Giubileo 2025: misericordia e speranza

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Misericordia e speranza: lo spirito giubilare. «Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre». Questo era – come si ricorderà – il solenne esordio della Bolla d’indizione del Giubileo straordinario della misericordia (11 aprile, Vigilia della II domenica di Pasqua o della Divina Misericordia, dell’Anno del Signore 2015, terzo di pontificato di papa Francesco).

Nella scia dell’eremita Pietro da Morrone, si raccoglieva, in qualche modo, la “perdonanza della misericordia”, che papa san Celestino V aveva voluto concedere a quanti si fossero recati nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che il suo successore, papa Bonifacio VIII, istituisse il primo Anno Santo della storia cristiana, che ne rilanciava i medesimi intenti.

Con la Bolla Inter sanctorum sollemnia – detta anche Perdonanza – fu concessa, infatti, la prima indulgenza plenaria di tipo “giubilare” a tutti i fedeli che avessero visitato la chiesa di S. Maria di Collemaggio a l’Aquila, dai Vespri precedenti la memoria della decollazione di san Giovanni Battista – 28 agosto – ai Vespri della successiva medesima festa, 29 agosto.

Anche se la Perdonanza di papa Celestino V sarà presto abrogata dal successore, papa Bonifacio VIII, il 18 agosto 1295, egli se ne farà comunque ispirare per l’istituzione dei Giubilei, il primo dei quali si celebrò, appunto, il 25 marzo 1300, con cadenza a quel tempo prevista ogni 100 anni.

Clemente VI, nel 1342, lo portò a ogni 50 anni e Paolo II, nel 1470, lo cadenzò ogni 25 anni.

Un memorabile inizio di un perdono generale fu quello che dovette allora “colpire” l’intera cristianità, dunque anche la fantasia e l’intelligenza di Dante Alighieri, il quale ambientò, proprio nel Triduo pasquale di quel primo anno giubilare, il suo viaggio nell’oltretomba.

Dalla misericordia alla speranza e, dalla speranza, ai segni di speranza

Non è un caso che la grazia giubilare della misericordia, aprendoci ora, alla vigilia del nuovo Anno Santo, particolarmente alle opere di misericordia e di speranza, rilanci significativamente – come leggiamo nella Bolla d’indizione dell’Anno Santo del 2025 – la figura dei Missionari della misericordia.

Il loro «ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con cuore aperto e animo pentito» (Spes non confundit, n. 23), continuerà, perciò, a incentivare, anche in questo primo Giubileo del terzo millennio, tutti gli «strumenti di riconciliazione» e di aiuto, al fine di «guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre» (ivi).

La speranza nel cuore, tuttavia, prima che uno sforzo umano, resta una virtù dall’alto. L’Anno Santo del 2025 ci addita, infatti, «la speranza cristiana», di cui la Vergine Maria, Madre della speranza, sarà opportunamente la «più alta testimone» (n. 24).

È un atteggiamento e una virtù teologale, la speranza, la quale «consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, “la vita non è tolta, ma trasformata”» [Messale Romano, Prefazio dei defunti I.], per sempre» (Spes non confundit n. 21). Ne conseguono tanti segni di speranza, nella convinzione che «le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine» (Spes non confundit, n. 11).

Perciò la Bolla d’indizione del Giubileo del 2025, fa appello a «tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero», ovvero ci rende tutti «corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo» (n. 17).

Ci vengono additati i «martiri, che, saldi nella fede in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro Signore» (n. 20).

Si elencano testualmente, altresì, tanti altri segni di speranza:

  • in carcere, perché esso divenga per i reclusi «un simbolo che invita a guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita» (n. 10);
  • con «gli ammalati» (n. 11);
  • con i giovani, posto che della speranza «hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani» (n. 12);
  • con i «migranti, che abbandonano la loro terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie» (n. 13);
  • con «gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di abbandono» (n. 14);
  • con i «miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario per vivere» (n. 15).
Segni di speranza per rivitalizzare il passato e il presente

Se «la forza della speranza» è in grado di «riempire il nostro presente» (Spes non confundit, paragrafo conclusivo, n. 25), lo è soprattutto perché essa è in grado di rivitalizzare anche il nostro passato, apparentemente così distante e lontano. Un passato che incombe nell’oggi, posto che esso fu un tempo in cui la fede non era un optional e la sua stessa formulazione non era certamente un così è se vi pare.

