Francesco dopo Francesco: processualità

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Insieme ai nostri lettori e lettrici, ci siamo confrontati per due giorni presso la comunità dehoniana di Albino (25-26 ottobre 2024) su quale sia l’anima e il cuore del pontificato di Francesco (cf. SettimanaNews, qui). Per ampliare e approfondire il dialogo condiviso pubblichiamo alcuni dei testi degli interventi tenuti nel corso della due giorni. Dopo la meditazione della nostra redattrice, suor Elsa Antoniazzi (qui), pubblichiamo qui la relazione di Vincenzo Rosito «La teologia di papa Francesco: il paradigma ecclesiale della processualità».

Se dovessi trovare una qualità massimamente rappresentativa della chiesa nel tempo di Francesco, direi che questa qualità è la processualità. Nell’ultimo decennio la processualità è entrata in maniera qualificante nell’orizzonte della vita ecclesiale. Basti osservare il linguaggio comunemente in uso nei documenti ufficiali delle chiese per imbattersi in espressioni come “processo pastorale” lì dove fino a non molto tempo fa avremmo parlato di “piano” o “progetto pastorale”.

Allo stesso modo, con una certa naturalezza, parliamo di “processi di discernimento” comunitario. Il discernimento infatti non è più soltanto una prassi della vita spirituale intesa come vita nella fede delle singole persone, ma è entrato di fatto nel patrimonio lessicale quotidiano delle comunità di fede. Per non parlare del più rilevante dei processi ecclesiali ovvero quello sinodale.

È ormai evidente che nella chiesa cattolica il sinodo non è più soltanto un evento ecclesiale che ha un inizio e una fine, così come la sinodalità non è soltanto una qualità teorizzabile e oggettivabile della chiesa stessa. La sinodalità esiste in quanto processo che si sviluppa anche attraverso un richiamo al senso pratico, all’implicazione fisica dei corpi in cammino o alla chiesa convocata in sinodo appunto. Il processo sinodale richiede lo spostamento fisico dei corpi, per non parlare dello spostamento riflessivo e psichico delle coscienze.

Per fare ancora un esempio concreto, fino ad alcuni decenni fa, all’interno di una realtà ecclesiale come poteva essere una parrocchia, un gruppo scout o di azione cattolica, per gestire insieme una questione rilevante si sarebbe detto “facciamo una commissione” oppure “programmiamo una riunione”. Oggi queste attività continuano a essere svolte, ma risulterebbero inefficaci senza lo sfondo di un cammino processale.

Dopo testi e segni: i processi

Nella cultura sociale del popolo di Dio, la processualità sembra essere entrata come una disposizione necessaria per tenere insieme la storia delle cose, la storia delle persone e la storia di Dio. La processualità è molto più di un filo rosso che collega eventi e persone, essa diventa piuttosto lo stile condiviso e riconoscibile del “fare chiesa”. Certamente in una parrocchia o in un’associazione ecclesiale si continueranno a costituire commissioni e a convocare riunioni, ma la diposizione di fondo è la processualità.

Potremmo dire che il letto dentro il quale è possibile far distendere gli effetti di commissioni e assemblee è la processualità stessa della vita ecclesiale. L’assemblea sinodale che si è da poco conclusa, pur essendo fatta di commissioni e riunioni, è parte di un processo più ampio, circoscrivibile nel tempo, ma non negli effetti.  Forse per la prima volta un sinodo dei vescovi non sarà un evento perché è già parte di un processo più inclusivo e rilevante rispetto ai singoli eventi come le commissioni o le riunioni che lo compongono.

Per spiegarmi meglio vorrei provare a leggere la processualità praticata ecclesialmente nel tempo di Francesco in relazione alla storia della chiesa postconciliare. La mia tesi può essere così riassunta: la chiesa sta entrando nel paradigma storico-ermeneutico della processualità, dopo aver attraversato e compreso il significato ecclesiale dei testi e dei segni. In altre parole, da una chiesa che comunica se stessa e con se stessa attraverso testi e segni, stiamo passando a una chiesa che innanzitutto inaugura e conduce processi.

La storia della chiesa che scaturisce dal Vaticano II potrebbe essere riletta e ricostruita studiando i modi con cui testi e segni sono stati usati o maneggiati. Quando parlo di testi mi riferisco in prima istanza ai cosiddetti “testi culturali” (romanzi, film, rappresentazioni teatrali, quadri, performance artistiche) così come vengono considerati dalla sociosemiotica e dai cultural studies. Per la semiotica infatti un testo non è un “oggetto” bensì un “modello”.

Un testo è tutto ciò che, pur non essendo necessariamente lettera scritta o orale, produce senso[1]. La storia della chiesa dopo il Vaticano II inizia certamente con una varietà ricca di testi scritti, quelli che il Concilio ha ovviamente prodotto, ma è soprattutto la storia di un’istituzione che inizia a maneggiare in maniera inedita la ricchezza diversificata dei testi culturali.

