Era il 17 settembre del 1974 quando, intervenendo nel corso di un dibattito alla festa dell’Unità, Pier Paolo Pasolini spiegava due dei motivi di fondo della vittoria di Donald Trump – 50 anni e due mesi dopo. Quella sera Pasolini parlò di un argomento molto importante, il genocidio, ma quello senza sangue, senza morti.
Quello di cui parlò era il genocidio culturale: «Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia — la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese — hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia. Come avviene questa sostituzione di valori? lo sostengo che oggi essa avviene clandestinamente, attraverso una sorta di persuasione occulta». I tre esempi che fa poco dopo sono sorprendenti, drammatici, evidenti.
Per esempio, c’è il modello che presiede a un certo edonismo interclassista, il quale impone ai giovani che incoscientemente lo imitano, di adeguarsi nel comportamento, nel vestire, nelle scarpe, nel modo di pettinarsi o di sorridere, nell’agire o nel gestire a ciò che vedono nella pubblicità dei grandi prodotti industriali: pubblicità che si riferisce, quasi razzisticamente, al modo di vita piccolo-borghese. I risultati sono evidentemente penosi, perché un giovane povero di Roma non è ancora in grado di realizzare questi modelli, e ciò crea in lui ansie e frustrazioni che lo portano alle soglie della nevrosi.
Oppure, c’è il modello della falsa tolleranza, della permissività. Nelle grandi città e nelle campagne del centro-sud vigeva ancora un certo tipo di morale popolare, piuttosto libero, certo, ma con tabù che erano suoi e non della borghesia, non l’ipocrisia, ad esempio, ma semplicemente una sorta di codice a cui tutto il popolo si atteneva. A un certo punto il potere ha avuto bisogno di un tipo diverso di suddito, che fosse prima di tutto un consumatore, e non era un consumatore perfetto se non gli si concedeva una certa permissività in campo sessuale. Ma anche a questo modello il giovane dell’Italia arretrata cerca di adeguarsi in modo goffo, disperato e sempre nevrotizzante.
O infine un terzo modello, quello che io chiamo dell’afasia, della perdita della capacità linguistica. Tutta l’Italia centro-meridionale aveva proprie tradizioni regionali, o cittadine, di una lingua viva, di un dialetto che era rigenerato da continue invenzioni, e all’interno di questo dialetto, di gerghi ricchi – di invenzioni quasi poetiche: a cui contribuivano tutti, giorno per giorno, ogni serata nasceva una battuta nuova, una spiritosaggine, una parola imprevista; c’era una meravigliosa vitalità linguistica.
Il modello messo ora lì dalla classe dominante li ha bloccati linguisticamente: a Roma, per esempio, non si è più capaci di inventare, si è caduti in una specie di nevrosi afasica; o si parla una lingua finta, che non conosce difficoltà e resistenze, come se tutto fosse facilmente parlabile – ci si esprime come nei libri stampati – oppure si arriva addirittura alla vera e propria afasia nel senso clinico della parola; si è incapaci di inventare metafore e movimenti linguistici reali, quasi si mugola, o ci si danno spintoni, o si sghignazza senza saper dire altro.
Leggendo sembra di capire, finalmente, quel che ci accade intorno da anni, ma che non tutti, almeno io e forse qualcun altro, avevamo capito così compiutamente. A questo punto dobbiamo citare quel che scriveva Pasolini cinquant’anni fa sulla scissione tra progresso e sviluppo.
La classe dominante ha scisso nettamente «progresso» e «sviluppo». Ad essa interessa solo lo sviluppo, perché solo da lì trae i suoi profitti. Bisogna farla una buona volta una distinzione drastica tra i due termini: «progresso» e «sviluppo». Si può concepire uno sviluppo senza progresso, cosa mostruosa che è quella che viviamo in circa due terzi d’Italia; ma in fondo si può concepire anche un progresso senza sviluppo, come accadrebbe se in certe zone contadine si applicassero nuovi modi di vita culturale e civile anche senza, o con un minimo di sviluppo materiale.
