Ciò che si presenta come debolezza è, in realtà, una grande opportunità che ci offre lo Spirito perché i nostri carismi parlino, siano eloquenti, provochino una trasformazione. Con questa premessa, il claretiano spagnolo Luis Alberto Gonzalo ha iniziato il suo intervento al V Convegno Latinoamericano e caraibico della Vita Religiosa organizzato dalla CLAR (Confederazione Latinoamericana dei religiosi), intitolato “Quando sono debole, allora sono forte”, linee-guida per «ricominciare» in quello che egli considera «un tempo privilegiato di speranza», nonostante i segnali allarmanti che appaiono all’orizzonte.
Tenutosi dal 22 al 24 novembre a Córdoba (Argentina), questo convegno è considerato «il più universale della vita consacrata, anche per il numero dei partecipanti in presenza e online». Insieme al dottore in Teologia della vita consacrata e professore di Teologia comunitaria all’ITVR di Madrid, Luis Alberto Gonzalo, hanno partecipato anche Sol Prieto, Fernando Falcó, Michael Moore e Rafael Luciani, che hanno affrontato «le speranze e le mancanze di speranza concrete che attraversano la VR nel nostro continente latinoamericano e caraibico».
«Spesso si presenta la sempre minacciosa sicurezza di ieri che mette in questione ogni tentativo di innovazione. Ogni proposta di novità» – ha osservato Gonzalo nella sua relazione –, indicando come «la vita consacrata, che non fa parte della struttura gerarchica della Chiesa (il nostro carattere è il carisma), soffra di un certo immobilismo di fronte a qualsiasi proposta di comunione che susciti o liberi la riflessione sinodale sulla sinodalità».
«È sconcertante e paradossale come gli infiniti tentativi di rinnovamento si siano ridotti a tentativi scritti, con la sensazione in non pochi consacrati di vuoto», probabile conseguenza – ha aggiunto Gonzalo – «di una debolezza antropologica, ma non illudiamoci, essa è anche una debolezza strutturale di tutta la vita consacrata e di ciascuna famiglia in particolare».
Ritorno all’essenzialità
Di fronte a ciò, il religioso claretiano ha spiegato come «il ritorno all’essenzialità ci induca a trovare opzioni e decisioni nette per Dio e per l’umanità, superando i modi con cui ciò è stato fatto nei diversi periodi della storia», cosa che «ci porta a trovare il fondamento della liberazione di ogni consacrazione, per superare i condizionamenti socio-culturali che non di rado l’hanno nascosto o oscurato».
«Questo esercizio di essenzialità è profondamente spirituale», ha sottolineato Gonzalo. «Per questo è profondamente efficace. Non sono principi teorici per conservare, sono decisioni evangeliche per rischiare. Ci parla fondamentalmente di minorità, segno, consegna, inserimento, verità e orizzontalità. Curiosamente, per questo principio di essenzialità, è imprescindibile un esercizio di memoria».
È molto eloquente e doloroso come, davanti a una realtà inappellabile e grave come la certezza che le nostre istituzioni sono “convissute” con alcune manifestazioni di abuso, ci sia ancora chi ritiene che il nostro stile di vita subisca una persecuzione da parte di coloro che hanno rivelato questa piaga.
Dovremmo imparare che siamo in permanente costruzione.
«Dovremmo dimenticare che il miglioramento comunitario sia questione di forza di volontà o della somma di “potere” e di conoscenza», ha detto Gonzalo, perché così scopriremmo che una nuova cultura sinodale e una leadership testimoniale sono essenziali per il cambiamento». La cultura sinodale «ci permette di ricollocarci vocazionalmente nel cuore del popolo di Dio e, in missione, nel cuore dell’umanità».