In una recente conferenza pubblica, organizzata dal Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, il teologo indiano Felix Wilfred sottolineava come nel continente asiatico, la conoscenza del Vaticano II non sia avvenuta sostanzialmente attraverso lo studio esegetico dei documenti conciliari, bensì attraverso la sperimentazione dei suoi effetti. In alcuni contesti nazionali e addirittura continentali della chiesa cattolica il Concilio è arrivato non tanto attraverso la mediazione di testi scritti, quanto attraverso l’esperienza delle conseguenze pratiche e delle sue ricadute effettive (si pensi agli effetti della riforma liturgica).

Tutto questo è interessante perché spiega come i testi culturali operano e hanno iniziato a operare nella chiesa cattolica dal Concilio ad oggi ovvero apprendo una possibilità indeterminabile di effetti, non solo di interpretazioni, determinando cioè un’eccedenza sovrabbondante di significati. Lo Spirito operante nell’assemblea conciliare ha prodotto nel tempo una “pioggia di senso”. Tuttavia è responsabilità di coloro che hanno beneficato di quella pioggia, non ridurre il modello del “testo” alla forma del “documento”. Talvolta i documenti (compresi quelli usati comunemente nelle chiese) possono diventare la forma degenerata del testo culturale.

Il testo si perverte in documento quando si pensa che la forma scritta e l’azione esegetica che ne consegue siano le uniche forme culturali possibili e necessarie. Sarebbe interessante se dall’attuale processo sinodale scaturissero non documenti, ma narrazioni ovvero molteplici testi narrativi, non necessariamente scritti, che ricostruiscano l’esperienza e l’accaduto, che “facciano vedere” cosa è successo, non solo quello che abbiamo imparato come chiesa durante l’esperienza sinodale.

Processualità come atmosfera culturale della Chiesa cattolica

Come il testo culturale può pervertirsi in documento, così il segno può pervertirsi in evento. La chiesa scaturita dal Concilio ha talvolta vissuto e sperimentato anche questo scivolamento degenerativo. I segni, soprattutto i “segni dei tempi” sono sempre più grandi ed eccedenti rispetto agli eventi. Per questa ragione gli eventi, anche quelli ecclesiali più roboanti e partecipati, non possono mai pretendere di esaurire la portata semantica e profetica dei segni.

Gli eventi non possono mangiarsi del tutto i segni. Questo può essere, ancora oggi, il rischio di alcuni grandi “eventi” ecclesiali come le giornate mondiali della gioventù, o le adunate corporative che aggregano porzioni del popolo di Dio, rappresentando una chiesa segmentata e spacchettata in categorie statiche e predefinite (si pensi alla logica organizzativa sottostante alcuni “grandi eventi” giubilari come il giubileo degli anziani, quello delle forze armate, quello dei seminaristi e così via). Mentre i segni, secondo lo spirito conciliare, affiorano dalla realtà e vanno sostanzialmente riconosciuti e articolati.

Gli eventi assorbono una quantità smisurata di energie vitali per l’intero corpo ecclesiale, dal momento che gli eventi vanno prima di tutto organizzati ed eseguiti. Rispetto agli eventi e alla loro logica è opportuno ritornare ancora una volta sulla portata profetica della più incisiva tra le polarità enunciate in Evangelii Gaudium, quella tra “possedere spazi” e “iniziare processi” (EG 223). Un evento ha bisogno di uno spazio fisico o corporativo, inoltre può essere organizzato anche esclusivamente per rappresentare o presidiare quello spazio soltanto. Un processo invece si distende nel tempo e richiede gesti di accompagnamento continuo.

Il processo è il luogo della cura, l’evento è un’opportunità di rappresentazione. La processualità, in altre parole, aiuta la chiesa a percepire la propria storia non come successione di eventi, ma come narrazione. La processualità agisce nella chiesa così come la letteratura agisce nelle culture. I grandi romanzi, così come i racconti letterari ci aiutano infatti a riconoscere la vita non come accumulazione, ma come storia.

La processualità è l’atmosfera dentro la quale Francesco ha introdotto e sta introducendo la chiesa. Questo passaggio, quest’opera di accompagnamento non sarebbe stata possibile senza l’esperienza postconciliare di una chiesa alle prese con la gestione culturale dei testi e dei segni. Il lavorio ecclesiale sulla processualità è già iniziato, quello teologico e culturale sulla processualità non ancora del tutto. Ritengo che lo forzo di riflessione interdisciplinare e di ricerca teologica più urgente nell’attuale contesto della chiesa cattolica riguardi esattamente il cambio di paradigma processuale che la chiesa sta già vivendo.

