In vista della Assemblea del prossimo 15-17 novembre, il tema della liturgia appare affrontato nei Lineamenti con una lettura che merita qualche chiarimento, in vista di un’elaborazione più adeguata per entrare nello Strumento di lavoro.
L’argomento appare affrontato nella seconda parte, con particolare attenzione al tema del linguaggio liturgico, e ancor più nella terza, con una riflessione sul tema dell’iniziazione. Può apparire sorprendente che sia nelle Premesse, che nella Prima parte, largamente dedicata al tema della “riforma della Chiesa”, non vi sia alcun cenno all’unica riforma effettivamente compiuta dopo il Concilio Vaticano II, ossia alla riforma liturgica.
Molto di ciò che viene detto (sull’azione rituale, sull’iniziazione, sulla pratica sacramentale) risente profondamente di questa grave dimenticanza. Esamino ora i passi più significativi e aggiungo poi una serie di osservazioni, per favorire una riflessione volta a sciogliere alcuni nodi.
Una breve presentazione dei testi
È anzitutto importante leggere insieme i nn. 21-22 del documento. Da un lato, infatti, al n. 21 si dice che la Chiesa “può anche cambiare linguaggio”, ma questo viene riferito al bisogno di un linguaggio “meno iniziatico”. Qui è evidente la tensione con il n. 22, dedicato interamente alla liturgia, dove si chiede, inevitabilmente, di rimediare al “divario” tra liturgia e vita mediante “seri cammini di iniziazione all’ordine simbolico”.
Da un lato, dunque, meno iniziazione, e, dall’altro, maggiore iniziazione. La provocazione si riflette nella soluzione offerta, che resta incerta: da un lato, non si deve nulla alterare del rito, dall’altro, occorre far entrare la vita della azione rituale. Il punto di arrivo del discorso nell’ambito delle proposte operative (cf. n.25), appare piuttosto faticoso e poco istruttivo. Lo riporto integralmente:
Curare la qualità celebrativa e l’efficacia comunicativa delle liturgie, a partire dalle omelie, attraverso iniziative di sostegno e di formazione per le diverse ministerialità liturgiche, al fine di attivare la partecipazione dei laici e di avvicinare la liturgia alla vita delle persone, in particolare a quelle con maggiori difficoltà dovute a disabilità fisiche o psicologiche, cultura differente, età, situazioni di vita; è necessario, inoltre, in collaborazione con la catechesi, favorire processi di iniziazione liturgica per aiutare i fedeli a porre e a comprendere il linguaggio liturgico.
Si sovrappongono quattro registri diversi, senza coordinamento: efficacia comunicativa, ministerialità, cura per le persone in difficoltà e iniziazione liturgica sul piano della catechesi. Come proposta operativa appare sostanzialmente disorientata e disorientante, priva di un centro unificante.
Al n. 27, di fronte alla constatazione che, in sequenza, battesimo, prima comunione e cresima non riescono più a iniziare, ma sono diventati “riti di congedo temporaneo”, talvolta illimitato, se ne deduce di dover passare da una proposta “prevalentemente dottrinale” ad una proposta “integrale”. L’integralità viene collocata nell’orizzonte del “sommario” con cui At 2,42 descrive la Chiesa primitiva: ascolto dell’insegnamento degli apostoli, comunione, frazione del pane e preghiera.
Nel suo svolgimento, tuttavia, questo riferimento ai 4 ambiti della vita ecclesiale viene svolto con alcune precisazioni non irrilevanti:
- primo luogo di formazione è l’ascolto della Parola di Dio
- secondo luogo è la cura per gli altri
- terzo luogo è la pratica dei sacramenti (dove viene messo in luce il valore formativo della pratica)
- quarto luogo la preghiera, soprattutto intesa come “interiorità”.
Il n. 28 dice apertamente come l’iniziazione non riguardi soltanto i “percorsi di catechesi”, ma implichi una conversione pastorale di tutta la comunità. Per far questo viene proposto un elenco di “metodi” (linguaggi, gioco, arte, via pulchritudinis, sport, visite a luoghi o persone…). Il ritmo può avvalersi forse più della scansione dell’anno liturgico che dell’anno scolastico. Ma l’anno liturgico è letto piuttosto in relazione alle soglie esistenziali (speranza, sacrificio, sofferenza, dono…).
La revisione dei cammini ai sacramenti e del percorso di iniziazione cristiana (n. 29) viene collocata in un orizzonte ampio di ripensamento della Chiesa come “grembo generativo”: non piccoli ritocchi, ma rilettura del rapporto tra crescita, sacramenti e vita.
Il modello “catecumenale” (30-32) viene presentato nei termini di un “ricominciare”, non come segno di ogni inizio. In un certo senso, si applica solo a casi particolari (fidanzati, genitori, coppie in condizioni irregolari o soggetti vulnerabili).
