Luca. Un commentario

di:

landi

Professore di Greco e di Esegesi neotestamentaria alla Pontificia Università Urbaniana, Antonio Landi offre ai lettori un poderoso commentario al terzo Vangelo, molto amato dai cristiani per la sua presentazione di Gesù misericordioso, il recupero di alcune belle parabole e per aver scritto un’opera in due volumi che abbraccia l’opera di Gesù durante il suo ministero e poi la sua continuazione come Risorto nell’azione evangelizzatrice della Chiesa da Gerusalemme a Roma, capitale dell’impero che arrivava ai confini della terra.

Stendiamo queste note seguendo da vicino il dettato di Landi nella sua introduzione generale (pp. 7-48). L’impiego della metodologia e della terminologia dell’analisi narrativa sarà senz’altro un ottimo guadagno per più di un lettore di queste note.

Autore implicito e lettore modello

Posteriore al Vangelo di Marco, non si è certi che Luca sia posteriore a Matteo o viceversa. La sua canonicità è stata riconosciuta nel IV sec. sulla base della paternità apostolica del testo, ritenuto fondato sulla testimonianza e sulla predicazione degli apostoli e/o dei loro più stretti collaboratori.

È un’opera ortodossa, in quanto è considerata conforme alla fede trasmessa dagli apostoli e custodita all’interno delle comunità. L’accoglienza nel canone è stata, infine, determinata dalla proclamazione del testo in occasione delle assemblee eucaristiche presso le Chiese cristiane (uso liturgico).

Ci sono testimonianze esterne al testo, attinte alle lettere paoline e agli scritti di epoca sub-apostolica e post-apostolica. Sono frammentarie e, in parte, contraddittorie e, per questo motivo, Landi ricerca il profilo narrativo dell’autore implicito, vale a dire l’immagine che l’evangelista offre di sé nell’opera sulla base delle scelte linguistiche e contenutistiche che egli compie nella stesura del racconto.

Il testo è indirizzato a un destinatario preciso (ancorché sconosciuto, Teofilo), ma l’opera lucana è rivolta a un uditorio più ampio. Può essere la comunità entro la quale l’autore risiede e/o appartiene, ma la ricerca attuale è interessata al lettore modello che non solo è presupposto dall’autore, ma è costruito da esso.

La composizione dell’opera lucana è stata ipotizzata come avvenuta ad Antiochia, o a Roma, o in Acaia o a Efeso. È però preferibile immaginare un’area geografica più ampia. È legittimo pensare a una pluralità, più o meno ampia, di Chiese fondate da Paolo o, comunque, legate alla sua predicazione.

L’originalità dell’impresa letteraria e teologica di Luca consiste nell’aver concepito un’opera in due tomi: il Vangelo e gli Atti degli Apostoli. Il primo narra ciò che Gesù iniziò a fare e a insegnare, il secondo, invece, descrive ciò che il Risorto continuò a realizzare attraverso i testimoni da lui prescelti, diffondendo il suo vangelo da Gerusalemme, simbolo del mondo giudaico, a Roma, che rappresenta il centro della cultura gentile alla quale i missionari si rivolgono sulla base del progetto di Dio che prevede l’evangelizzazione dei giudei e dei gentili per formare un unico popolo (cf. At 15,14).

Il Prologo Antimarcionita al Vangelo di Luca, del IV secolo, riporta la descrizione più estesa dell’autore del terzo Vangelo: è un medico originario di Antiochia di Siria, discepolo degli apostoli, e poi collaboratore di Paolo fino al suo martirio, servendo Dio in maniera irreprensibile. Non è stato sposato e non ha avuto figli.

Le differenti versioni del Prologo riportano informazioni diverse circa la data della morte: per alcuni è morto nel 74 in Bitinia; per altri nell’84 in Beozia.

La documentazione in nostro possesso non permette di ricostruire un profilo dell’autore in maniera univoca. La paternità lucana del terzo Vangelo comunque non è mai stata messa in discussione. Pare poco probabile che sia un giudeo o un gentile proselita. Ha poca conoscenza della geografia dei luoghi frequentati da Gesù, non conosce perfettamente la prassi del culto giudaico e mostra scarso interesse per i dettagli relativi alla Legge.

Dal testo evangelico si tenta di ricostruire il profilo dell’autore implicito.

La maggioranza degli studiosi tende a identificare Luca come un cristiano della seconda generazione di origine gentile, presumibilmente residente nei territori della Diaspora giudaica, che è approdato alla fede in Gesù Cristo dopo una prolungata frequentazione della sinagoga.

È nell’ambito sinagogale che ha maturato un’eccellente conoscenza delle Scritture d’Israele tradotte in lingua greca, i LXX, e ha appreso le tecniche dell’esegesi rabbinica. Dei LXX ha appreso i contenuti e lo stile. La sua tendenza a imitare lo stile solenne della Bibbia greca è molto chiara e rappresenta un fattore di continuità tra la storia biblica e la storia di Gesù, raccontata nel primo volume (Vangelo), e del movimento cristiano, descritta nel secondo tomo del suo dittico (Atti degli Apostoli).

L’autore mostra una discreta formazione culturale giudaica e greco-ellenistica. Se si accetta il fatto che abbia utilizzato il testo marciano come testo-fonte per la stesura della sua narrazione, emerge il profilo di uno scrittore che dispone di un vocabolario più ampio e documentato rispetto a Marco. Preferisce disporre il racconto in forma sintattica, ponendo in debito risalto le proposizioni principali rispetto alle subordinate.