Provo a fare un breve esempio di questioni e temi ispiranti per la ricerca comune e interdisciplinare sulla processualità ecclesiale. La processualità come dinamismo della vita collettiva infatti è stata indagata soprattutto dalle scienze umane e sociali. La processualità, anche se potrebbe essere definita una scoperta relativamente recente per l’organizzazione delle istituzioni ecclesiali, è un’antica conoscenza per gli studiosi del mutamento sociale e dei processi educativi. In tal senso l’interlocuzione della teologia con “le scienze della processualità” (filosofia sociale o antropologica culturale educativa) diventa importantissima.

Il confronto con questi saperi sarebbe estremamente utile per precisare i significati e le implicazioni ecclesiali della processualità stessa. Per questa ragione mi soffermo brevemente su quattro accezioni o declinazioni del temine: processualità come corrispondenza, processualità come aggiustamento, processualità come improvvisazione e infine processualità come negoziazione.

Processualità come corrispondenza

Le pratiche processuali, anche dentro la chiesa, possono essere comprese come pratiche di corrispondenza. Avviare un processo di discernimento pastorale in una parrocchia o in una diocesi non significa soltanto organizzare eventi o convocare assemblee. La corrispondenza infatti è un esercizio di attenzione mentre si è impegnai in un’impresa comune. Per usare una definizione dell’antropologo inglese Tim Ingold, corrispondere significa “procedere insieme con” (going along with).

La camminata è l’immagine più rappresentativa della processualità in quanto corrispondenza. In una camminata in montagna ad esempio è necessario «sintonizzare o sensibilizzare le nostre abilità percettive che rendono il camminatore ancora più attento alle sfumature dell’ambiente»[2]. In una camminata in montagna la qualità massimamente richiesta non è una mente prestazionale, bensì una mente attenzionale. Il bravo camminatore non è quello che ad ogni costo arriva alla meta, magari sacrificando persone e pezzi di vita pur di conseguire un fine preposto, ma è colui che corrisponde ai richiami esterni modificando il passo se il terreno è scivoloso, adattando il peso da riversare sulle gambe se cambia l’inclinazione del terreno. Il camminatore come corrispondente si affiata letteralmente con il clima circostante. In poche parole, colui che avanza processualmente corrispondendo è uno che “presta attenzione”.

L’attenzione del camminante è agli antipodi dell’attenzione del funzionario. In tal senso una mente attenzionale è l’antidoto contro una chiesa di funzionari, in cui i ruoli di responsabilità, soprattutto quelli esercitati dai ministri ordinati, sono sempre più finalizzati al raggiungimento di obiettivi, non all’esercizio della corrispondenza. L’antecedenza della logica della corrispondenza favorisce pertanto una riconfigurazione dei compiti ecclesiali e degli orientamenti morali allo stesso tempo.

Per questo, in una chiesa che prova a gestire la processualità come corrispondenza, la coscienza non è un dispositivo decisionale, ma una disposizione attenzionale. Una chiesa disponibile alla corrispondenza è una chiesa disposta all’attenzione. Al suo interno prestare attenzione (to attend) significa prima di tutto aspettarsi reciprocamente, come accade durante una camminata in montagna quando qualcuno per svariate ragioni resta indietro e si richiede una rimodulazione del passo di tutti. In tal caso, quando ci si aspetta gli uni gli altri in montagna, non si esercita propriamente una forma di inclusione o di integrazione all’interno di un gruppo.

Per quanto questi termini, integrazione e inclusione, siano stati usati sovente da Francesco, possono risultare poco efficaci alla luce di una svolta processuale in ecclesiologia. Mentre si cammina insieme in montagna la capacità di includere e di integrare si manifesta principalmente attraverso la capacità di aspettarsi. In una chiesa sinodale, che sperimenta la processualità come corrispondenza il monito più rilevante e quello di Paolo ai corinzi: «Aspettatevi gli uni gli altri» (ICor 11).

Processualità come aggiustamento

Un soggetto collettivo ecclesiale che vive processualmente è capace di aggiustarsi. La disposizione all’aggiustamento è strettamente legata alla soggettività di persone o gruppi. In tal senso si potrebbero reinterpretare i processi di riforma ecclesiale in quanto processi di aggiustamento. L’aggiustamento del corpo ecclesiale può essere inteso non come semplice adattamento, ma come sensibilità verso le realtà in trasformazione, verso le vite e addirittura verso i corpi in transizione.

Per spiegare questo passaggio potrebbe essere utile ricordare il modello interazionale di Eric Landowski nel quale il semiologo francese mostra come l’azione umana si componga di quattro regimi complementari: la programmazione, il caso o assenso aleatorio, la manipolazione e infine l’aggiustamento[3]. Sarebbe interessane applicare tale modello alle pratiche della vita ecclesiale e osservare ad esempio come la programmazione e la manipolazione, in quanto persuasione del volere altrui, siano storicamente le disposizioni più usate.