Il così detto “problema woke” di Kamala Harris in certo senso è qui e lo ritroviamo perfettamente in queste parole:
È in corso nel nostro paese, come ho detto, una sostituzione di valori e di modelli, sulla quale hanno avuto grande peso i mezzi di comunicazione di massa e in primo luogo la televisione. Con questo non sostengo affatto che tali mezzi siano in sé negativi: sono anzi d’accordo che potrebbero costituire un grande strumento di progresso culturale; ma finora sono stati, così come li hanno usati, un mezzo di spaventoso regresso, di sviluppo appunto senza progresso, di genocidio culturale per due terzi almeno degli italiani. Visti in questa luce, anche i risultati del 12 maggio contengono un elemento di ambiguità.
Secondo me ai «no» ha contribuito potentemente anche la televisione, che, ad esempio, in questi vent’anni ha nettamente svalutato ogni contenuto religioso: oh sì, abbiamo visto spesso il Papa benedire, i cardinali inaugurare, abbiamo visto processioni e funerali, ma erano fatti controproducenti ai fini della coscienza religiosa. Di fatto, avveniva invece, almeno a livello inconscio, un profondo processo di laicizzazione, che consegnava le masse del centro-sud al potere dei mass-media e attraverso questi all’ideologia reale del potere: all’edonismo del potere consumistico.
Colpisce leggere su un referendum che quasi tutti danno come valore acquisito una messa in discussione certo parziale, su un tipo di acquisizione consumistica. E così procede: Per questo mi è accaduto di dire – in maniera troppo violenta ed esagitata, forse – che nel «no» vi è una doppia anima: da una parte un progresso reale e cosciente; dall’altra un progresso falso, per cui l’italiano accetta il divorzio per le esigenze laicizzanti del potere borghese: perché chi accetta il divorzio è un buon consumatore. Ecco perché, per amore di Verità e per senso dolorosamente critico, io posso giungere anche a una previsione di tipo apocalittico, ed è questa: se dovesse prevalere, nella massa dei «no», la parte che vi ha avuto il potere, sarebbe la fine della nostra società.
Il punto è, a mio avviso, la scomparsa delle culture nelle quasi ci si ritrovava, cultura borghese, operaia e cultura contadina, e quella unica in cui ci ritroviamo oggi, la cultura consumistica. In un altro testo, dell’anno successivo, intervistato da Furio Colombo, Pasolini tornava sul discorso delle culture: “La cultura di una nazione è l’insieme di tutte queste culture di classe: è la media di esse.
E sarebbe dunque astratta se non fosse riconoscibile – o, per dir meglio, visibile – nel vissuto e nell’esistenziale, e se non avesse di conseguenza una dimensione pratica. Per molti secoli, in Italia, queste culture sono stato distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere.
A cosa è dovuta tale omologazione? Evidentemente a un nuovo Potere. Conosco, anche perché le vedo e le vivo, alcune caratteristiche di questo nuovo Potere ancora senza volto: per esempio il suo rifiuto del vecchio sanfedismo e del vecchio clericalismo, la sua decisione di abbandonare la Chiesa, la sua determinazione (coronata da successo) di trasformare contadini e sottoproletari in piccoli borghesi, e soprattutto la sua smania, per così dire cosmica, di attuare fino in fondo lo “Sviluppo: produrre e consumare”.
Poco dopo il discorso ci porta a qualcosa che sembra calzare al presunto bivio americano:
L’identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti “moderati”, dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all’edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. La conclusione è questa: Il suo fine è la riorganizzazione e l’omologazione brutalmente totalitaria del mondo.
Forse vale la pena pensarci.
Salve, sono arrivato a questa pagina dopo percorsi tortuosissimi (i più anticonsumistici, e promettenti – o forse invece i più parossistici, voraci, sgangherati). Una dubbio: gli elettori di Trump sono i compulsivi omologati ed eternamente delusi che votano per stizza, o sono la reazione del vecchio mondo al neoconsumismo pseudoilluministico? Non ha davvero nessuna importanza che metà degli elettori, pur liberal-liberisti, trovi insopportabili Trump e i suoi ?
Aveva già previsto l’invidia sociale generata dai social per chi non può permettersi continui selfie fra spritz, spiagge assolate e sorrisi botulinici.
Percepiva l’orrore consumistico avanzante come un profeta. Lo hanno ucciso senza pietà e ora l’orrore ci sovrasta.