Le Chiese per l’Europa

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Norcia, 31 ottobre 2024.

Il legame tra cristianesimo ed Europa risale all’indietro nel tempo fino a prima che san Benedetto desse avvio al movimento monastico e a ciò che esso ha rappresentato per il nostro continente. La sua proclamazione come patrono d’Europa da parte di Paolo VI esprime adeguatamente la coscienza di quel legame, di cui Benedetto costituisce un simbolo oltre che un fautore decisivo.

Rispetto alla lunga storia, sessant’anni sono una durata esigua, espressiva piuttosto del bisogno che noi oggi abbiamo di ricordare, di richiamare e ravvivare quella coscienza. Come spesso accade, fino a che qualcosa è pacificamente condiviso, non c’è bisogno di parlarne più di tanto; è quando se ne sta perdendo l’evidenza che diventa necessario dirne apertamente.

Quando Paolo VI proclamava san Benedetto patrono d’Europa – erano gli anni Sessanta del secolo scorso – in realtà, almeno ai nostri occhi, il nostro mondo, per così dire, si teneva ancora insieme.

E, tuttavia, proprio quegli anni conoscevano, tra altro, un concilio come il Vaticano II con l’esigenza per la Chiesa, inimmaginabile fino a poco prima, di aprirsi e di dialogare con il mondo, e conoscevano quel fenomeno racchiuso in una cifra, il ’68, anno che, comunque lo si legga, ha visto esplodere un mutamento radicale nella società e nella cultura del nostro Occidente. C’erano già, insomma, i segnali di un profondo sovvertimento sociale e culturale del mondo come l’avevamo conosciuto.

Proprio quel legame, tra Cristo ed Europa, si poteva avvertire incrinato, anche se si continuava a pensare di essere al sicuro e che il problema fosse esterno, magari relegato in quella che allora era la “cortina di ferro”. Lentamente ci siamo resi conto che di un patrono avevamo e abbiamo bisogno, perché, se il legame era forte in particolare agli inizi di quella che sarà l’Unione Europea, si era poi sempre più allentato con lo scorrere del tempo.

La cultura occidentale è impregnata di cristianesimo

C’è un momento successivo pure da considerare. Quando maturò l’idea di elaborare una Costituzione per l’Unione Europea, negli anni ’90 del secolo scorso, il mancato inserimento della menzione in essa delle radici cristiane del continente e dell’Unione Europea fu preceduto e seguito da una scia di discussioni che non poterono impedire il rifiuto; ad esso, peraltro, si accompagnò il fallimento dello stesso tentativo dell’Unione di darsi una Costituzione per il rigetto opposto da Francia e Paesi Bassi con due referendum nazionali nel 2003 e nel 2005.

Di seguito, l’Unione Europea ripiegò su un Trattato che prende il nome da Lisbona, la città dove fu approvato nel 2007, per entrare poi in vigore nel 2009.

Quel rifiuto è stato soprattutto il segnale di una profonda trasformazione intervenuta, o almeno pienamente maturata, anche se radici e legami non si annullano con un tratto di penna o con la rinuncia a tracciarlo.

La riprova della persistenza di quelle radici e di quei legami sta proprio nel Trattato appena menzionato, il quale nomina alcuni principi e valori che sono propri della nostra tradizione culturale occidentale impregnata di cristianesimo, e cioè il pluralismo, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà, la non discriminazione e l’uguaglianza (come troviamo scritto all’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea).

Ma già il Preambolo dello stesso Trattato fa riferimento a «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto». La Carta dei diritti fondamentali dell’UE, a sua volta, parla della dignità umana, della libertà, della democrazia, dello stato di diritto, dei diritti umani.

Insomma, il legame è presente negli inizi, con le figure dei fondatori dell’Unione, e anche nei valori europei consegnati alle carte che ne statuiscono l’identità e il funzionamento.