Nell’azione pastorale ad esempio ovvero nell’autorganizzazione delle comunità cristiane la fatica di programmare strategicamente la vita stessa occupa lo spazio centrale e assorbe la quasi totalità delle energie disponibili. Potrebbe essere utile, nel futuro prossimo, lavorare scientificamente ed ecclesialmente sul ruolo dell’aggiustamento nella vita processuale delle chiese. Quale forma dovrebbero avere ad esempio le strutture decisionali o i ruoli di responsabilità per essere in grado di esercitare fruttuosamente l’aggiustamento ecclesiale? In altri termini, come è possibile includere anche istituzionalmente nella vita processuale delle chiese l’aggiustamento come adattamento a una situazione dinamica?

È su questo piano che si giocano le retoriche paternalistiche di una chiesa incapace di comunicare con i mondi della vita, quelle secondo cui la chiesa non sarebbe più in grado di parlare alle realtà quotidiane degli uomini e delle donne di oggi. La vita delle famiglie, delle relazioni affettive e dei legami significativi è una vita di aggiustamenti. Una chiesa che non interiorizza e gestisce la logica dell’aggiustamento si autocondanna volontariamente all’incomunicabilità con i mondi della vita.

Processualità come improvvisazione

L’improvvisazione è una parte costitutiva e ineliminabile nel cammino processuale di un gruppo o di una comunità. Nella vita ecclesiale l’improvvisazione non ha ancora un posto riconosciuto e riconoscibile, essa viene avvertita prevalentemente come un esercizio ludico, tuttalpiù come una qualità personale. La sfida di una chiesa che riscoprire la processualità è quella di integrare l’improvvisazione come qualità comunitaria. In tal senso prendo spunto da un libro del teologo anglicano Samuel Wells, dal titolo Improvisation, in cui si legge: «L’improvvisazione è la pratica attraverso cui gli attori cercano di sviluppare fiducia in loro stessi e l’uno nell’altro per realizzare un dramma non scritto, e per poterlo fare senza paura»[4].

L’improvvisazione dunque non è una pratica in cui le persone acquisiscono reattività o capacità di rispondere prontamente alle azioni di un altro. L’improvvisazione è infatti una palestra per la fiducia, non per la resilienza. In una performance teatrale gli attori, improvvisando, mettono alla prova reciprocamente la loro capacità di fidarsi l’uno dell’altro. La sequenza delle loro battute, le parole che si scambiano non hanno propriamente la forma del dissing, ma di una catena costruita insieme, davanti agli occhi degli spettatori, mentre la storia o la vita si svolgono.

L’improvvisazione somiglia un’opera di tessitura collettiva in cui un artista alla volta  intreccia un filo con quello teso dall’artista che lo ha preceduto, fidandosi silenziosamente e in cuor suo delle mani che hanno precedono e seguiranno il suo gesto. L’improvvisazione inoltre, come forma della processualità cooperativa, è simile a una performance di collaborative painting in cui artisti di strada si avvicendano, uno dopo l’altro, dipingendo un muro urbano, scambiandosi di mano in mano un pennello o attrezzi vari. Nessuno di loro ha un controllo sulla qualità del prodotto finale, nessuno può immaginare in anticipo quali forme e colori emergeranno quando l’opera sarà finita, ognuno però si limita a contribuire secondo una logica di corrispondenza, non di addizione.

Ognuno, quando arriva il suo turno, non deve inventare un’immagine, ma connettersi con l’immagine disegnata da chi lo ha preceduto e allo stesso tempo deve essere così generoso da lasciare un’immagine che sia completabile dall’artista che verrà dopo di lui. L’improvvisazione, ha scritto il sociologo italiano Davide Sparti, è il «promemoria della fragilità del nostro controllo sul mondo»[5]. Se dunque l’improvvisazione ci ricorda la fragilità del nostro controllo sul mondo, allo stesso tempo propone un modo per gestire questa fragilità, un modo fatto di corrispondenze e di aggiustamenti, di fiducia esercitata dentro una catena di parole scambiate, potremmo dire all’interno di una tradizione ecclesiale che si riscopre intimamente processuale.

Processualità come negoziazione

Nella ridefinizione della vita ecclesiale in quanto processo, la negoziazione riguarda prima di tutto la gestione del disturbo e della perturbazione. La vita di ogni gruppo o aggregazione sociale procede gestendo momenti e circostanze in cui alcune cose che prima erano scontate, a un certo punto non lo sono più. Arriva un momento in cui i saperi e le pratiche implicite non sono più scontate: a un certo punto interviene un attrito (friction) o un’irritazione (irritation).

