Diaconato permanente: tra memoria e oblio

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Sono trascorsi, in silenzio, 30 anni dalla pubblicazione, da parte della Conferenza episcopale italiana (CEI), del documento I diaconi permanenti nella Chiesa italiana. Orientamenti e norme (ON). Era il 1° giugno 1993.

I contenuti di “Orientamenti e norme”

Gli Orientamenti vengono alla luce dopo oltre vent’anni dalla restaurazione del diaconato permanente in Italia, mentre il numero degli ordinati si avvicinava al migliaio (oggi sono più di 4.600) e in un momento in cui si è approfondita la conoscenza di questo ministero, che aveva avuto ampia accoglienza nella quasi totalità delle diocesi italiane.

La CEI «riprende la riflessione e aggiorna gli indirizzi nell’intento di accompagnare… la crescita dell’apporto che il diaconato permanente è chiamato a offrire alle chiese particolari» (Introduzione).

Lo strumento scelto è un testo di carattere pastorale/normativo, che veniva approvato dall’assemblea generale della CEI nell’ottobre del 1992 al termine di un lavoro di tre anni di preparazione.

Infatti, una prima bozza del documento – dal titolo Orientamenti e norme per il ministero del Diaconato permanente – viene presentata all’esame del Consiglio episcopale permanente del 9-12 marzo 1992, che ha dato alcune utili indicazioni, in attesa che il documento venisse sottoposto alla riflessione e all’approvazione all’Assemblea della CEI.

Successivamente, il testo, con il titolo leggermente mutato – I diaconi permanenti nella Chiesa in Italia. Orientamenti e norme –e opportunamente rielaborato secondo i suggerimenti e le osservazioni offerti dai vescovi, è stato sottoposto all’esame della 36ª Assemblea Generale del 26-29 ottobre 1992, che lo approva.

Nel maggio del 1993 veniva concessa la recognitio da parte della Santa Sede.

L’aggiornamento, rispetto ai documenti del 1971-1972, riguarda soprattutto la formazione teologica e l’esercizio del ministero.

Il documento – scrivono i vescovi nell’introduzione – è «un ulteriore passo nel cammino del diaconato permanente in Italia» e, mentre sostituisce il precedente dal titolo La restaurazione del diaconato permanente in Italia, vuole essere un valido strumento per la crescita delle nostre Chiese e per la promozione della stessa coscienza diaconale di una Chiesa tutta ministeriale. È interessante cogliere come nel testo viene detto chiaramente che il diaconato è «un grado del sacramento dell’ordine e, come tale, imprime il carattere e infonde in chi lo riceve una grazia sacramentale specifica» (ON, 7).

Questa affermazione, che fa riferimento al testo conciliare Lumen gentium – «sostenuti dalla grazia sacramentale» – pone il diaconato in una particolare relazione con Cristo – che si è fatto – come diceva Policarpo – diacono di tutti». Pertanto, si afferma che «l’ordinazione sacramentale configura, secondo una modalità loro specifica, i diaconi a Gesù Cristo. Essi sono costituiti nella Chiesa come segno vivo di Gesù, Signore e servo di tutti… Sono chiamati ad esprimere, secondo la loro grazia specifica, la figura di Gesù Cristo servo» (ON, 7).

Si sottolinea, inoltre, la prospettiva missionaria della vita ecclesiale. Infatti, il ministero «del diaconato e il suo servizio devono essere visti in relazione ad una Chiesa che cresce nella consapevolezza di essere Chiesa missionaria, impegnata in cammini pastorali che, lungi dal ridursi ad un’opera di semplice conservazione, si aprono coraggiosamente alle sempre nuove sollecitazioni dello Spirito» (ON, 9).

Ne risultava così – come prima istanza – la necessità di far maturare nelle comunità quella che i documenti chiamano la “coscienza diaconale”, ovvero la consapevolezza della comunionalità che si traduce nella partecipazione e nella corresponsabilità a tutti i livelli e nelle sue diverse forme.

Inoltre, il «contesto idoneo alle vocazioni al diaconato è – scrivono i vescovi italiani – …una Chiesa intenta a discernere le vie per le quali il Signore la chiama a sostenere le responsabilità del Vangelo, a vivere e manifestare il mistero della comunione, a tradurre in opere e istituzioni le premure della carità e i diversi servizi pastorali» (Doc. CEI 1993, n. 10).