A proposito di quei valori bisogna anche dire che è capitato soprattutto al cristianesimo di avere immesso nel corpo sociale e nella storia della cultura fermenti che provenivano dai suoi giacimenti religiosi ma che ormai si erano emancipati dalle loro origini, per vestire panni che appartenevano ad altra temperie spirituale, culturale ed etica.

Bisognerebbe avere sempre il cuore grande di chi si appaga di vedere circolare nello scambio sociale beni che derivano dalla propria riserva spirituale e culturale e di vederne così arricchiti anche altri. In questo senso, il primo sguardo della Chiesa nei confronti dell’Europa e dell’Unione Europea ha qualcosa di quello spirito benedettino che coltiva il bene integrale delle persone e delle comunità, vedendole crescere e trovando in questo il senso appagante della propria dedizione.

Avviene anche che, di quei principi e valori, le interpretazioni e l’utilizzazione si volgano spesso in direzioni e forme lontane dalla fede e dalla cultura cristiana in cui sono stati forgiati.

Prendiamo atto che il nuovo contesto è segnato da almeno due nuove caratteristiche decisive proprie del mondo in cui viviamo, ovvero la secolarizzazione e il pluralismo culturale, etico e religioso. In quelle caratteristiche si possono riconoscere aspetti positivi e perfino intrecci non di poco conto con la visione cristiana dell’uomo e della realtà. Convivere con tali aspetti positivi è una responsabilità, ma anche un bisogno e una necessità, una scelta già compiuta da parte delle Chiese cristiane e, per molti versi, sempre di nuovo da compiere.

Principi e valori di fronte a nuovi scenari

C’è un punto però su cui è bene soffermarsi. In questo nuovo scenario, fino a quando principi e valori conserveranno la loro feconda identità? Qual è il punto oltre il quale essi rischiano di diventare un’altra cosa, di mutare natura e di volgersi contro quel bene per cui erano stati pensati, creati, voluti?

Sarebbe da capire, infatti, in che modo un individuo inteso quasi sganciato da ogni riferimento interpersonale e sociale possa vedere salvaguardata la sua costitutiva dignità di persona; o come una libertà, riscoperta quale dimensione costitutiva di ogni persona e comunità umana, rischi di trasformarsi in potere di autodistruzione se intesa in termini assoluti, cioè sciolti da tutto, e incondizionati; o, infine, come un essere umano possa conservare la sua umanità quando respinga qualsiasi dipendenza (magari con la rimozione della stessa nascita) e pretenda di affermarsi senza riserve come origine, quasi una creazione, di un nuovo sé. Quando si verificasse qualcosa del genere sarebbe alle viste un nichilismo senza speranza.

La nostra Chiesa e le Chiese tutte vogliono guardare con simpatia e stima questo esperimento che è la contemporaneità dell’Europa e in particolare dell’Unione Europea. Non perché in essa tutto sia positivo e apprezzabile. Le preoccupazioni appena segnalate e le circostanze di questo tempo – in particolare economiche e belliche, per citare solo due ambiti cruciali dell’attualità – vanno in ben altra direzione.

Tuttavia, come Chiese sentiamo che questa Europa, e in particolare l’Unione Europea che di essa è l’espressione e la forza unificante (una creazione straordinaria del genio del continente, diventata una necessità per il futuro dei nostri Paesi), è anche frutto di ciò che esse sono state e sono diventate. Siamo parte di un unico destino storico.

Le Chiese non si sentono fuori dalla corrente della storia presente che tutto abbraccia e rimescola. Sanno però di portare dentro la storia, nonostante tutti gli errori e le fragilità, i segni e la forza di qualcosa di più grande di ogni sia pur buona realtà umana. Sentono la responsabilità di un messaggio e, di più, di una presenza che è sacramentale, segno vivo di un’efficace guida dall’alto, che non sono esse stesse a gestire e tanto meno a dominare, ma di cui sono strumento perché passi attraverso di esse e giunga benefica a tutti quelli che sono disponibili ad accoglierne il dono e la grazia.