Si spiega, così, il ricordo, peculiare e notevole, che la Bolla d’indizione ci propone in occasione dei «1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio ecumenico, quello di Nicea» (n. 17).

Quel concilio ecumenico, da papa Francesco, in ottica giubilare, viene significativamente ricordato come «una pietra miliare nella storia della Chiesa» (n. 17), o anche come «un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile» (ivi), avendo a suo tempo Nicea primo, tra l’altro, trattato, nei suoi canoni, «anche della datazione della Pasqua» (ivi).

Qual è, dunque, questa non secondaria connessione, tracciata chiaramente dalla Bolla di indizione del primo Giubileo del terzo millennio, tra il tema della speranza e la memoria attiva del concilio ecumenico di Nicea primo? E che cosa, quindi, dovremo noi, cristiani d’oggi, recuperare a tutto tondo da quel lontano evento del 325, nel corso dell’Anno Santo del terzo millennio?

Vi è una risposta precisa nella Bolla: l’«urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel mondo» (n. 17).

Evangelizzare Cristo è, del resto, il compito urgente e perenne del nuovo popolo cristiano che contribuisce, con i Pastori, a precisare non soltanto la prassi delle opere di misericordia e dei pellegrinaggi, ma il senso stesso della fede creduta, affinché divenga davvero vita vissuta nella speranza.

Non è anche questo il significato di quel segno ecumenico del concilio di Nicea primo, che oggi ci viene così esplicitamente additato?

In varie zone dell’Impero romano, a partire dal 320, i cosiddetti ariani o arriani (seguaci di un presbitero di Alessandria, di nome Ario) avevano introdotto una controversia, sia teologica che politica, che incendierà, piuttosto che il polmone occidentale della Chiesa, tutto l’Oriente, al punto da richiedere addirittura l’intervento dell’imperatore Costantino.

Convocando Costantino (non il papa di Roma) un concilio generale a Nicea nel 325, s’intendeva, da parte del potere imperiale, rispondere ai compiti propri di un imperatore, che era anche “pontefice”, nel senso che egli si auto-percepiva allora come correlatore di diversità e unificatore delle differenze, come devono fare, appunto, i costruttori di ponti, alla lettera i pontefici.

Il potere imperiale voleva allora arginare un contenzioso dottrinale, sviluppatosi pericolosamente tra vescovi e membri del clero, ma allo scopo di riportare pace e unità nei due polmoni dell’impero, lacerato da una controversia denominata, appunto, ariana.

Da parte loro, i vescovi, riuniti nel 325 in concilio a Nicea in Bitinia (oggi Iznik, Turchia), oppongono un possibile argine alle tante novità emergenti qui e là in materia di fede, che finivano per costituire un grandissimo pericolo per la fede (gravissimum fidei periculum), ma soprattutto per la sua corretta enunciazione, posto che la fede creduta comporta sempre dei riverberi sulla vita vissuta.

La formula di fede e i canoni di Nicea

E tuttavia, almeno fino alla metà del secolo IV, quella controversia, così vivace nelle zone orientali dell’impero, rimarrà quasi sconosciuta ai pastori occidentali, i quali conoscono appena l’esistenza di un concilio celebrato a Nicea.[1] Una formula di fede, detta “dei 318 padri”, infatti, era stata sottoscritta a Nicea da un numero imprecisato di vescovi, ma prevalentemente delle Chiese orientali, dove più aspra ardeva la controversia dottrinale.

Il numero tradizionale di 318 è quasi certamente simbolico, nel senso che allude all’episodio biblico che avvenne alle querce di Mamre, allorché Abramo, prima di incrociare Melchisedek, viene per la prima volta chiamato l’ebreo e risulta dal testo sacro presentato come un generale di un racconto epico: «Un fuggiasco venne ad avvertire Abram l’Ebreo, che si trovava alle Querce di Mamre l’Amorreo, fratello di Escol e fratello di Aner, i quali erano alleati di Abram. Quando Abram seppe che suo fratello era stato preso prigioniero, organizzò i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto, e si diede all’inseguimento fino a Dan. Fece delle squadre, lui e i suoi servi, contro di loro, li sconfisse di notte e li inseguì fino a Coba, a settentrione di Damasco. Recuperò così tutti i beni e anche Lot suo fratello, i suoi beni, con le donne e il popolo» (Gn 14,13-16).