Tranne il Prologo, la sua prosa non può essere paragonata a quella di Tucidide, ma ha grande affinità con i LXX. Il mondo letterario di Luca si compone della Bibbia e della letteratura ellenistica di livello medio.

Narrazione, biografia e storiografia

Luca non afferma di scrivere un “Vangelo” (la sovrascritta è posteriore) ma una narrazione che si propone esporre in ordine sin dall’inizio tutti gli avvenimenti accaduti. Il termine diḗghesis non designa uno specifico genere letterario, poiché può riferirsi agli scritti storici, o ai miti o alle opere dei poeti. L’esposizione può avvenire anche in un contesto di un discorso giudiziario o nell’ambito medico. Sono però evidenti le analogie riscontrate con testi di indole storica.

Il narratore mostra la volontà di porre il suo scritto alla confluenza tra le storiografie biblico-giudaica e greco-ellenistica.

Ultimamente è cresciuto il consenso degli studiosi per la biografia antica: i Vangeli si ispirerebbero a racconti (bíoi) incentrati sulle parole e sulle gesta di un personaggio storico noto, di cui si tendeva a porre in risalto i vizi o le virtù con lo scopo di proporlo come modello di vita da imitare o da evitare.

Lo schema convenzionale adottato per descrivere la vita del protagonista prevedeva tre tappe: ghénos, cioè l’origine familiare (antenati e genitori), il contesto natìo (la nazione e la città) e informazioni legate alla sua nascita; la paidéia, invece, fa riferimento alla crescita e alla formazione (umana, culturale, spirituale) del protagonista, e all’acquisizione di abilità e specifiche competenze; infine, la praxis che concerne le parole che il soggetto pronuncia o le azioni che compie o subisce.

 Si nota come Luca si sforzi di ampliare sensibilmente il racconto di Marco, offrendo importanti informazioni sull’annuncio, sulla nascita e sulla formazione di Gesù (cc. 1–2) prima che egli dia inizio al suo ministero pubblico; con l’ausilio di altre fonti (Q [= dal tedesco Quelle, “fonte”] e materiale proprio), implementa le azioni e gli insegnamenti attribuiti a Gesù, e insiste sul percorso di riconoscimento che i discepoli (e il lettore) devono compiere perché possano comprendere la messianicità di Gesù, la sua regalità e la sua figliolanza divine.

L’ambizione di Luca, però, non è solo quella di scrivere una vita di Gesù; il primo tomo del suo dittico è incentrato su «tutto ciò che Gesù iniziò a fare e a insegnare fino al giorno in cui, dopo aver istruito i discepoli che aveva scelto per mezzo dello Spirito Santo, fu assunto» (At 1,1b-2).

Il fatto che Luca prosegua la narrazione anche dopo la risurrezione fa vedere che non si tratta di una pura biografia. I due tomi dell’opera luca vanno compresi come un’unità, sia sul piano letterario e teologico, sia su quello formale.

Per quanto il primo tomo presenti interessanti affinità con la biografia antica, secondo Landi è plausibile ritenere che Luca adotti il genere storiografico, uno dei generi più eclettici dell’antichità, come veicolo letterario appropriato per descrivere le origini e lo sviluppo della cristianità.

Nell’antichità la distinzione tra i generi letterari non era così netta come nella letteratura odierna. Numerose opere storiografiche mostrano molto interesse per la descrizione dei personaggi che svolgono un ruolo di primo piano nella storia raccontata. Si pensi alla figura di Mosè nel libro dell’Esodo.

Fonti

Se è vero che le prime testimonianze trasmesse su Gesù, in forma orale e scritta, hanno costituito l’originario patrimonio della tradizione a cui gli evangelisti, Luca compreso, hanno potuto attingere, è innegabile che i ricordi di Gesù permisero di realizzare racconti di carattere biografico, poiché era vivo il desiderio di comprendere la sua identità e la sua missione nel contesto del disegno storico-salvifico.

È quindi giusto sostenere che i vangeli, a differenza delle biografie popolari con le quali presentano delle analogie, possano essere ritenuti opere storiografiche. Difatti, «gli storiografi dell’epoca […] si proponevano di: ricercare le cause degli avvenimenti, con particolare riferimento alle cause della morte dei loro eroi; produrre testimoni in grado di confermare l’autenticità degli avvenimenti narrati, al fine di poter sceverare il vero dal falso; dare un senso al presente attraverso la comprensione del passato» (p. 15, cit. di J.N. Aletti).

Oltre alle dichiarazioni dei testimoni oculari, Luca ha attinto a fonti redatte in forma scritta. La teoria delle “due fonti” afferma che Luca si servì della fonte Q, condivisa con l’evangelista Matteo. Si tratta di un documento che gli ha permesso di arricchire il contenuto delle istruzioni date da Gesù. Si servì del Vangelo di Marco, o nella sua forma attuale o in una stesura precedente (Ur-Markus). Si servì certamente, inoltre, di un materiale tradizionale, in forma orale o scritta: è il cosiddetto Sondergut (tedesco: “bene particolare”); è materiale esclusivo nella disponibilità del narratore lucano.

Nelle pp. 16-21, Landi riassume i contributi offerti da ciascuna di queste fonti circa la presentazione della figura e dell’opera di Gesù.

