Cosa resterà dei Cinque stelle

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conte e grillo

Giuseppe Conte negli studi della RAI, 1 ottobre 2024 (Photo by Roberto Monaldo / LaPresse)

Fin dal video di presentazione del grande processo di democrazia deliberativa avviato nei mesi scorsi, Giuseppe Conte ha messo ben in chiaro qual è l’obiettivo politico più rilevante: stabilire chi comanda sul Movimento Cinque stelle, se lui o Beppe Grillo. O meglio, se al presidente indicato dal garante – cioè Conte – è consentito organizzare la base del Movimento per fare cose diverse e opposte rispetto a quelle che il garante – cioè Grillo – vuole.

Conte ha poi dato la disdetta al contratto annuale da 300.000 euro per la «comunicazione» che il Movimento ha pagato a Grillo negli ultimi anni a fronte di prestazioni non chiare, ma che determinava un ribaltamento di ruoli. Un garante che è anche collaboratore ben pagato del Movimento su cui deve vigilare.

L’assemblea costituente del Movimento Cinque stelle che si tiene a Roma il 23 e il 24 novembre è uno strano tipo di evento, dalla doppia natura. È sia un momento ri-fondativo, nel quale tutto viene rimesso in discussione, dal modello organizzativo al nome al programma alle alleanze, sia il confronto tra due piattaforme politiche, diciamo così, e due leader. Un non-congresso per un non-partito, che in realtà è un congresso di un partito.

Giuseppe Conte contro Beppe Grillo che, sul suo blog ormai sganciato dal Movimento, ha lanciato l’iniziativa «riprendiamoci le nostre battaglie», un riferimento proprio ai temi storici del Movimento che ora non sono più caratterizzanti. Dalla legalità alla sostenibilità.

Su cosa è lo scontro

Quale sia la piattaforma di Conte non è chiarissimo. Sulla base delle scelte degli ultimi anni, si potrebbe riassumere così: collocazione nel centrosinistra, in una posizione non subalterna al PD, pronto a riempire tutti gli spazi politici che la collocazione più istituzionale del PD lascia scoperti (pacifismo, anti-americanismo, attenzione alle fasce più deboli).

Però lo stesso Conte sembra soffrire questo posizionamento che – visti i numeri nelle urne – condanna il Movimento a rimanere sempre in secondo piano rispetto al PD, e pare rimpiangere la stagione populista da «avvocato del popolo», in omaggio ai vecchi tempi (2018-2019) ha salutato con entusiasmo la rielezione di Trump.

Di Beppe Grillo i disegni sono ancora meno intellegibili. Sempre ostile a ogni alleanza, poi ha appoggiato le alleanze con tutti i partiti del Parlamento (tranne Fratelli d’Italia), fino all’ingresso nel governo Draghi nel febbraio 2021, nonostante l’ostilità di Conte. Oggi Grillo cosa vuole? Anche i suoi ex estimatori lo trattano come se la sua tenacia a difendere gli ultimi punti caratterizzanti dei Cinque stelle fosse sintomo di un declino senile alla Biden.

Ma se ai Cinque stelle togli Grillo, il limite ai due mandati che impedisce l’affermarsi di una classe di politici di professione, e introduci tesseramento, sezioni, e una vera dirigenza, cosa resta a distinguerli dagli altri partiti?

Federico Pizzarotti nel 2012 è diventato il primo sindaco importante dei Cinque stelle, a Parma, poi si è scontrato con i vertici del Movimento su questioni pratiche, di governo, come la costruzione di un inceneritore. Nel 2016 lascia il Movimento dopo la rottura con Beppe Grillo.

I Cinque stelle di oggi, spiega Pizzarotti, non assomigliano a quelli di lotta delle origini e neppure a quelli di governo pragmatico che proprio con la sua giunta sono nati, «Non sono simili a nessuno dei due anzi sono la versione peggiore come somma dei due perché da una parte fanno i governisti dei quali hanno assorbito tutti i difetti, dall’altra fanno gli irriducibili scegliendo temi scartati da altri soltanto per convenienza elettorale».

Il risultato quindi è che «si pongono sempre in contrapposizione agli altri comunque le elezioni in Emilia-Romagna hanno ben rappresentato».