Ci accorgiamo ad esempio che il sacramento della confessione non è più una prassi diffusa e consuetudinaria oppure che le relazioni intime e durature sono sempre meno vissute all’interno del matrimonio civile o sacramentale. Dare a questi indicatori il nome di crisi, generalizzare cioè la portata di questi eventi formulando teorie di decadimento morale o di mutamento assiale, sono tutte strategie che privano gli attori sociali di un loro diritto: gestire il disturbo e la perturbazione nella vita quotidiana, senza che altri decretino, per loro, che questa irritazione sia propriamente una crisi.

Il paradigma accademico e intellettuale della secolarizzazione diventa oggi inutilizzabile e sterile per queste ragioni: la secolarizzazione come dispositivo diagnostico aleggia sopra la testa degli attori, ignora la loro agency, decretando, senza interpellarli, che il loro mondo è entrato in una fase critica. La processualità come negoziazione invece viene da me interpretata come la risposta “popolare” alle teorie elitarie ed erudite della secolarizzazione. Lasciamo che il popolo di Dio gestisca come può le proprie perturbazioni, i disturbi della vita ordinaria, senza caricarlo di compiti titanici o imprese apocalittiche.

La negoziazione infatti è il modo ordinario e culturalmente incarnato con cui ogni comunità, gruppo o associazione gestisce le difficoltà presenti nell’esecuzione pratica di ogni gesto sociale. Ogni impresa sociale (una riunione, una lezione, una processione religiosa) porta un carico ordinario e ammissibile di irritazione, di frizioni e attriti. Tra l’ideale della riunione, della lezione o della processione e la loro esecuzione si apre lo spazio vitale della negoziazione, uno spazio fecondo in cui la pluralità ambivalente ed esuberante dei significati possibili è un segno della grazia, non della crisi. Una chiesa che colloca se stessa nell’orizzonte della processualità riscopre la negoziazione dei significati sociali come un momento costitutivo della propria vita.

Alla luce delle quattro declinazioni della processualità ecclesiale appena esaminate, vorrei sottolineare due possibili proposte di lavoro ecclesiale e di approfondimento teologico per il tempo a venire. La prima riguarda il ruolo della teologia e dei teologi in una chiesa che riscopre la dimensione processuale. Ritengo che la “svolta processuale”, se così vogliamo chiamarla per comodità di comprensione, sia il proseguimento e lo sviluppo di ciò che la “svolta culturale” (cultural turn) ha rappresentato per le scienze sociali e per la teologia stessa.

Se in dialogo con i cultural studies la teologia ha scoperto l’importanza di studiare i testi culturali (textum), in dialogo con le scienze della processualità, la teologia scopre l’importanza di studiare le opere collettive di tessitura (texture). Ogni testo culturale è un textum (prodotto oggettivabile perché è stato tessuto ovvero finito) e allo stesso tempo un’esperienza di tessitura (operazione stessa del tessere). Sono le pratiche di tessitura che attribuiscono una speciale qualità e danno un sapore unico a ogni realtà culturale (si pensi alla texture nel senso di peculiarità gustosa di una pietanza).

Per me la questione più rilevante è come cambiano le funzioni e la postura dello studioso, dunque anche dei teologi e delle teologhe, rispetto alla preminenza dei testi o delle opere di tessitura. Lo studio dei testi in quanto opere prodotte e definite richiede che il lavoro del teologo sia simile a quello del traduttore, dell’esegeta o dell’iconografo. Lo studio delle molteplici operazioni di tessitura culturale e di creazione di nuovi assemblaggi sociali, di nuove forme del “noi” richiede invece che la figura del teologo sia più simile a quella del collaboratore, del curatore o del corrispondente[6]. In altri termini, una chiesa sinodale ha bisogno di pratiche teologiche che assolvano al compito di collaborare con il popolo di Dio, di curare i processi di formazione in quanto processi abilitanti per tutti i battezzati, di corrispondere con tutti i battezzati mentre procedono insieme, aspettandosi gli uni gli altri.

Per attuare questo compito non basteranno le risorse cognitive e intellettuali delle teologie o delle “scienze sociali texturali”. Il processo sinodale, nelle forme in cui sarà in grado di trasformare la vita stessa delle chiese, ha bisogno di risorse culturali. Credo che stiamo discutendo ancora troppo poco sulle risorse culturali della sinodalità nei contesti nazionali, regionali e continentali in cui la chiesa cattolica è presente.