La struttura cristologica del Vangelo di Luca

Nel suo commentario, Landi propone una struttura cristologica del Vangelo lucano. Esso si focalizza sulla figura di Gesù; rappresenta non solo il contenuto del racconto che Luca si appresta a esporre, ma anche le tappe della biografia di Gesù (nascita ed educazione, azioni, morte e risurrezione). Esse scandiscono le tre sequenze narrative maggiori della trama lucana, ciascuna delle quali presenta tre sottosequenze delimitate sulla base di criteri spazio-temporali, attoriali e tematici.

Proemio (1,1-4)

I. La nascita (ghénos) e la formazione (paidéia) del Messia (1,5–4,13)

A. Gli eventi che precedono la nascita di Giovanni e di Gesù (1,5-56)

B. La nascita, l’infanzia e la formazione di Giovanni e di Gesù (1,57–2,52)

C. La missione di Giovanni e la manifestazione di Gesù (3,1–4,13)

II. Le opere (práxeis) del Messia (4,14–21,38)

A. Le parole e le gesta del Messia in Galilea (4,14–9,50)

B. L’esodo/salita del Messia a Gerusalemme (9,51–19,27)

C. La manifestazione del Messia a Gerusalemme (19,28–21,38)

III. La passione, morte e risurrezione del messia (22,1– 4,53)

A. La Pasqua del Messia con i suoi discepoli (22,1-38)

B. L’interrogatorio, la condanna e la morte del Messia (22,39–23,56)

C. I racconti delle apparizioni pasquali (24,1-53)

Con uno stile elegante e ricercato e un lessico che presenta affinità con i trattati scientifici e storiografici del tempo nel proemio (1,1-4), Luca illustra al destinatario i criteri di ricerca, la prassi e la finalità della sua opera letteraria.

Nelle pp. 22-31 della sua Introduzione, Landi presenta in estrema sintesi il contenuto delle varie sequenze e sottosequenze, illustrando i temi teologici e cristologici presenti e motivando, a livello letterario, le delimitazioni delle pericopi da lui individuate.

Attingendo, come sempre, alla terminologia dell’analisi narrativa, Landi annota come il Vangelo si conclude con una sequenza finale (24,1-53) che presenta un intrigo di risoluzione (dalla morte alla risurrezione di Gesù) e di rivelazione (Gesù è il Risorto), e un’articolazione quadripartita: le donne al sepolcro e l’annuncio ai discepoli (24,1-12); il Risorto appare ai due discepoli in cammino verso Emmaus (24,13-35); l’apparizione del Risorto agli apostoli (24,36-49); l’ascensione di Gesù al cielo (24,50-53).

Appare evidente che, come in Marco e Matteo, anche nel Vangelo di Luca ci sia una sola salita di Gesù dalla Galilea a Gerusalemme, a diversità del Vangelo di Giovanni nel quale sono presenti tre celebrazioni della Pasqua da parte di Gesù a Gerusalemme.

A chi scrive, da dove, quando?

Il destinatario del terzo Vangelo è indicato in maniera esplicita: è l’eccellente Teofilo (1,3), a cui è dedicato anche il secondo tomo dell’opera lucana (At 1,1). Se si tratti di un personaggio reale o fittizio, è irrilevante al fine di stabilire se egli sia effettivamente l’unico a poter fruire dei due volumi realizzati da Luca, oppure sia il simbolo di una comunità ben più ampia per la quale è stata realizzata l’opera letteraria.

Landi offre la ricostruzione del profilo del lettore (implicito). Come sempre, egli impiega la terminologia dell’analisi narrativa.

La narrazione lucana, così come ogni testo letterario – afferma lo studioso – è da ritenersi un dispositivo narrativo pigro che si attiva solo grazie al senso che il destinatario è in grado d’introdurre.

Il lettore modello è l’unico in grado di «cooperare all’attualizzazione testuale come egli, l’autore, pensava, e di muoversi interpretativamente così come egli si è mosso generativamente […] Prevedere il proprio lettore Modello non significa solo “sperare” che esista, significa anche muovere il testo in modo da costruirlo» (p. 32, cit. di U. Eco). Di conseguenza – prosegue Landi – il lettore modello o implicito non è soltanto presupposto dal testo, ma altresì è costruito da esso.

Per R. Marguerat il letto implicito lucano è radicato nella storia; seguendo la trama del dittico lucano, che si snoda da Gerusalemme a Roma, passando dall’annuncio di Gesù in Galilea alla sua predicazione a Gerusalemme e fino alla testimonianza dei suoi apostoli e missionari che si spingono fino a Roma, il narratore lucano intende trasmettere ai suoi lettori la competenza di leggere teologicamente la storia. Secondo J.K. Brown, può essere definito come «qualcuno che prende parte al regno di Dio seguendo Gesù e rinunciando al suo status per abbracciare, invece, coloro che sono ai margini della società» (cit. a p. 32).

Il profilo del lettore modello/ideale che Luca prevede per la sua opera non può prescindere – secondo Landi – dalle indicazioni che emergono dal proemio: è un cristiano di terza generazione, già istruito circa i primi rudimenti della fede.

In tal senso, lo scritto lucano non è concepito con lo scopo di evangelizzare il suo uditorio, ma di consolidare la professione di fede che ha già fatto. Il lettore modello non è un neofita che sente parlare per la prima volta di Gesù, ma di un insider, un credente al quale il narratore offre alcune chiavi di lettura per rendere più robusta la sua adesione al vangelo.

L’uso delle Scritture di Israele sotto forma di citazione dirette o indirette, di allusioni e di echi consente – secondo lo studioso – di rileggere e di comprendere gli insegnamenti di Gesù nella prospettiva della continuità e del compimento sul piano storico-salvifico (cf. Il discorso nella sinagoga di Cafarnao, Lc 4,16-30).

