vivente, convive con la piccolezza dell’umano, è solo uno, con la debolezza del rifiuto e anche della fatica davanti a esso.

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E prima di correre verso la scena pasquale, questo mistero rimanda al dono dell’incarnazione, unica condizione possibile per la celebrazione della Pasqua del Signore.

Marco non sosta esplicitamente sulla nascita. I primi gesti dopo il battesimo e il deserto, quasi prolegomeni, sono la chiamata dei discepoli. Una chiamata di persone che non sono religiose per eccellenza e che sono in Galilea, città delle genti. La chiamata per tutti, in senso assoluto, la indicherà Paolo e Pietro riconoscerà il sigillo di Dio con la visione che lo porterà dal centurione di Cafarnao.

Ecco il grande tema cui affidarsi per rispettare il tema della fede dei primi. Kierkegaard ci ricorda bene che se per loro era difficile riconoscerne la gloria, per noi è ben difficile poter pensare di sederci a tavola con Dio.

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Come tutto questo illumina l’esercizio del primato petrino, a dire la vita della Chiesa durante questo tempo di Francesco? Un poco improvvisamente la Chiesa ha scoperto la strada quale luogo dell’ascolto. Certo sono infinti gli uomini e le donne che hanno vissuto così e lo hanno anche testimoniato.

Ma ora Pietro parla per tutti e invita ad avviarsi per la strada, non solo come percorso da fare, ma soprattutto come realtà periferica rispetto ai sacri palazzi – la strada dove si vive, così come avviene in tante periferie delle nostre città. La strada, che occupa poco spazio e però chiede tempo, chiede movimento, processi.

Un papa e un papato che hanno ribadito l’ovvio dell’incarnazione, verrebbero da dire. Non è stato Francesco a scoprire che ogni essere umano brilla della luce di Dio, proprio perché Dio si è fatto carne. Ma lui ci invita a sintonizzare un’unica voce che non sa più separare l’amore per Dio e per i fratelli. E ama e ringrazia Dio perché ha donato a ciascuno fratelli e sorelle, ovunque. Le periferie, ogni periferia che è anche ogni lontananza sono quella strada in cui avviene la rivelazione, la testimonianza di Cristo, ovunque ci scaccino demoni o si speri di scacciarli.

Abbiamo nella memoria immagini assolutamente improbabili prima, i membri del movimento per la terra ospiti in Vaticano. La sapienza indigena e le richieste dei tanti indigeni del mondo hanno avuto voce nelle encicliche. E le vittime della guerra, riscattate dal loro essere danni collaterali, involontari o meno.

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Il silenzio imposto da Gesù spiazza sempre il lettore e la lettrice, benché se ne conosca il senso. Tuttavia questo spaesamento aiuta a ricordare il monito: l’entusiasmo non ci trascini in un annuncio non consapevole, dove cioè l’annuncio della notizia buona sembra non coinvolgere chi annuncia.

La comunità, e noi che leggiamo con essa, è chiamata a non chiudere il libro, perché c’è qualcosa da scoprire che ha a che fare con quel «e voi chi dite che io sia?».  Perché l’autore del vangelo non ha ancora fatto pronunciare ai suoi personaggi il termine Figlio di Dio, in modo credente e testimoniale. La vicenda di Gesù non è solo accadimento – interpella, come interpella la Scrittura che la veicola.

E comincia l’insegnamento sulla sofferenza, possibile al Figlio dell’uomo e vittima degli scribi e sommi sacerdoti. Per questi discorsi non c’è segreto né davanti ai discepoli né davanti al popolo. E Pietro (ma solo Pietro?) non capisce che cosa sarà la resurrezione, ma capisce che ci sarà sofferenza e ritiene che questa non sia compatibile con la figura del Cristo.

Che ne è dunque del riconoscimento dell’incarnazione? Paolo ci ricorda come Gesù non sia il primo a morire per gli amici, e Kierkegaard istituendo il confronto con Socrate ricorda come Gesù non sia neppure il primo a morire come innocente.

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Eppure è come se il riconoscimento dell’incarnazione fosse interrotto. Tutta l’umanità, ma solo se splendente e capace di attirare; non certo quella di un maledetto che pende dal legno.