È questo, dunque, il terreno più proprio che i vescovi indicano per far sbocciare e coltivare le vocazioni al ministero diaconale.

Un secondo punto di riferimento, strettamente legato al precedente, riguarda la centralità che, nell’esercizio dei ministeri, acquista la Chiesa locale e particolare.

La CEI insiste sulla dimensione missionaria sia ordinaria sia “ad gentes”. Si presentava, quindi, un lavoro di evangelizzazione capillare che vedeva il diacono come promotore del senso comunitario e dello spirito familiare del popolo di Dio: era il progetto degli anni Settanta, in cui si prefigurava la possibilità di un’articolazione delle grandi parrocchie in “comunità minori” animate da un diacono.

Orientamenti e norme sviluppa, inoltre, il rapporto di reciprocità e lo stretto legame tra condizione del diaconato e condizione di Chiesa, tra modello di diaconato e modello di Chiesa, mettendo in risalto non solo che la presenza del diaconato può favorire un cammino di Chiesa più vivace e fecondo nella missione, ma anche un percorso inverso, cioè che il diaconato può dare i suoi frutti migliori nel contesto di progetti pastorali improntati a corresponsabilità e nei quali il ministro ordinato sia chiamato ad animare e a guidare – non a sostituire – la vivacità degli impulsi che lo Spirito suscita nel popolo di Dio (ON, 9).

Dopo cinque anni da Orientamenti e norme, il 22 febbraio 1998, festa della Cattedra di San Pietro, i due documenti – Ratio fundamentalis institutionis diaconorum permanentium e il Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti – venivano promulgati rispettivamente dalla Congregazione per il clero e dalla Congregazione per l’educazione cattolica.

Anche questi due documenti sono caduti nell’oblio.

L’importanza dei documenti

La novità è stata che essi sono stati pubblicati unitamente, pur conservando la propria identità e lo specifico valore giuridico, e si richiamano e integrano vicendevolmente in forza della loro logica continuità.

Inoltre, i due testi sono strati preparati per dare una risposta adeguata ai problemi di ordine teologico, pastorale e giuridico-amministrativo. Proprio per questo ad essi è stata premessa una Dichiarazione congiunta e un’Introduzione.

I documenti rispondono ad una urgenza da più parti avvertita, cioè quella di fare chiarezza e di regolamentare la diversità di esperienze che erano in atto sia a livello di discernimento e di preparazione, sia a livello di attuazione ministeriale e di formazione permanente.

Questa esigenza veniva motivata anche dal fatto che, a seguito del ripristino del diaconato voluto dal Vaticano II, in molte regioni ecclesiastiche si era verificata come un’esplosione di vocazioni diaconali, soprattutto nei paesi occidentali, segno dell’entusiasmo e delle speranze da esso suscitate.

In questo clima euforico, soprattutto in America e in Europa, non sono mancate approssimazioni, superficialità e soprattutto differenze anche notevoli nella formazione sia iniziale che permanente dei diaconi e nell’esercizio del loro ministero ecclesiale. Differenze che erano ben marcate non solo tra continente e continente, ma anche tra nazione e nazione e addirittura tra diocesi e diocesi di uno stesso Paese o di una stessa regione ecclesiastica.

Da qui la richiesta dei vescovi e degli stessi diaconi di avere delle linee-guida che, riservando alle singole Conferenze episcopali o ai singoli vescovi la determinazione delle caratteristiche proprie di ogni nazione o diocesi, offrissero delle indicazioni chiare sui principi generali ai quali attenersi, nel rispetto di quella comunione ecclesiale che è alla base del nostro essere Chiesa.

Dalle ben trecento note che accompagnano complessivamente i due documenti emerge come le Congregazioni si muovano nella linea di quanto è già stato consolidato dalla tradizione e di quanto già acclarato dal magistero della Chiesa. Da questo punto di vista si può dire “niente di nuovo che non fosse già stato detto”. Certo è che i due testi mettevano un po’ di ordine in materia e rivestivano una certa autorevolezza.

Le Congregazioni hanno dunque voluto dare quella “stabilità di indirizzi” che è garanzia di “indispensabile unità”, pur nella “legittima pluralità”.

Sicuramente si coglieva la consapevolezza che si era di fronte ad un ministero che in quegli anni aveva raccolto, nonostante tante difficoltà, “buoni frutti”, e apriva un valido apporto alla “nuova evangelizzazione, alle soglie del Terzo Millennio”.

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