Luca avverte il bisogno di rassicurare il suo lettore che l’ostilità patita dal Cristo era già prevista nelle Scritture. Il lettore lucano deve accettare che la sofferenza di Cristo rientra nel disegno divino e porta a compimento il progetto salvifico.

La cristologia determina la struttura del Vangelo lucano. La strategia narrativa di Luca è finalizzata anzitutto al riconoscimento dello statuto messianico, regale e divino del protagonista. La densità teologica dei primi due capitoli – Gesù presentato come Cristo Signore, il re della discendenza davidica destinato a regnare per sempre sulla casa di Israele; il figlio di Dio che nasce, per opera dello Spirito divino, nel grembo di una donna, Maria – è alla base della tensione narrativa che sorregge i capitoli successivi: la curiosità induce il lettore a proseguire la lettura del testo perché può rendersi conto non solo della solidità degli insegnamenti ricevuti (Lc 1,4), ma soprattutto verificare l’attendibilità storica e la coerenza degli eventi accaduti con le promesse fatte agli antichi padri e ora adempiute nella figura di Gesù.

L’intrigo lucano non è privo di suspense, che ribaltano le attese dei personaggi interni al racconto (intradiegetici) e provocano persino il lettore: basti pensare all’episodio della confessione di Pietro, che riconosce in Gesù il Cristo di Dio.

Sino a quel momento il lettore godeva di una posizione cognitiva privilegiata rispetto al gruppo dei discepoli: l’angelo apparso ai pastori aveva rivelato la nascita del Salvatore, il Cristo Signore. Tuttavia, l’imposizione del silenzio e, soprattutto, la prima predizione della passione-morte, determinano un effetto di spiazzamento anche nel lettore: Gesù non solo crea divisione all’interno del popolo di Israele tra chi lo accoglie e chi lo respinge, ma subirà la passione e la morte per disposizione divina.

Luca dissemina nel suo racconto indicazioni lessicali, semantiche, scritturistiche che permettono al lettore di giungere al riconoscimento di Gesù come il Cristo Signore, ma non lo esenta dalla fatica di comprendere e dall’imbarazzo che creano episodi in cui il protagonista è messo in discussione: si pensi al fariseo Simeone che lo ha invitato e dubita dello statuto profetico di Gesù in quanto si lascia toccare impunemente da una peccatrice. I capi del popolo e uno dei malfattori crocifisso con Gesù lo scherniscono perché il Cristo di Dio non è capace di salvare sé stesso.

La risurrezione del Cristo è l’evento che scioglie la tensione del racconto (c. 24): il Crocifisso è stato risuscitato da Dio, che ha ribaltato il verdetto di condanna nei suoi confronti.

Il lettore implicito/modello previsto dal narratore lucano può constatare che egli è veramente il Giusto innocente riconosciuto dal centurione romano (23,47); la sua risurrezione non solo adempie le predizioni relative all’esito della sua vita (9,22; 18,33), ma prelude al cammino testimoniale degli apostoli, su cui sarà incentrato il secondo tomo dell’opera lucana.

Da dove e quando?

Secondo Landi non è possibile definire i contorni dell’uditorio autoriale lucano; si può immaginare che la cristianità lucana sia composta da comunità collocate nei pressi della zona orientale del Mediterraneo, presumibilmente Antiochia, Acaia, o Efeso; tuttavia non può essere scartata Roma.

Attualmente, le ipotesi efesina e romana sono le più plausibili, Efeso rappresenta il climax di massima espansione raggiuto dalla missione paolina verso la zona orientale dell’impero.

A Efeso, il cammino della Parola è ostacolato dai rappresentanti della sinagoga ma deve misurarsi anche con il sincretismo magico-religioso rappresentato da esorcisti ambulanti di origine giudaica e dai figli del sacerdote Sceva (At 19,13-20). Qui si verifica anche la sommossa degli argentieri. Il legame tra i presbiteri efesini e Paolo è sigillato dalle commoventi parole di congedo che l’apostolo rivolge loro a Mileto, nel momento in cui li saluta prima di salpare per Gerusalemme (e arrivare a Roma in catene).

Roma, la capitale dell’impero, è in effetti il luogo dove termina la narrazione lucana, con l’arrivo di Paolo che, seppur in catene, annuncia il regno di Dio e le cose che riguardano Gesù con tutta franchezza e senza impedimento (cf. At 28,31). Il lettore ha la sensazione che la destinazione romana sia il traguardo finale di un itinerario iniziato nel tempio di Gerusalemme (Lc 1,5-22), la massima espressione del mondo giudaico, prima di giungere a Roma, il cuore della gentilità.

Il Vangelo di Luca ha vari riferimenti a simboli e valori caratteristici della culturale imperiale, come ad esempio i concetti di pace e di salvezza; la nascita di Gesù (Lc 2,1-12) e l’inizio della predicazione di Giovanni il Battista (Lc 3,1) sono posti in parallelo con l’esercizio del potere imperiale.

Si deve inoltre ricordare l’enfasi sul triplice riconoscimento dell’innocenza di Gesù da parte del prefetto romano; o sulla catena narrativa di centurioni descritti come uomini pii e devoti nel dittico lucano. Anche Paolo non è riconosciuto colpevole dalle autorità imperiali. Il silenzio di Luca sull’esito del suo processo al cospetto dell’imperatore può dipendere, secondo Landi, dalla volontà di preservare innocente la figura dell’apostolo.