Il declino elettorale

In effetti a vedere i dati dell’Emilia-Romagna, ma anche dell’Umbria e prima ancora della Liguria diventa inevitabile ripensare alla definizione dei Cinque stelle come «partito biodegradabile», che secondo Beppe Grillo dovevano interpretare una richiesta di cambiamento ma poi essere riassorbiti dal sistema dopo aver fatto la loro parte.

dati elettorali

Un partito che in poco più di un decennio passa da zero a 24,6 per cento al 3,6 delle regionali di domenica e lunedì è difficile da classificare come un partito normale e permanente.

Le Sardine, una versione aggiornata dei Cinque stelle, nel 2020 hanno favorito l’affluenza alle regionali che sembravano più combattute, hanno favorito la vittoria all’epoca di Stefano Bonaccini, ma poi sono svanite.

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I Cinque stelle resistono, durante la stagione del PD a guida Elly Schlein che è disposto ad accoglierli in coalizione, si sono presentati come necessari per vincere, anche se non sempre sufficienti, vedi in Liguria dove Andrea Orlando ha perso anche per l’astensione degli elettori a Cinque stelle.

L’erosione dei consensi sta continuando al punto che non è detto che rimangano necessari a lungo, però, e questo può creare ulteriori tensioni nella sempre incerta coalizione di centrosinistra che deve essere molto larga per risultare competitiva con il centrodestra.

Salvatore Vassallo, professore di Scienza politica all’Università di Bologna e direttore dell’Istituto Cattaneo che ha pubblicato come sempre accurate analisi del voto alle regionali, spiega che in realtà i Cinque stelle sono ancora necessari per il centrosinistra, anche se non sufficienti:

«Sono necessari ma non in tutte le regioni, a certamente in quelle in bilico è sicuramente a livello nazionale dove continueranno a rimanere almeno per un po’ di tempo intorno al 10 per cento del lettorato; però non sono sufficienti perché senza l’apporto di un’area elettorale che sta a destra del Partito democratico la coalizione non è competitiva».

Si è visto anche in Umbria, dove è stata la candidata del centrosinistra Stefania Proietti – civica, capace di andare oltre il centrosinistra di riferimento del PD – ad allargare la coalizione, non certo i Cinque stelle, passati dall’8,9 per cento delle europee al 4,7 delle regionali.

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Poche idee ma vaghe

A leggere i quesiti sui quali si dovranno pronunciare gli iscritti al Movimento durante l’assemblea costituente si capisce che c’è un problema di identità nei Cinque stelle che va ben oltre le alleanze.

Molti dei punti usciti da una procedura complessa che ha coinvolto iscritti, simpatizzanti, online e in gruppi in presenza sorteggiati, sono così generici che qualunque partito del centrosinistra potrebbe condividerli.

Non c’è una proposta forte e caratterizzante come quella del reddito di cittadinanza dieci anni fa.

Per quello che sono riuscito a capire, l’unica posizione netta caratterizzante è quella sulla pace, cioè una generica ostilità al coinvolgimento dell’Italia in azioni militari all’estero. Anche se poi a leggere il documento nel dettaglio si trovano proposte molto meno nette. Gli iscritti dovranno per esempio votare sull’opportunità di un esercito europeo, qualcosa che non è assolutamente in discussione e che neppure i Paesi più ostili alla Russia propongono.

Non c’è la richiesta di uscire dalla NATO, ma quella di «approfondire le funzioni e le finalità della NATO e il ruolo che l’Italia riveste al suo interno», e neppure si pensa di cancellare le sanzioni alla Russia, all’Iran o al Venezuela, Paesi con i quali i Cinque stelle hanno avuto rapporti ondivaghi.

Si chiede soltanto di «rivedere il sistema delle sanzioni, che devono essere un mezzo e non un fine, in modo da renderlo ancora più efficace», qualunque cosa questo significhi.

Insomma, la vera scelta dell’assemblea costituente è se gli iscritti vogliano trasformare il Movimento Cinque stelle di Beppe Grillo in un soggetto dal nome da decidere plasmato a misura di Giuseppe Conte. Con quali contenuti, alleanze e ambizioni e soprattutto con quanti voti alle elezioni non è molto chiaro.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 22 novembre 2024

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