Stile spirituale è obiettivo condiviso, soprattutto per uscire dall’“amministrazione burocratica” e guadagnare la forma della “famiglia accogliente”.
Un rilievo particolare, nell’ambito di tutti i sacramenti, sembra assumere il sacramento della Riconciliazione (n. 36), di cui si rileva la necessità di un’accurata riconsiderazione, anche studiando un accesso più ampio alla “seconda” e alla “terza forma”.
Alcune osservazioni in vista dello Strumento di lavoro
Un dato importante, che caratterizza tutti gli 11 numeri dedicati al tema dell’iniziazione, (compreso il numero 22 dedicato alla liturgia) è l’esigenza di un “cambio di paradigma”. Ma la cautela nelle soluzioni presentate implica la necessità di alcune necessarie precisazioni.
In primo luogo, la tensione tra liturgia e vita, rilevata in modo sostanzioso, deve recuperare la correlazione tra riforma liturgica e iniziazione alla liturgia. Se si dimentica che tutti i riti sono stati oggetto di riforma negli ultimi 60 anni, perché la Chiesa possa essere riformata da soggetti che “partecipano attivamente” per ritus et preces, alle azioni rituali, questo deve diventare l’obiettivo della “formazione liturgica”, come indicato lucidamente da Desiderio desideravi. Non può esservi contraddizione tra “linguaggio iniziatico” e “iniziazione cristiana”: parlare nuovi linguaggi, efficaci e comunicativi, è possibile solo grazie ad una profonda iniziazione all’ordine simbolico e rituale della fede celebrata.
Il riferimento al “sommario” di At 2,42, che sancisce la lettura della iniziazione, può ricordare, inevitabilmente, la divisione in “settori” della pastorale di ogni curia: la catechesi (didaché), la comunione (caritas), la liturgia (frazione del pane e preghiera). Va detto, però, che tutti e quattro i termini proposti da Atti rientrano nella tradizione celebrativa: insegnamento della predicazione, comunione, frazione del pane e preghiera sono tutti momenti del rito cristiano dell’eucaristia. Per questo è necessario che il raccordo tra i 4 momenti non avvenga in modo burocratico o solo esperienziale, ma trovi unità simbolica e rituale.
Importante è l’ammissione che si trova nel cuore del n. 27:
Non si partecipa ai sacramenti perché si è giunti alla piena conoscenza del mistero, ma si cresce nella fede partecipando ai sacramenti.
Questa affermazione ha però bisogno di essere precisata: così come è espressa può dare motivo ad equivoci. Che cosa significa “partecipare ai sacramenti”? Qui è necessario precisare, allo stesso tempo, la relazione tra crescita nella fede, iniziazione e stile catecumenale, che altrimenti restano termini troppo generici. La frase ha buon diritto di sottolineare che il sacramento non è semplicemente “alla fine” di un percorso di “dottrina”, ma che sta dentro il cammino di crescita. Ma che cosa significa ciò?
Si tratta di precisare che “partecipare ai sacramenti” è un termine generico che indica l’“iniziazione all’eucaristia” e che esige una forma di presenza mediata da una competenza sui linguaggi dei riti e delle preghiere. Non a caso, svicolando da questo impegno, è più facile pensare che sia l’“omelia” (da sola) a reggere il regime comunicativo della messa. Qui vi è un errore di prospettiva piuttosto grave. Non solo le parole comunicano, ma l’intero impianto simbolico e rituale dell’azione liturgica.
Il punto di raccordo del cammino di iniziazione impone un cambiamento di terminologia fondamentale: proprio all’inizio del n. 27 si usa ancora, giustamente, la espressione “prima comunione”. Oggi si deve invece considerare centrale un cammino di “iniziazione all’eucaristia” come qualificante la persona, in cui si precisino tre aspetti:
- la logica catecumentale impone per tutti, giovani o adulti, che l’accesso all’eucaristia si collochi alla fine del percorso dell’iniziazione: la sequenza efficace sarà battesimo, cresima e eucaristia, come attestata per secoli nella storia almeno fino al 1930: il sacramento che si ripete deve essere alla fine, non a metà strada. La collocazione “mediana” era dovuta, prima del Concilio, alla visione della comunione come “atto privato di culto”, non come “rito eucaristico”. Qui occorre il coraggio di cambiare paradigma.
- la “pratica dei sacramenti” è, in realtà, almeno al 90%, celebrazione eucaristica: per questo l’unico sacramento destinato a ripetersi regolarmente merita la cura più attenta. E soprattutto merita che tutte le sue sequenze (ingresso, parola, presentazione dei doni e preghiera eucaristica, comunione e congedo) siano oggetto di specifica iniziazione, dei bambini come degli adulti. Sapere che alla Liturgia della Parola o alla Preghiera eucaristica si deve essere iniziati è un punto qualificante il cammino sinodale.