Sia che si tratti di Efeso o di Roma, il profilo del destinatario del dittico lucano è quello di un conoscitore delle Scritture di Israele e della cultura giudaica; è verosimile che si tratti di un uditorio misto, composto da giudei residenti nei territori della Diaspora e da gentili che hanno accolto il messaggio evangelico, possedendo già una discreta familiarità con le tradizioni giudaiche maturata a motivo della frequentazione della sinagoga. Non è escluso che l’ambiente sinagogale abbia rappresentato lo spazio principale di annuncio del vangelo, prima della definitiva rottura che ha favorito la dislocazione della cristianità lucana dagli edifici sinagogali alle case di privati cittadini.

Se si accetta l’ipotesi delle due fonti, la datazione del Vangelo di Luca non può essere anteriore alla redazione del Vangelo di Marco, che la maggioranza degli studiosi colloca poco prima del 70 d.C. Il racconto lucano risale sicuramente a dopo il 70, poiché Lc 21,20 allude chiaramente alla distruzione di Gerusalemme (cf. anche 19,43-44 e 21,24).

Il contesto che fa da sfondo alla redazione del terzo vangelo è quello della terza generazione di credenti, che non devono fronteggiare un’accanita persecuzione nei loro confronti e non attendono come imminente la parusia (cf. Lc 17,20-21; 19,11; 21,8).

Il periodo di pubblicazione può essere compreso tra l’80 e l’85.

Perché Luca scrive il Vangelo (e gli Atti)?

L’ambizione lucana è quella di concepire un’opera letteraria che non si limiti a raccontare solo ciò che Gesù ha insegnato e compiuto, ma includa anche la progressiva diffusione del messaggio di salvezza tra giudei e gentili. La finalità del dittico lucano è ben espresso nel proemio del Vangelo (1,1-4). Luca si prefigge di corroborare la fede dell’eccellente Teofilo, così che possa rendersi conto della solidità delle istruzioni già ricevute.

Nel proemio si fa riferimento ai “molti” che hanno preceduto l’autore nell’esposizione dei fatti accaduti. Luca si avvarrà della disposizione del Vangelo marciano.

Circa la finalità dello scritto lucano, è possibile che Luca non intenda sottolineare l’inadeguatezza dei loro scritti, ma l’incompletezza; così, egli avverte l’esigenza di implementare le informazioni sul Messia, attingendo non solo ai ricordi di coloro che hanno assistito ai fatti e sono ritenuti testimoni autorevoli e attendibili, ma anche consultando documenti scritti ai quali ha avuto accesso, vagliandone l’autenticità e la credibilità dal punto di vista storico, con lo scopo di redigere un racconto attendibile e ordinato da sottoporre all’eccellente Teofilo, affinché possa rendersi conto della solidità degli insegnamenti ricevuti (cf. Lc 1,3-4).

La finalità dell’opera appare chiara. Non altrettanto evidenti le motivazioni per le quali il destinatario debba essere consolidato riguardo alle istruzioni trasmesse. Se si tratta di un insider, che ha già aderito al vangelo e ha accolto la fede trasmessa dagli apostoli, testimoni del Cristo, e da quanti hanno contribuito alla diffusione del messaggio di salvezza (cf. Lc 1,2), in che senso la sua fede deve essere corroborata?

Quattro ambiti

Landi propone quattro ambiti di confronto interno alla cristianità lucana che avrebbero potuto indurre l’autore a comporre la sua opera in due tomi.

1. Lo scandalo del Messia crocifisso

Il Vangelo di Marco contiene il paradosso di un Cristo, Messia, atteso da Israele in quanto discendente davidico-regale, leader politico e militare di un popolo sottomesso con la forza al potere dei romani che muore in croce.

Altrettanto paradossale è la rivelazione della sua figliolanza divina in occasione del battesimo e della trasfigurazione. La voce divina lo riconosce come Figlio di Dio. Un centurione pagano è l’unico personaggio umano a riconoscerlo come tale nel momento della morte (cf. Mc 15,39).

Luca recepisce l’istanza paradossale della cristologia marciana e l’approfondisce a beneficio del suo lettore.

In primo luogo – ricorda Landi – Luca ribadisce in maniera massiccia che la morte del Cristo si inscrive nel disegno divino della salvezza ed è stata preconizzata nelle Scritture di Israele. Oltre alle tre predizioni della passione del Figlio dell’uomo già presenti in Marco, Luca aggiunge anche cinque detti (loghia) che non hanno paralleli né in Marco né in Matteo relativi alla necessità divina circa la morte del profeta e delle sue modalità, con l’esito finale della risurrezione al terzo giorno (13,33; 17,25; 24,7; 24,26; 24,46).

Il progetto divino, espresso attraverso il verbo impersonale dei («è necessario») è reso intelligibile dal ricorso alle Scritture di Israele. Nella terza predizione della passione, Gesù dichiara che la sofferenza che sta per affrontare adempie «tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo» (Lc 18,31).

Il riferimento complessivo alla tradizione scritturistica è presente anche in occasione delle apparizioni del Risorto (ai due discepoli in cammino verso Emmaus, agli Undici: cf. 24,27; 24,44b: «bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei salmi»). Il Risorto apre la mente dei suoi discepoli all’intelligenza delle Scritture, dischiudendo il senso delle profezie riguardanti la sua sofferenza (24,45).