Mi riferisco alle pratiche tradizionali, attualmente vive e operative, attraverso le quali interi popoli gestiscono ancora oggi spazi e pratiche di collaborazione, di ascolto qualificato, di partecipazione democratico-deliberativa. Faccio solo un esempio: la minga, per le popolazioni indigenze di molti paesi latinoamericani, è ancora oggi una forma di lavoro collettivo basato sulla reciprocità delle prestazioni e orientato al benessere della comunità. Nella minga si offrono e si promettono prestazioni lavorative pianificate collettivamente attraverso riunioni e incontri tra tutti membri. La sinodalità non può prescindere da queste risorse culturali che non possono essere ignorate nella riformulazione dei processi decisionali all’interno delle chiese. Si corre altrimenti il rischio di una “sinodalità esculturata” o di una “sinodalità coloniale” che viene calata dall’alto e che non è capace di germinare nei contesti culturali tradizionali in cui la chiesa è diffusa.

Alla prova delle forme di vita

La processualità impone alla chiesa un cambiamento di visione non solo nei riguardi di se stessa e delle proprie strutture, ma soprattutto nella gestione delle cosiddette “forme di vita”. Stando alla definizione offerta dalla filosofia tedesca Rahel Jaeggi, le forme di vita sono «ordinamenti della convivenza umana»[7], insiemi complessi di pratiche sociali, modellate dalla cultura e finalizzate alla risoluzione di problemi.

La famiglia nucleare borghese è un esempio di forma di vita, così come lo è la vita urbana o metropolitana degli individui moderni. Le forme di vita dunque dipendono dal contesto socioculturale in cui emergono e allo stesso tempo contribuiscono a definirlo o ridefinirlo. Per questa ragione le forme di vita sono costituite normativamente, non sono cioè il regno dell’arbitrio personale, ma sono contesti in cui l’agire delle persone è vincolato ad aspettative sociali che veicolano carichi più o meno vincolanti di normatività.

Ritengo che per le realtà ecclesiali confrontarsi con le forme di vita significhi interagire in maniera appropriata con le persone e allo stesso tempo con le culture, con gli individui e allo stesso tempo con i collettivi. Molti snodi critici nell’ambito della teologia pubblica che hanno interessato anche il pontificato di Francesco, sono legati all’incapacità ecclesiale di rinvenire un terzo elemento ovvero un medium tra gli stili di vita da un lato e gli stati di vita dall’altro.

Gli stili o le condotte di vita dipendono da decisioni personali e arbitrarie che non sollevano pretese normative sulle condotte altrui. «Condurre la prioria vita è qualcosa che si fa, mentre le forme di vita fanno riferimento a un contesto in cui si vive e sulla base del quale si agisce»[8]. Nelle realtà ecclesiali all’opposto degli “stili di vita” sembrano esserci gli “stati di vita” ovvero condizioni permanenti di vita, definite normativamente dal diritto o dall’ordinamento gerarchico della chiesa stessa (vita laicale, consacrata e sacerdotale).

La mia tesi è che, pur tra numerose difficoltà e polemiche, il pontificato di Francesco abbia aperto le condizioni per riformulare un’ecclesiologia fondamentale e una teologia pubblica in cui il discorso ecclesiale si concentri sulle forme di vita e non più sulla polarità tra stili di vita personali su cui non si può giudicare e stati di vita in quanto ordini e condizioni predefinite dal diritto stesso. Aggiungo inoltre la proposta secondo cui proprio la trattazione delle forme di vita all’interno dei contesti ecclesiali potrebbe diventare il terreno di prova della svolta processuale della chiesa stessa.

Una chiesa che agisce e pensa processualmente si misura soprattutto su come agisce e pensa a proposito delle forme di vita. Alcuni tra i dibattiti più accesi che hanno scandito il pontificato di Francesco come quello intorno al capitolo ottavo di Amoris laetitia o quello più recente scaturito dalla pubblicazione di Fiducia supplicans, denunciano un’immaturità ecclesiale nel trattare adeguatamente la dimensione pubblica, culturale e normativa delle forme di vita. Le forme di vita infatti, non sono condizioni statiche, ma hanno una storia culturale che deve essere costantemente ripercorsa e ricostruita per poter rendere le forme di vita sempre più abitabili.

La famiglia nucleare borghese ad esempio si fonda sull’autonomia economica e sull’autodeterminazione personale della nuova famiglia rispetto a quella di provenienza. L’autonomia e la libertà di chi esce dalla casa dei propri genitori, autonomia che si esplicita anche nella libera scelta del proprio partner, sono questioni culturalmente interne alla famiglia borghese in quanto forma di vita. Pertanto le scelte di vita delle persone LGBTQ+ riguardano culturalmente la forma di vita della famiglia borghese, ne sono parte, fanno parte cioè della stessa storia sociale e culturale.

Per le chiese concentrarsi sulle forme di vita può significare ad esempio passare da una logica dell’accoglienza delle persone LGBTQ+ a una logica dell’implicazione ovvero del riconoscimento di quanto tali persone siano già attualmente implicate nel corpo ecclesiale. Le persone omoaffettive che si professano cattoliche ad esempio sono quasi sempre persone battezzate che non si collocano all’esterno o ai confini della chiesa, essendo già implicate nei vissuti ecclesiali, vivono e operano nelle parrocchie e nei movimenti ecclesiali (sono catechisti e catechiste, capi scout, membri di un consiglio pastorale).