- Questo obiettivo suggerisce l’introduzione di una “gradualità” nell’accesso alla pienezza eucaristica da parte di candidati e famiglie. Le comunità possono (debbono) scoprire che accompagnare i nuovi membri al cuore della pratica sacramentale fa loro scoprire le ricchezze di ciò che celebrano: che radunarsi, ascoltare, portare doni, pregare, cantare, far silenzio si debbono imparare insieme, non sono “atti scontati”.
La scoperta della gradualità dell’accesso al “sacramento della comunione” permette di rilevare, in moltissime soglie, un rapporto strettissimo tra vita e rito: il radunarsi, il cantare insieme, la soglia silenziosa dell’ascolto, la parola ritmata col canto, il dono offerto, il dono benedetto e restituito, il diventare corpo di Cristo nella lode, il partecipare dell’unico pane e dell’unico calice sono forme esistenziali della scoperta di sé.
Costruiscono l’esperienza ecclesiale proprio per l’accuratezza con cui vengono vissute e presentate. Così, secondo At 2, ascolto della parola, comunione, frazione del pane e preghiera sono, allo stesso tempo, “componenti della liturgia” e “componenti della Chiesa”, forme del corpo di Cristo ecclesiale e passaggi necessari del corpo di Cristo sacramentale.
Il compito di iniziazione, che ha l’eucaristia come culmine, intesa come Chiesa e come sacramento, include anche il perdono del peccato. Il percorso spirituale esige il recupero di una capacità di perdonare che trova nella “virtù di penitenza” un dono battesimale che la vita eucaristica continuamente riscopre e rilancia. Qui il cambio di paradigma è particolarmente arduo: poiché la “riconciliazione”, da almeno 200 anni, pensiamo che stia tutta nel “IV sacramento” (nella confessione) e non la troviamo più nella vita battesimale e crismale che l’eucaristia rinnova ogni settimana e anche ogni giorno.
Non sono le diverse forme del IV sacramento, ma la riscoperta della virtù di penitenza l’oggetto di una cura ecclesiale che deve essere proposta, proprio a livello di iniziazione. Iniziare ogni cristiano cattolico alla penitenza come cuore della eucaristia fa parte del cambio di stile che è chiesto dal nostro tempo. Tematizzare la penitenza come contenuto battesimale ed eucaristico diventa una sfida, alla quale non si può rispondere facendo diventare il sacramento della penitenza quello che non è: ossia un sacramento dell’iniziazione. Detto in altri termini: l’iniziazione al perdono del peccato non può avvenire con il sacramento della confessione.
Una piccola annotazione aggiuntiva, ma non marginale, deve essere dedicata anche al mancato svolgimento di una riflessione sull’autorità femminile, facilmente risolta o con affermazioni di principio, con imbarazzati rimandi al Sinodo universale, o col ricorso all’espressione “leadership”, che mostra in modo trasparente l’irruzione di un linguaggio iniziatico di altri mondi (sociali o aziendali), rispetto a cui la Chiesa dovrebbe restare vigilante.
Le donne o sono autorevoli come gli uomini, o se vedono applicate solo per loro “parole inglesi”, devono preoccuparsi. In vista dello Strumento di lavoro, un’accurata correzione di questo linguaggio di risonanza aziendale sarebbe del tutto opportuna. La parità di trattamento vuole che si usino le stesse parole, per uomini e donne.
In conclusione: quello che in modo generico i Lineamenti chiamano “partecipare ai sacramenti” deve essere tradotto nell’iniziazione alla celebrazione eucaristica, che è sintesi di tutte le parole che At 2,42 utilizza per dire che cosa è vita ecclesiale. Iniziare ogni cristiano a partecipare attivamente alla celebrazione eucaristica domenicale significa dargli, gradualmente, gli strumenti per ascoltare la parola di Dio (didaché), per offrire il dono di sé (spezzare il pane), per pregare con gli altri (preghiere) e per prendersi cura dell’altro (comunione).
Questa preghiera di comunione, così compresa, non è solo interiore: anzi, è l’esteriorità del fratello e la smisurata iniziativa di grazia del Signore a sollecitarne una visione meno intima e più relazionale. Saper domandare, perdonare, lodare, rendere grazie e benedire è la competenza orante che l’iniziazione deve sviluppare e che sa generare, così, forme di vita, di comunicazione e di istituzione degne dei discepoli di Cristo, di uomini e donne graziati che possono lodare, rendere grazie e benedire, non vivendo più per sé stessi.
- Pubblicato sul blog dell’autore Come se non.
Molte idee e ben confuse .
E anche oggi si è detto che provvederemo a formare le persone affinché possano partecipare al meglio alla Liturgia.
(Vabbeh, poi nella prassi vediamo che anche laici che svolgono ministeri liturgici sono impreparati e improvvisano)