I riferimenti alla necessità che si realizzi il disegno divino e all’adempimento scritturistico ottengono un duplice effetto sul destinatario del vangelo: l’uso ridondante della formula dei/edei (“bisogna/bisognava”) e delle formule di compimento scritturistico offre al lettore informazioni particolarmente preziose per meglio comprendere e decodificare il messaggio rivoltogli: in questo modo si riduce l’esitazione, facilitando la corretta ermeneutica del messaggio.

In secondo luogo, la reticenza lucana circa i passi utilizzati per dimostrare la coerenza tra le profezie messianiche e il destino del Figlio dell’uomo suscita nel lettore la curiosità di sapere quali siano gli argomenti scritturistici; la lettura del secondo tomo dell’opera gli consentirà non solo di approfondire i testi delle Scritture, ma anche di comprendere l’agire paradossale di Dio, che sovverte la sentenza di condanna nei confronti del suo Figlio, risuscitandolo dai morti.

Le cosiddette formule di contrasto (At 2,23-24; 3,13-15; 4,10; 5,30-31; 10,39b-40a; 13,27-30) si basano presumibilmente sulla predicazione apostolica più antica, ma sono rielaborate da Luca con l’obiettivo di persuadere il suo lettore che il disegno provvidenziale comprende non solo la morte del Messia, ma anche la sua risurrezione e glorificazione da parte di Dio. Se la morte di croce è ritenuta scandalosa dai giudei, e pura follia dai gentili (cf. 1Cor 1,23), secondo la prospettiva lucana essa è parte integrante del disegno salvifico divino.

2. La cristianità lucana e la distruzione del tempio

Il tempio è il centro della religiosità giudaica.

Luca inizia e termina il suo Vangelo con la menzione del tempio in cui è presente Zaccaria che non riesce a benedire il popolo e termina con la preghiera gioiosa degli apostoli al tempio dopo la risurrezione e l’ascensione di Gesù, che benedice i suoi discepoli. Nel tempio, Dio manifesta la sua volontà di dare un figlio a Zaccaria e ad Elisabetta, simboli dell’Israele che attende il riscatto e la redenzione, che prepari un popolo ben disposto.

Nel tempio è pronunciato anche l’oracolo del vecchio Simeone. Nel bambino presentato al tempio per il riscatto del primogenito, Simeone profetizza la salvezza divina, predisposta per tutti i popoli; è lui la luce destinata a illuminare il cammino delle genti e ad essere la gloria del suo popolo Israele. Simeone preannuncia l’opposizione che Gesù affronterà e anche la profetessa Anna collega il bambino all’attesa della redenzione di Gerusalemme. Queste figure profetiche parlano dell’identità e della missione di Gesù e hanno un valore programmatico per la cristologia lucana.

Al tempio, Gesù ascolta e interroga i sapienti di Israele e cerca la volontà del Padre.

Nel tempio, Gesù istruisce il popolo prima di affrontare la passione. Gesù caccia dal recinto sacro i venditori e i cambiavalute e ricorda i passi di Is 56,7 e Ger 7,11, pur omettendo il riferimento a «tutte le genti» (Lc 19,46).

Il tempio è assiduamente frequentato dagli apostoli dopo la risurrezione ed è il luogo in cui viene rivelato a Paolo di allontanarsi da Gerusalemme perché la sua testimonianza non sarà accolta.

In At 22,18.21 le parole del Risorto semplificano in maniera concreta il valore ambivalente che il tempio assume nella teologia lucana, rivelativa e conflittuale.

Anzitutto, esso è il luogo dove Gesù si rivela come Kyrios. Colui che Israele ha rigettato e condannato a morte, è stato risuscitato da Dio e costituito Signore e Cristo e ora appare nella dimora divina per eccellenza.

Il tempio è il luogo dove si consuma l’ennesimo conflitto tra Paolo, testimone del vangelo, e i primi destinatari della missione evangelizzatrice, i giudei. Lo strappo è ancora più significativo se si pensa all’insistenza posta da Paolo sulla sua lealtà alla fede giudaica.

Il movimento cristiano descritto nell’opera lucana si concepisce come un gruppo interno al giudaismo, non separato da esso, anche se il suo messaggio è respinto dalla maggioranza dei giudei. Non è inverosimile – afferma Landi – che anche l’uditorio al quale è destinata l’opera lucana non si senta definitivamente separato dal giudaismo e, come gli altri gruppi sopravvissuti alla prima guerra giudaica (66-70 d.C.), si trovi ad affrontare la grave crisi provocata dalla distruzione del tempio (70 d.C.), coltivando la speranza che possa essere ricostruito.

Di fronte alle rovine del luogo sacro, le questioni più urgenti erano soprattutto due: Dio si è ritirato definitivamente dalla presenza del suo popolo poiché la sua dimora terrena è stata abbattuta? Se l’altare dei sacrifici è stato divelto, come sarà possibile ottenere il perdono divino?

Gesù perdona i peccati del paralitico guarito (Lc 5,17-.26) e della peccatrice (Lc 7,36-50, Sondergut lucano). Quando Luca scrive il Vangelo, non è più possibile offrire sacrifici animali per ottenere la grazia divina; così la fede dell’infermo riposta in Gesù e l’amore della donna nei suoi confronti sono i “sacrifici” che il Signore gradisce in vista del perdono.

La remissione dei peccati è parte integrante del mandato missionario che il Risorto conferisce ai suoi discepoli (Lc 24,47); è una peculiarità della scrittura lucana senza riscontri né in Marco né in Matteo (Sondergut lucano). Solo in Luca la conversione in vista della remissione dei peccati è espressamente collegata all’adempimento delle Scritture.