Una lotta per la retta fede

Dopo la professione di fede in Dio Padre e Creatore, la formula adottata nel Credo di Nicea del 325, proclama solennemente, al plurale: «Crediamo in un solo Signore, Gesù Cristo, figlio di Dio, generato, unigenito, dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre [secondo i Greci: consustanziale], mediante il quale sono state fatte tutte le cose, sia quelle che sono in cielo, che quelle che sono sulla terra».

Nella successiva, lunga e tormentata, discussione tra interpretazioni corrette e scorrette della fede cristologica, che si svilupperà non solo tra le forze imperiali, ma anche tra i pastori d’Oriente, prima che di Occidente, si distinguerà, tra gli altri, il vescovo di Poitiers, Ilario.

Costui, mandato in esilio in zone orientali, verrà a conoscere, appunto, esattamente i termini della controversia, sia dottrinale che interpretativa, che si era frattanto sviluppata intorno all’esatto senso da attribuire a quel passaggio cristologico del Simbolo di Nicea primo, relativamente al Figlio, generato, non creato, della stessa ousìa del Padre.

Per questo motivo, egli viene considerato, dagli storici del cristianesimo, sia l’esponente più in vista tra i vescovi occidentali (giustamente è stato definito l’Atanasio dell’Occidente), sia il mediatore più informato e accreditato tra l’Oriente, prevalentemente filo-ariano, e l’Occidente che, invece, seguiva tendenzialmente il Credo di Nicea.[2]

Da parte sua, il pur devoto imperatore Costantino, dopo il concilio di Nicea, condannerà Atanasio (che è il difensore della formula di Nicea ed è uno dei tre che ce ne conserva il resoconto, insieme con Eusebio di Cesarea e Marcello di Ancira), e addirittura riabiliterà Ario, nel 335.

A sua volta, l’imperatore Costanzo perseguirà una politica esplicitamente filo-ariana, che diverrà ancora più esplicita negli anni successivi ai due concili, occidentale e orientale, da lui stesso voluti, parallelamente a Rimini (per i vescovi occidentali) e a Seleucia (per i vescovi orientali).

Si sviluppa, insomma, un processo generale di trasformazione delle Chiese che, da perseguitate, vanno ormai diventando addirittura imperiali.

La scarsa incidenza e diffusione delle decisioni nicene, che erano state condensate nel Simbolo (chiamato dalla tradizione anche Professione di fede dei 318 padri) e in 20 canoni, ruotava soprattutto intorno alla problematica e controversa utilizzazione di un termine: per la prima volta, infatti, un termine non biblico, ma filosofico, era inserito nella professione di fede! Quel termine “tecnico” era homooùsios (a Nicea la lingua ufficiale era il greco): un vocabolo, peraltro, discusso anche tra gli stessi vescovi orientali, che oggi, nelle attuali riformulazioni liturgiche italiane del Credo, noi rendiamo con l’espressione “della stessa sostanza del Padre”.

Questo spiega perché quasi unico difensore occidentale della controversa dottrina cristologica di Nicea fosse rimasto, in Oriente, Atanasio il quale, dal 328, è proprio il vescovo di Alessandria d’Egitto (dove si era generata la controversia linguistico-dottrinale) e, in Occidente, il già citato Ilario di Poitiers.

Saranno gli esili di Atanasio anche in zone occidentali, dovuti a motivi politici oltre che teologici, e gli esili di Ilario in Oriente, a far sì che anche il papa di Roma, cioè Giulio (337-352), potesse finalmente venire a conoscere i termini esatti della rilevante vertenza linguistica e dottrinale circa la retta fede cristologica sottoscritta dai mitici 318 a Nicea.

Il papa deciderà, infine, di difendere le formule di fede di Atanasio; ma frattanto si era sviluppato un vero e proprio incendio dottrinale, che poneva in dissidio Chiese e vescovi, pastori e fedeli, per circa cento anni. Inutili a pacificare le opposte posizioni, a motivo delle resistenze sia orientali che occidentali, saranno le progressive e successive convocazioni conciliari di Roma (340), di Antiochia (341) e di Serdica (342-343).

