Termino di leggere la biografia di Jacques Lacan, magistralmente scritta da Elisabeth Roudinesco[1] e mi sento invaso da una tempesta di pensieri che danzano intorno alla parola, alle parole, alle lingue e ai linguaggi, ai discorsi, alle narrazioni, alle prigioni dogmatiche e ai cimiteri ideologici.
E questo mi preoccupa, perché nasce in me una reazione poetica e teologica a secoli di filologia e di linguistica, fiumi immensi dei più diversi approcci alla questione: dai primi approcci al significato delle parole nella filosofia platonica fino alla psicoanalisi. Senza dimenticare i deliri linguistici di James Joyce, di William Burroughs e del nostro Guimarães Rosa: manomissione e manutenzione delle parole.
Ho avuto l’impressione che con Lacan si affermi chiaramente la convinzione, la fede, molto occidentale, della centralità delle parole nella condizione umana. È il sogno che le parole possano svelare verità, tradurre l’inconscio, aprire porte, svelare misteri, sciogliere nodi, spezzare catene, curare ferite e traumi, illuminare contraddizioni e guarire le malattie dell’io.
E, allo stesso tempo, abbiamo la consapevolezza di una certa limitazione e impotenza costitutiva, di fronte al male della vita degli esseri umani, destabilizzati dalla modernità che frammenta, confonde, ferisce, manipola, disciplina e controlla. L’io, una volta solido e familiare, sereno o armato, con il mondo, “si scioglie nell’aria”. L’antropologia del cristianesimo e, con essa, anche il cogito-sum cartesiano, non sono più egemonici.
Sembra che ci rimanga, come realtà incontestabile, una babele rizomatica (Guattari e Deleuze), radici multiple, che mescolano linee di continuità e linee di fuga, senza gerarchie e senza progettualità. È decretata la fine dell’io descritto come albero, come architettura ordinata, gerarchica e progettuale, E le parole sono inevitabilmente inscritte e perdute in questo rizoma. L’essere umano appare come una “macchina desiderante”, che si oppone all’ordine capitalistico con un atteggiamento costitutivamente rivoluzionario. Ma l’impressione che rimane è che l’unico valore ispiratore sia la sovversione. Nient’altro che sovversione.
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E così ricordo quando ero bambino e, ogni giorno, prima di andare a scuola, andavo a messa e facevo il chierichetto. Si celebrava la messa in latino, lingua con la quale già in quinta elementare cominciavamo a familiarizzare con lo studio dell’analisi logica: un’introduzione al latino che ci avrebbe accompagnato fino all’Università. In breve, capivamo il significato di quasi tutte le parole del formulario liturgico. Nel mio caso, però, la difficoltà di comprensione si manifestava con prepotenza, quando alla fine della Messa, il sacerdote leggeva ad alta voce la Gloria che stava alla sinistra dell’altare: i primi versetti del Vangelo di Giovanni.
In principio erat Verbum et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum… Et Verbum caro factum est, et habitavit in nobis. Un labirinto di parole in cui questo Verbum, ripetuto più volte, risuonava come un mistero incomprensibile. E non aveva senso chiedere spiegazioni al prete, perché continuava a guardarmi con un sorriso vagamente ironico per dirmi che ero un bambino, troppo piccolo per domande di queste dimensioni.
È ovvio che tutti noi rimaniamo bambini sedotti e curiosi, meritevoli di quegli sguardi benevoli e ironici, quando interroghiamo, in silenzio, il Verbum che per Giovanni non è uno dei tanti nomi possibili dell’ineffabile IHWH, ma è sicuramente IHWH stesso: Dabar, la Parola pronunciata per creare tutto ciò che esiste. Al teologo Giovanni si deve la migrazione di tutti i dabar, di tutto il parlare di Dio nel Primo Testamento della persona di Gesù di Nazareth, il Verbo, che non solo crea l’universo, ma ci sorprende con l’identificazione corporea con l’universo da lui stesso creato.
Una parola che non si può dire – ineffabile – ma che, allo stesso tempo, ci parla e, parlando, ci costituisce. Una parola che dice e fa l’universo e i suoi discorsi. Una parola che viene prima dei fatti e degli eventi, delle parole e delle lingue: apparentemente assente, è presente, quasi contraddicendosi come ascolto del grido di dolore degli oppressi, che rinvia chi possa pronunciare parole di vita e di liberazione in suo nome.
Parola fonte di tutte le lingue e di tutti i discorsi. Parola che invita all’uso delle parole, che non contraddica la sua fonte. E tutte le lingue, naturalmente soprattutto quelle che sono orgogliose delle loro radici cristiane, sono così invitate al discernimento: possono vivere nella Luce, nella Bellezza gloriosa e amorevole del Verbum risorto, che porta ancora le ferite della crocifissione.
Oppure possono scegliere – tradendo il Dabar-Logos-Verbum – la versione metafisica e razionalista del Logos seminata dal pensiero greco. Oppure possono, in strategie minimaliste, ridurre i linguaggi e i discorsi alla mera strumentalità della descrizione e dell’informazione, un contesto già ampiamente presente nella nostra storia, ben prima dell’arrivo degli algoritmi di intelligenza artificiale.
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Giorgio Agamben di recente[2] ci ha ricordato una tragedia che, per il momento, non sembra interpellare gli intellettuali occidentali: «E, se gli ebrei sono o almeno erano parte della cultura europea, è bene ricordare le parole di Scholem di fronte alla secolarizzazione, operata dal sionismo, di una lingua sacra in una lingua nazionale: “Noi viviamo nella nostra lingua come dei ciechi che camminano sull’orlo di un abisso… Questa lingua è gravida di catastrofi… verrà il giorno in cui essa si rivolterà contro coloro che la parlano”».
In queste considerazioni, c’è anche un messaggio prezioso per noi. Ci viene detto che il cristianesimo non può essere definito semplicemente come la religione del libro, della parola rivelata e scritta, perché fondamentale per il discepolato è una persona, il Verbo fatto carne, la Parola, l’unico compagno necessario per entrare nel dialogo tra la vita e le parole della Scrittura.
Fatta la premessa che la Lettera agli Ebrei è innocentemente responsabile delle successive deformazioni teologico-pastorali dell’esegesi tipologica che hanno trasformato il laico Gesù di Nazareth in sacerdote ed eletto l’interpretazione della Pasqua in termini sacrificali a cardine della teologia cattolica, troviamo qui una perla preziosa in 4,12-13, che ci dice: «Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto». Sembra evidente che l’autore non sta parlando della parola scritta: sta parlando del Dabar-Logos-Verbum, della persona stessa del Crocifisso-Risorto.
Il nostro silenzio offra ogni giorno occasioni di ascolto a questa Parola silenziosa e ineffabile che si è identificata con l’essere umano, le sue gioie e i suoi dolori, i suoi limiti e le sue impotenze, e continua silenziosamente ad accompagnarci più intima delle nostre intimità. Una Parola che continua a farsi carne nella nostra esistenza, nella nostra storia, riproponendo la pratica del suo Vangelo che libera i poveri e ispira, con la Pasqua, i cammini del Regno della Vita e della Giustizia.
[1] Roudinesco Elisabeth, Jacques Lacan. Schizzo di una vita, storia di un sistema di pensiero, São Paulo, Companhia das Letras 2008.
[2] Quodlibet, Una voce, 11 ottobre 2024, Giorgio Agamben, Popoli che hanno perduto la lingua.