«Dovremmo dimenticare – ha proseguito – che leadership significhi parlare bene e avere risposte per tutto, per capire che il leader o la leader sono anzitutto una persona che cerca di servire e lo fa in base alla coerenza tra quello che dice e quello che fa». «Dovremmo imparare con urgenza che la leadership è un esercizio di attenzione alla pluralità che non può che attingere, nel nostro caso, dal principio evangelico del discepolato, che è ciò che garantisce una visione di carità necessaria per tutti, non solo per alcuni».
Nella stessa linea, il professor Gonzalo ha sottolineato che la vita religiosa «dovrebbe sbarazzarsi o far scomparire il concetto di comunità come penitenza, intesa come orario, sforzo e routine», perché «questi pseudovalori si sono talmente integrati al punto che per molti consacrati l’evidente mancanza di gioia in comunità indica la loro fatica di vivere con gli altri o con le altre. La vita comunitaria è vocazione, identità, stile di vita e capacità di vivere con spontaneità e flessibilità con gli altri».
Cominciare di nuovo
Oltre a questo «lasciar cadere», ci dovrebbe essere un nuovo inizio, un «ricominciare», «perché solo dimenticando il copione della nostra storia recente ci apriremo a una nuova storia dei nostri carismi chiamati a essere contemporanei dei nostri fratelli e sorelle del secolo XXI».
«Sarà questa debolezza, intesa come dono dello Spirito, a rendere possibile una nuova lettura dei carismi aperti al futuro. Alleggerendo i modi e gli stili; decodificando buona parte dell’intreccio legale su cui poggia la consacrazione, i carismi si presentano come doni semplici, capaci di interpellare e di illuminare una realtà nuova, per la quale sono pronti».
«Nascono così tempi nuovi. Tempi di speranza di fronte ad ogni perdita di speranza», ha garantito il religioso. «Sono tempi di comunione e di dialogo. Sono tempi di cammino fatto insieme. Di nuova comunità. Perché la grande novità di questa appassionante tappa della storia è che, finalmente, possiamo leggere gli avvenimenti e la vita nell’ottica della prima predicazione, del libero cammino del discepolato, della complementarità senza esclusione. Sono tempi per una visione olistica e piena, per non cadere nel riduzionismo e, finalmente, per mettersi in cammino e uscire da dove siamo».
Cambiare i vecchi armadi
«Molte volte parliamo di missione chiedendoci dove dobbiamo andare. In realtà, la domanda per questo momento storico è cosa dobbiamo lasciare entrare. La vita consacrata non deve continuare a formulare elenchi di desideri senza avere il coraggio di non cambiare nulla dei vecchi armadi che sono nelle sue comunità. In primo luogo, anzitutto, questo Spirito agile e libero ci chiede di lasciar perdere, svuotarci, acquistare libertà, tornare a innamorarci dell’Alleanza… “sarai il mio popolo, io sarò il tuo Dio”… E scoprire che questo ci basta», ha osservato Gonzalo.
Sulla stessa linea, il relatore ha dichiarato: «Prima di inoltrarci su una strada piena di vita, con i suoi rumori e colori, egoismi e amori, dobbiamo dire nel silenzio delle nostre case come parliamo con Dio e come parliamo di Lui. Questa è la riscoperta del carisma».
In questo modo «cesseremo di occuparci sterilmente di orari e di riunioni, di assenze e di presenze, di cariche e di incarichi; smetteremo di compiere sterili battaglie di voti e capitoli, perché gusteremo la libertà che un giorno ci ha indotti a lasciarci dietro una vita e un popolo, e oggi essere persone nuove, solo discepoli».
«La debolezza della vita consacrata – ha concluso – non significa irrilevanza, significa fede, capacità di confidare nel Signore del cammino e non tanto nei percorsi che abbiamo già compiuto. Significa comprendere la nostra vocazione come la forma più agile di sequela per ascoltare; più pronta a discernere e più libera per collaborare nella complementarità all’interno del santo popolo fedele di Dio. Perché questa è la nostra ragion d’essere, assolutamente liberi per amare»
- Pubblicato su Religion Digital, 23.11.2024.