Questo, le Chiese lo fanno in tanti modi. Attraverso tutti i modi esse compiono un servizio fondamentale, che è non solo quello di ricordare ma soprattutto di raccordare quei principi e valori, che gli europei hanno dichiarato di abbracciare, alle loro autentiche radici, sorgenti di vita, come lo sono in natura per ogni buona pianta che cresce, fiorisce e fruttifica.

Non si tratta di tutelare un marchio di proprietà, ma di garantire l’autenticità, per così dire, di un prodotto che non potrebbe essere in alcun modo buono senza la qualità da cui origina e che lo rende tale. Che è poi la qualità del genuinamente umano, quello che proviene dall’unico Creatore e Padre. Che vuole solo il bene dei suoi figli.

Nessuna volontà di appropriarsi né di detenere l’esclusiva di qualcosa e, tanto meno, di qualcuno, dunque, da parte della Chiesa; solo il desiderio che il bene permanga come tale in questa comunità umana che ci vede tutti partecipi di un benessere e di una cultura che, a volte, sembra non sappiamo più apprezzare.

La Chiese “sono per” l’Europa

In tanti modi, dunque, le Chiese “sono per” l’Europa. E il primo è senza dubbio quello incarnato nel vissuto di tanti uomini e donne che conducono la loro vita di lavoro, di famiglia, di società, animati e sostenuti da una fede semplice e sincera, celebrata nelle tante chiese, sia pure sempre meno frequentate, disseminate in questa Europa popolata di campanili.

Sono ancora tanti i credenti in Cristo che cercano di dare forma evangelica alla loro vita in quest’epoca così complessa e contraddittoria nella quale siamo stati chiamati ad accogliere il dono e il compito della vita. Accanto ad essi, ugualmente, tanti pastori coltivano la fede di tutti con la predicazione, i sacramenti, la vita di comunità in fraternità.

Accanto a tutto questo bisogna citare le numerose istituzioni che, in maniera formale o meno, alimentano la fede e la cultura cristiana. Penso, fra tutte, in modo particolare alle tante scuole e università che la creatività cristiana ha fondato e fatto vivere non solo nei secoli passati ma non meno oggi. E poi, ancora, le innumerevoli istituzioni benefiche e di carità, che continuano ad alleviare le condizioni di folle sterminate di diseredati.

Attraverso tutto ciò, ad essere alimentato è qualcosa che forse è ridotto a dimensioni residuali ma nondimeno costituisce ancora una risorsa vitale per la nostra Europa, e cioè l’ethos comune, senza il quale principi e valori, pur solennemente dichiarati, sono come appesi al nulla del desiderio soggettivo, dell’umore mutevole, al più del volontarismo separato da ogni forma condivisa di visione d’insieme.

Tutto questo nella consapevolezza che un nuovo ethos deve nascere dall’incontro tra culture ed esperienze religiose differenti. Ma ciò che conta è tenere insieme un plesso di valori condivisi con convinzione e motivazione, perché venga nutrito un senso di buona umanità per tutti. Come Chiese cristiane sentiamo la responsabilità di segnalare questa esigenza e di sostenerla con il dialogo e lo scambio che sono a fondamento di una comunità civile.

In ultimo, il livello istituzionale vede all’opera diverse istanze. Da anni è attiva un’intensa collaborazione con il CEC, il Consiglio Ecumenico delle Chiese, che raccoglie Chiese ortodosse e Chiese e denominazioni protestanti d’Europa.

Per noi cattolici, l’istanza istituzionale più autorevole che ha costantemente accompagnato il cammino europeo è senz’altro il magistero pontificio, che ha visto protagonisti tutti i papi che si sono succeduti sul soglio di Pietro.

Papa Francesco ha messo a tema la convivenza in Europa e nell’Unione Europea in alcuni fondamentali discorsi e in occasione di alcuni viaggi, come, per esempio, l’ultimo in Belgio e Lussemburgo.