Memore della scena, la comunità di lettori sa che il passaggio è obbligato. Dalla storia che non accoglie volentieri chi denuncia che il re è nudo, chi mostra disuguaglianze di ogni genere: ma Dio ci dona questa strana ricetta di salvezza – morire per dar frutto, amare Gesù, seguirlo e perdere la propria vita per lui e per il Vangelo.

Sono i coraggiosi appelli alla pace che percorrono i sottili fili della diplomazia, talvolta senza grazia diplomatica, ma sempre con il cuore attento. Ebbene questi appelli e l’inerzia ecclesiale con cui sono ascoltati evidenziano che su questi temi non sempre il riconoscimento da parte di Pietro è condiviso.

Giovanni non riporta il detto su Satana, ma alla lavanda dei piedi ripropone una scena simile dove Gesù rimprovera a Pietro il fatto di non aver colto l’orizzonte in cui egli si muove:

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri» (Gv 13, 6-11).

Dal racconto sappiamo del tradimento di Giuda e di Pietro, ma i piedi Gesù li lava a tutti. Francesco non è da meno di Pietro, ma tutti sono chiamati a stare lì e ad accogliere il gesto del Signore. Non sta a nessuno riconoscere Satana, sta a tutti riconoscere la testimonianza del Signore.

Il severo rimprovero di Gesù ben spiega l’importanza della cosa: senza accogliere la vita donata non c’è spazio per il compimento della rivelazione dell’amore del Padre che Gesù testimonia.

Una naturale ritrosia rischia di diventare negazione di Dio, di collocarci tra i nemici di Dio, anzi quasi divenire il nemico. E questo papato ha fatto venir fuori nemici. Coloro per cui la fedeltà all’incarnazione di Francesco è semplicemente troppo: non in ogni situazione umana la misericordia di Dio può giungere senza limiti, la kenosis di Gesù non può essere ripresa alla lettera dalla Chiesa… e così via.

Un papato che ha fatto venir fuori nemici, che ha riconosciuto come la nostra attitudine naturale è destinata a opporsi allo sguardo infinito di Dio, ha rivelato che l’inziale domanda di Gesù è passo integrante della sequela. Pensare secondo Dio è il destino, la nostra predestinazione come suggerisce Paolo.

***

Eppure, come umanità vuole, non è tutto e bianco e nero. Dubbi instillati, critiche e manovre delegittimanti, ma anche percorsi interrotti. Riportare il rimprovero gesuano porta con sé il severo monito alla comunità, e rammenta l’impegno ad accettare l’incarnazione sino alle sue ultime conseguenze, perché il riconoscimento del Cristo possa essere testimonianza dell’amore del Padre.

E sappiamo che Marco è severo con i discepoli. Alla fine a riconoscerlo da vicino sarà un centurione, davanti alla morte.

E anche di fronte alla resurrezione l’evangelista sarà attento a non fare della chiusra del racconto un happy end. Ci consegna il silenzio di chi comprende che davvero è il kairos, che tutte le parole, le opere e la vita di Gesù stessa sono parola definitiva di Dio.

E aggiunge che quella paura che tanto stigmatizziamo nelle donne non deve accompagnarci. Piuttosto siano fede, carità e speranza ad accompagnarci; così che la Chiesa, speriamo nel tempo di Francesco e oltre, saprà con coraggio ascoltare, consolare e accompagnare le vittime di abuso, e denunciare, prevenire per arginare questa terribile piaga.

D’altra parte poi un giorno le donne parlarono: dopo aver seguito da lontano la morte, come Pietro, conobbero per prime la resurrezione, senza tradire. Speriamo che la Chiesa abbia il loro coraggio anche verso le donne stesse, comprendendo ciò che è già scritto:

Poiché voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è qui né Giudeo né Greco; non c’è né schiavo né libero; non c’è né maschio e femmina, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,27-28).

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8 Commenti

  1. Luigi 12 novembre 2024
  2. Una donna 6 novembre 2024
  3. luisa taruffi 5 novembre 2024
  4. luisa taruffi 5 novembre 2024
  5. Gian Piero 5 novembre 2024
    • Claudio 6 novembre 2024
    • Adelmo Li Cauzi 6 novembre 2024
  6. Francesco Pieri 4 novembre 2024

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