Professare la fede nella speranza

I 1700 anni della formula di Nicea, che solennemente ricorderemo nel corso del primo Giubileo del terzo millennio, non vanno considerati soltanto una citazione erudita della Bolla pontificia.

Certo, in Occidente, Ilario di Poitiers, nella sua opera I Sinodi, al paragrafo 91 scriveva: «Fidem nicaenam numquam nisi exsulaturus audivi», cioè: non ho mai sentito la professione di fede decisa a Nicea, in Oriente, se non quando fui mandato via dalla mia diocesi di Poitiers.

Solo dopo essere stato esiliato, infatti, egli poté ascoltare in Frigia (un territorio corrispondente anch’esso all’attuale Turchia) la veneranda formulazione di fede del 325: “generato, non creato, della stessa ousìa del Padre”. Una figura di vescovo-mediatore, insomma, tra Occidente e Oriente.

Egli diviene, ai nostri occhi, una forza propulsiva di speranza anche nell’imminente anno giubilare, che ci chiede esplicitamente di dar forza alla speranza per preservare l’unità.

Ma tutto questo richiede di riscoprire non tanto la “militanza” cristiana o di accettare la “sfida dottrinale”, come, con un pericoloso linguaggio bellicista, si legge ancora, talvolta, in alcuni commenti.

Si tratta, piuttosto, di riscoprire discussioni e posizioni, che si svolgevano nell’orizzonte di una lettura competente e sentita della Bibbia che – com’è stato scritto – resta «un libro sovversivo perché ti impone di andare alla ricerca del segreto della vita che la fede certamente illumina, ma a corrente alternata e mai senza farti nascere delle domande».[3]

Saremo in grado di verificare se vi sia ancora, in mezzo a noi, un’opportunità di speranza giubilare che vada, cioè, nella direzione di una lettura competente e “provocatoria” della Bibbia, in grado di suscitare delle domande di ordine teorico e pratico, non tanto di formulare dei dubia?

Saremo ancora in grado di far accadere, nel nostro mondo e nella nostra comunità ecclesiale, qualcosa che abbia a che fare con la carica sovversiva della formulazione della retta fede/speranza cristologica, senza scadere in una certa banalità che talvolta imperversa nelle nostre chiese e, ahimé, perfino nelle nostre aule teologiche?

Se occorre anche rendere ragione della speranza che è in noi (1Pt 3,15), bisognerà guardare, nell’ottica descritta, i nuovi confronti, pratici e dottrinali, tra cristiani dei due polmoni (occidentale e orientale) della stessa Chiesa di Roma e i cristiani delle Chiese ortodosse.

La Bolla d’indizione del Giubileo, in merito, incoraggia esplicitamente, proprio in riferimento – in particolare – ai fedeli delle Chiese orientali, un movimento giubilare di accoglienza di coloro che, con le antichissime liturgie, la teologia e la spiritualità dei Padri, monaci e teologi «sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità» (n. 5).

I dinamismi controcorrente di accoglienza, e non di innalzamento di barriere o nuovi muri, sono altrettanti segni di speranza, nella convinzione che sacra Scriptura cum legente crescit, ovvero, parafrasando, i confronti, anche quelli sulle formule, fanno “crescere” la Bibbia insieme con coloro che la leggono nella luce giubilare.

Ma tali segni passano anche attraverso i dinamismi, lenti, ma rigorosi, delle messe a punto e delle riformulazioni dottrinali – cose antiche e cose nuove –, che i “padroni di casa” (cioè papa, vescovi e senso dei fedeli), sono chiamati a trarre oggi dal tesoro della storia delle Chiese, dei cristianesimi e dei concili (cf. Mt 13,51).


[1] Cf. M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo (Studia Ephemeridis “Augustinianum” 11), Roma 1975.

[2] A. Orazzo, Introduzione, in Ilario di Poitiers, La Trinità/1; La Trinità/2, Introduzione, traduzione e note a cura di Antonio Orazzo, Città Nuova, Roma 2011, vol. 1,5.

[3] M. Perroni, Colloqui non più possibili con Michela Murgia, Prefazione di Antonio Autiero, Piemme, Casale Monferrato 2024, p. 44.

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