Uno dei punti più insistiti del suo insegnamento è senz’altro quello racchiuso nel motto dell’Unione Europea, “unità nella diversità”, dal latino In varietate concordia. Per questo, mentre non esita a richiamare alle proprie responsabilità un’Unione spesso inadempiente o inadeguata a fronte del suo compito storico, non si stanca di invitare a salvaguardare le peculiarità e le ricchezze dei singoli Paesi, perché l’unità sia l’armonia dei molti e non l’appiattimento dell’uniformità.

La COMECE e l’Europa

Una parola ancora merita di essere detta a proposito della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea (COMECE) che, d’intesa con il rappresentante pontificio presso l’UE, svolge un dialogo con le istituzioni europee in forza di un preciso fondamento giuridico.

Nell’articolo 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, nella versione consolidata del 2016, si dice al primo comma che l’Unione «rispetta […] lo status di cui le Chiese […] godono negli Stati membri», e con esse, dice al terzo comma, «riconoscendone l’identità e il contributo specifico, […] mantiene un dialogo aperto, trasparente e regolare».

Queste disposizioni costituiscono il punto di riferimento e la base giuridica del rapporto tra Chiese e Unione Europea, oltre che naturalmente di quello con le altre confessioni cristiane e religioni.

Viene riconosciuta la figura istituzionale delle Chiese cristiane e delle religioni e considerato necessario intrattenere con esse un dialogo aperto, cioè senza rimozione di questioni e problemi; trasparente, istituzionalmente leale e finalizzato alla comprensione e alla collaborazione, e quindi pubblicamente riconoscibile; regolare, ovvero legato a un impegno costante di confronto e di condivisione delle rispettive posizioni e valutazioni via via emergenti circa i temi e le circostanze sempre nuove che il cammino dell’Unione incontra.

Da parte sua, il Preambolo dello Statuto della COMECE, approvato nel 2017, afferma che «i vescovi dei Paesi della Comunità Europea hanno costituito il 3 marzo 1980, con l’approvazione della Santa Sede, la Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE) per realizzare la collaborazione». Come dice l’articolo primo dello stesso Statuto: «La Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea (COMECE) riunisce i vescovi rappresentanti degli Episcopati degli Stati membri dell’Unione Europea al fine di perseguire, nello spirito della collegialità, una più stretta collaborazione fra detti Episcopati, in ordine alle questioni pastorali connesse con lo sviluppo delle competenze e delle attività dell’Unione».

E, ancora, il Preambolo specifica: «La COMECE accompagna il processo politico dell’Unione Europea nelle aree di interesse per gli Episcopati dell’Unione Europea; monitora le attività dell’Unione Europea e informa a riguardo gli Episcopati dell’Unione Europea; comunica alle istituzioni e autorità europee le opinioni e le visioni degli Episcopati dell’Unione Europea relativi all’integrazione europea».

Oltre alla COMECE, un altro organismo, di carattere continentale, è impegnato a seguire il cammino pastorale dei vari Paesi, attraverso la rappresentanza di tutti gli episcopati, e in specie dei loro presidenti, e cioè il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE).

Molteplici sono, infine, le organizzazioni e le aggregazioni ecclesiali che svolgono una funzione o hanno una rappresentanza in rapporto alle istituzioni dell’Unione Europea, per lo più collegate con la COMECE. Quest’ultima e la CCEE, a loro volta, mantengono un mutuo rapporto regolare di collaborazione.

Il quadro che emerge da questo excursus esprime la consapevolezza e l’impegno con cui le Chiese, a cominciare dalla cattolica, seguono il cammino dell’Unione Europea e del continente europeo nel suo insieme.

Si avverte che, in un tempo come l’attuale, segnato da stanchezza e scoraggiamento, la sfida più grande che la Chiesa dovrà affrontare è tenere alto lo spirito e viva l’attenzione per rispondere all’appello che giunge dal cuore di persone, di comunità, di popoli, nel quale il germe della tradizione cristiana conserva una traccia che ne custodisce l’intima identità.

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