Eppure queste persone sono destinate a nascondersi nelle pieghe ovvero nelle pliche (implicate) della stessa vita comunitaria. La questione non è includere o accogliere le persone omoaffettive, ma dischiudere lo spazio vitale e pubblico di quelle pieghe. Lavorare culturalmente sulle forme di vita è necessario alla stessa vita ecclesiale per passare da una logica dell’irregolarità a una logica dell’implicazione. Ancora meglio, per andare da una logica dell’irregolarità a una logica dell’implicazione senza passare dalle retoriche paternalistiche dell’accoglienza e dell’integrazione. Ritengo che per svolgere bene questa impresa, gli strumenti teorici più utili e aggiornati siano quelli maturati all’interno del femminismo intersezionale.

Attraverso il pensiero dell’intersezionalità infatti è possibile accorgersi che le condizioni di oppressione degli altri sono sempre implicate con quelle che ciascuno può riscontrare nella propria forma di vita. Alla luce del paradigma intersezionale è possibile prendere atto che le differenze di gruppo sono sempre intersecate e che, anche all’interno dello stesso gruppo sociale, ci sono sempre individui più oppressi di altri[9].

Forme di vita: spazi di apprendimento

Come abbiamo visto in anni recenti, il rischio di una continua battaglia o polarizzazione intraecclesiale sulla legittimità delle forme di vita sembra essere alto. Ritengo che tale rischio potrebbe essere contenuto nella misura in cui le forme di vita vengono intese prima di tutto come spazi di apprendimento e non come campi di identificazione o di rivendicazione. In altri termini, le forme di vita sono esperimenti.

Questo significa maturare uno sguardo, anche ecclesiale, sulle forme di vita in quanto realtà complesse in cui sperimentiamo risposte nuove a problemi nuovi. Le forme di vita dunque sono palestre in cui gli individui si esercitano in dinamiche di apprendimento sociale. Secondo Rahel Jaeggi una dinamica di apprendimento sociale è razionale se «non blocca le esperienze presenti né quelle future, se è in grado di portarsi al livello dei problemi attuali e se permette l’integrazione narrativa del passato»[10].

In una chiesa che incorpora la processualità nelle proprie strutture e nell’autocomprensione comunitaria, la questione più rilevante non è la rimozione del “nuovo”, bensì la rimozione dello “sperimentale”. Le forme di vita sono importanti perché solo il luogo in cui prendiamo atto di avere un’identità sociale e che tale identità si plasma costantemente attraverso esperimenti, tentativi, aggiustamenti e improvvisazioni. Il grande rimosso nella storia della chiesa moderna non è l’estremismo polarizzante, bensì lo sperimentale strutturante.

Nella chiesa così come nelle società moderne è possibile sperimentare, ma solo se la sperimentazione viene relegata nell’ambito dell’immaturità o dell’apprendistato. Al discepolo e al novizio viene concesso un certo grado di sperimentazione, quando però l’individuo passa all’età cosiddetta adulta, la sperimentazione deve essere occultata. Ritengo che la rimozione sistematica e strutturale della dimensione sperimentale nei processi di formazione umana sia all’origine delle condotte abusanti nella stessa chiesa cattolica. Sarebbe interessante scandagliare negli anni a venire la relazione tra gli abusi e il confinamento dello sperimentale nella pre-maturità delle biografie personali.

Sperimentare significa dunque «trovare la strada dentro situazioni umane che non si comprendono appieno»[11]. Nella tradizione della modernità questa non è più una cosa “da grandi”, è invece una cosa concessa soltanto ai bambini o ai poeti. Come ho provato a dimostrare nella prima parte di questo contributo, il lessico della processualità (corrispondenza, aggiustamento, improvvisazione, negoziazione) è anche il lessico della sperimentazione. Sperimentare infatti non significa procedere a tentoni nella vita, ma far parte di una storia di apprendimento, che è allo stesso tempo sia personale che sociale.

Sperimentare inoltre significa essere in grado di ricostruire e interpretare riflessivamente tale storia. Sperimentare non significa semplicemente avere una storia di cadute e rinascite, ma significa anche essere capaci di ritornare riflessivamente sulla propria storia di cadute e rinascite, ricostruendone la trama. Per i cristiani infatti quella trama è il luogo in cui Dio manifesta la sua presenza nella storia dei viventi. Il riferimento primario per tutto questo ovvero il deposito pratico e teologico per una chiesa che non rimuove lo sperimentale può essere rinvenuto nella tradizione monastica.