La risposta della cristianità alla crisi rappresentata dalla distruzione dell’edificio templare e all’abbattimento del tempio è d’indole cristologica ed ecclesiale: la comunità ha ricevuto il compito di proclamare a Israele e alle nazioni il pentimento in vista del perdono divino, ottenuto facendosi battezzare nel nome di Gesù e credendo in lui (At 2,38-40; 3,19-20.26; 5,31; 7,60; 10,43; 13,37-39; 14,15; 17,30-31; 22,16; 26, 17-18).

3. Il rifiuto di Israele e l’apertura ai gentili

Nell’Opera lucana – Vangelo e Atti degli Apostoli – il tema del rifiuto e dell’ostilità che incontrano Gesù e i suoi seguaci da parte della maggioranza dei giudei è rilevante (cf. la profezia di Simeone su Gesù “segno contraddetto”; la sua presenza determinerà la caduta e la risurrezione di molti in Israele, Lc 2,34).

Anche gli astanti della sinagoga di Nazaret reagiscono violentemente al discorso di Gesù ed è il segno dell’ostracismo che egli subirà (Lc 4,28-29). La tipologia del profeta inviato da Dio e osteggiato dal popolo, che Luca impiega in modo massiccio per descrivere il suo protagonista, è tratta dalle Strutture, che già la prevedevano. Luca non lascia intendere che la missione a Israele sia terminata.

Il mandato missionario «da Gerusalemme» (Lc 24,47) non indica l’allontanamento definitivo dall’ambiente giudaico, ma il punto di partenza della missione destinata a irradiarsi fino all’estremo della terra. Il primato dell’annuncio della salvezza a Israele non è mai posto in discussione, come si può evincere dai mandati missionari che il Risorto conferisce agli apostoli (Lc 24,44-49; At 1,8) e a Paolo (At 9,15-16; 22,14-15; 26,16-18).

Il Dio di Israele, difatti, è anche il Signore che si rivela alle nazioni, offrendo loro la possibilità di ravvedersi e di convertirsi per ottenere la salvezza. Gesù apprezza la fede del centurione; Piero entra in casa di Cornelio, prendendo atto che Dio non dichiara profano o impuro alcun uomo, ma «accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (At 10,35). Il Dio vivente, che ha fatto il cielo e la terra, non ha smesso di essere benevolo verso ogni uomo; è il Dio al quale appartiene Paolo a garantire la sopravvivenza degli uomini che condividono con lui il viaggio verso l’Italia (At 27,21-26).

La caratterizzazione della figura di Dio è paradigmatica per comprendere il progetto teologico lucano: è Dio che porta a compimento le promesse fatte ai patriarchi, garantendo benevolenza e soccorso al suo popolo; è il Padre di Gesù, l’Unto destinato a proclamare l’anno di grazia, il re davidico che reggerà per sempre le sorti di Israele; è, inoltre, il Dio che estende a tutti i popoli i benefici della salvezza.

Luca è l’unico tra gli evangelisti a descrivere il mandato missionario conferito dal Risorto agli apostoli sul modello elaborato dal Deutero-Isaia (Is 43,8-12; 44,6-8) relativo alla testimonianza di Israele in mezzo alle nazioni.

Occorre tenere presente – secondo Landi – che l’apertura della porta della fede alle genti (cf. At 14,27) non è diretta conseguenza del rifiuto di Israele, ma è iscritta nel disegno divino della salvezza (cf. At 1,8; 13,46-47; 28,28).

La comunità cristiana si configura come un corpus mixtum, in cui giudei e gentili che hanno aderito al vangelo per mezzo della fede in Gesù Cristo hanno superato i pregiudizi, le tensioni e i conflitti inziali grazie al gruppo degli apostoli, impegnato a discernere la volontà di Dio, che «fin da principio ha scelto (lett.: visitato per prendere) dalle genti un popolo per il suo nome» (At 15,14). Il popolo che Dio si è scelto è l’Israele escatologico, il cui primo nucleo è rappresentato dai dodici apostoli, simbolo delle dodici tribù di Israele la cui ricomposizione era prevista per la pienezza dei tempi, e da quanti hanno accolto il vangelo e hanno creduto nel Signore Gesù.

4. Una comunità in attesa della manifestazione del regno di Dio

Nel Vangelo di Luca si assiste alla progressiva cristologizzazione del concetto di basiléia.

Nell’ultima cena, Luca fa introdurre a Gesù, in tre circostanze, delle affermazioni che alludono alla natura escatologica del regno di Dio. Sono Sondergut lucano, senza paralleli in Mc e Mt.

Gesù afferma che non mangerà più la cena prevista per la Pasqua finché non si compia nel regno di Dio (Lc 22,16); egli non berrà più del frutto della vite sino a che non verrà il regno divino (22,18); infine, ai discepoli confida che sta preparando per loro un regno, così come il Padre l’ha predisposto per lui, affinché possano sedere alla mensa del suo regno a giudicare le tribù di Israele (22,29-30).

A diversità di Marco, Luca attribuisce in 4,43 l’imminenza del Regno non con l’inizio del ministero pubblico di Gesù ma alla sua predicazione. A chi vuole trattenerlo dopo aver ottenuto dei benefici terapeutici ed esorcistici Gesù dice: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato» (cf. anche 8,1).