Per definizione il monaco è colui che cade e si rialza, che fa di questo movimento un esercizio continuo, ma soprattutto il monaco è in grado di ritornare sulla sequenza di questi gesti, egli è capace di organizzare tale sequenza nella forma di una storia ovvero di una narrazione perché in questa narrazione è possibile toccare la stessa carne di Dio. Oggi il grande rischio della vita religiosa è relativizzare la radice ascetico-monastica da cui in qualche modo proviene, per ridurre la “forma di vita” a un ossificato “stato di vita”. Per una chiesa sinodale che interiorizza gli orientamenti della processualità, la tradizione monastica rappresenta una fonte di ispirazione primaria, ancora quasi del tutto ignorata.

Sperimentazione

La sperimentazione dunque non è una concessione che le persone adulte fanno ai più giovani, così come non è un permesso che le istituzioni più antiche e mature concedono a quelle più recenti. Uno dei più incisivi e radicali cambiamenti di prospettiva nella chiesa di Francesco consiste nell’aver reso possibile la rappresentazione di una chiesa che apprende ovvero di una chiesa in stato di apprendimento.

Questo è l’inizio di un cammino, aperto dal pontificato di Francesco, ma in attesa di un lungo lavoro teologico ed ecclesiale. Potrei sintetizzarlo così: una chiesa che valorizza al proprio interno e a più livelli le posture e le pratiche di apprendimento è anche in grado di “far vedere” questo compito e di “farsi vedere” mentre lo svolge. Una chiesa che apprende e sperimenta in silenzio, ma non nascostamente. Una chiesa che non avverte più la sperimentazione processuale della vita come una cosa da bambini o da folli.

C’è stato un momento, per me massimamente significativo ed emblematico, nel pontificato di Francesco in cui questa sfida avrebbe potuto trasformarsi in un grande cantiere ecclesiale, mi riferisco alla pubblicazione della Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium sulla riforma degli studi ecclesiastici. Il proemio di quel documento avrebbe potuto avere una portata ben più ampia rispetto all’ambito delle università cattoliche e pontificie, se fosse diventato un pre-testo per integrare l’apprendimento non solo nella riflessione accademica, ma anche nelle pratiche ecclesiali ovvero non solo nei percorsi di formazione universitaria.

La riflessione sull’inter e transdisciplinarità avrebbe potuto essere un’occasione di sperimentazione dinamica anche per le pratiche di formazione umana nelle chiese. La necessità di uno studio interdisciplinare non riguarda oggi soltanto gli studenti e le studentesse universitarie, perché l’interdisciplinarità è un modo per allestire ambienti di apprendimento, non solo programmi e cicli accademici. Interdisciplinari sono i contesti di lavoro e di ricerca, così come transdisciplinari sono le persone, non solo gli studenti, che attraversano i campi del sapere, le professioni e le stesse forme di vita.

Se è vero che le forme di vita sono luoghi di sperimentazione e di apprendimento, allora sarà un compito ecclesiale immaginare una pedagogia istituente per il futuro. Immaginare cioè modi e pratiche di una chiesa che apprende, in cui è possibile modificare l’istituzione nel momento stesso in cui apprendiamo o sperimentiamo insieme. Si tratta, in altri termini, di aggiornare il discorso inaugurato da Paolo VI con Ecclesiam Suam: passare cioè dal paradigma del “dialogo con il mondo” al paradigma del “cambiamento sociale in quanto luogo di apprendimento per tutti”, anche per l’intero popolo di Dio.


[1] N. Dusi, «Sociosemiotica», in M. Cometa, Dizionario degli studi culturali, Meltemi, Roma 2004, pp. 380-387.

[2] T. Ingold, Antropologia come educazione, La linea, Bologna 2019, p. 88.

[3] Cf. E. Landowski, Rischiare nelle interazioni, Franco Angeli, Milano 2010.

[4] S. Wells, Improvisation. The Drama of Christian Ethics, Baker Academic, Grand Rapids (MI) 2018, p. XI.

[5] D. Sparti, Fra due. Etica ed estetica dell’improvvisazione, Meltemi, Roma 2023, p. 93.

[6] Cf. E. de la Fuente, “After the cultural turn: For a textural sociology”, in The Sociological Review, 2029, Vol.67(3), pp. 552-564.

[7] R. Jaeggi, Critica delle forme di vita, Mimesis, Milano-Udine 2021, p. 79.

[8] Ead., p. 73.

[9] Cf. G. Serughetti, La società esiste, Laterza, Roma-Bari 2023, p. 86.

[10] R. Jaeggi, Critica delle forme di vita, p. 404.

[11] Y. Engeström, Apprendimento espansivo. Un approccio teorico dell’attività per la ricerca sullo sviluppo, Armando, Roma 2020, p. 163.

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3 Commenti

  1. Mauro 16 novembre 2024
  2. Marco 16 novembre 2024
  3. Carlo Truzzi 14 novembre 2024

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