Il regno di Dio è presentato come una realtà presente e, allo stesso tempo, futura: appartiene già ai poveri (6,20) e a chi è come i fanciulli (18,16-17); alcuni contemporanei di Gesù non moriranno prima di aver visto il Regno (9,27). La prossimità del Regno è oggetto della predicazione affidata ai primi missionari (10, 9.11). Il trionfo di Cristo sui demoni è la prova più evidente che il Regno è già operante attraverso di lui (11,20). I misteri del regno sono rivelati ai discepoli (8,10; cf. 12,32); tuttavia, essi non devono smettere di cercarlo (12,31), evitando di lasciarsi sopraffare dalle preoccupazioni mondane.

Il regno di Dio, però, è anche la meta a cui bisogna tendere: bisogna sforzarsi di passare per la porta stretta della fede e delle esigenze che la sequela richiede per essere accolti nel Regno (13,23-30; cf. 16,16). Ai farisei che chiedono quando verrà il regno di Dio, Gesù risponde che è già in mezzo ad essi (17,21). Tuttavia, rivolgendosi ai suoi discepoli, Gesù preannuncia loro il giorno in cui il Figlio dell’uomo comparirà in futuro (17,22-37): la connessione tra regalità divina e manifestazione del Figlio dell’uomo alla fine dei tempi è una peculiarità lucana.

Anche nel discorso escatologico, che Luca mutua da Marco, seppur con modifiche e integrazioni, la regalità divina si rivelerà in pienezza contestualmente al giorno del Figlio dell’uomo (cf. Mc 13,29; Mt 24,33, Lc 21,31). Mc e Mt parlano di Gesù vicino, Lc di vicinanza del regno di Dio.

L’attesa legata alla manifestazione della regalità divina è un argomento a cui Luca si mostra particolarmente sensibile; una prova ulteriore è fornita dall’introduzione che egli antepone alla parabola delle dieci mine (19,11-27), senza alcun parallelo in Mt 25, 14.30. Solo Luca abbina i motivi della regalità e del ritorno del Figlio dell’uomo nel tempo stabilito.

La signoria di Cristo è un concetto inclusivo nella prospettiva lucana. L’angelo attesta solennemente che il suo regno non avrà fine (Lc 1,32); uno dei malfattori chiede a Gesù di entrare nel suo regno (23,42). In Atti è possibile individuare una composizione chiastica tra l’inizio e la fine del racconto, ponendo in evidenza anche in questo caso la dimensione cristologica del regno di Dio:

a) Gesù (1,1); b) regno di Dio (1,3); b1) regno di Dio (28,31a); a1) Gesù (28,31b).

Gli Atti degli Apostoli iniziano con Gesù che appare ai discepoli per quaranta giorni parlando con loro su tutto ciò che riguarda il regno di Dio (1,1-3) e termina con l’inclusione rappresentata da Paolo che, a Roma, accoglie giudei e gentili e annuncia loro ciò che riguarda la regalità divina e la signoria di Cristo (28,31).

La domanda di At 1,6 formulata dagli apostoli riflette probabilmente l’attesa relativa alla manifestazione del regno per Israele, ancora viva al tempo in cui Luca scrive la sua opera. La risposta di Gesù storna l’attenzione dell’uditorio dalla curiosità di conoscere i tempi e i momenti in cui si riserverà di ristabilire la sua sovranità su Israele.

L’effusione dello Spirito, profetizzato dai profeti per la restaurazione delle dodici tribù alla fine dei tempi (cf. Is 42,1; 44,3; Ez 36,24-28; 37,14; 39,29; Gl 2,28–3,1), è in vista della testimonianza che gli apostoli debbono rendere al Risorto (Lc 24,48; At 1,8), costituito Cristo e Signore.

Il tempo presente della cristianità alla quale Luca appartiene e per la quale si accinge a comporre un’opera così difficile è contraddistinto dall’impegno di proclamare, «con tutta franchezza e senza impedimento» (At 28,31), a Israele e alle genti che la salvezza divina è destinata ad ogni uomo, a patto che accolga il vangelo e creda nel Signore Gesù.

Il commentario

La poderosa opera di Antonio Landi si struttura in una Introduzione generale (pp. 9-48), seguita dalla Traduzione e commento (pp. 49-802) e da indici vari: Sigle e abbreviazioni (pp. 803-808); Autori e opere antiche (pp. 809-812); Indice autori moderni (pp. 813-818); Bibliografia generale (pp. 819-850); indice generale (pp.851-856).

Per ogni pericope esaminata l’autore riporta il testo in una traduzione personale, la delimitazione e l’articolazione del brano e, infine, il commento. Quest’ultimo è fatto versetto per versetto o per brevissime unità di senso. Per lo più ricostruisce e illustra la dinamica di senso del testo, senza indulgere a troppi approfondimenti filologici. Le parole greche sono riportate in traslitterazione scientifica e le note a piè di pagina sono molto stringate e limitate nel numero.

Salutiamo con grande piacere questo commentario maggiore al Vangelo di Luca, dal taglio particolare e in parte innovativo, scritto con linguaggio piano e accessibile a tutti (con una qualche preparazione circa la lingua greca).

Credo che Antonio Landi si compiacerà di dedicare questa fatica anche al collega e amico mons. Antonio Pitta – presidente dell’Associazione Biblica Italiana morto improvvisamente il 1° ottobre 2024 – con il quale aveva collaborato più volte in opere esegetiche. Il Gesù misericordioso attestato nel Vangelo di Luca lo accoglierà nella pienezza della gioia del Regno suo e del Padre.

  • ANTONIO LANDI, Luca. Introduzione e commento (Commentari biblici), Queriniana, Brescia 2024, pp. 864, € 63,00, ISBN 9788839911407.
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