Intervista a Gianni Alioti già sindacalista di FIM-CISL nel settore dell’industria delle armi e del suo export, ora attivista di The Weapon Watch. Gianni è tra i promotori della mobilitazione seguita al voto parlamentare di approvazione del progetto dei cacciabombardieri di sesta generazione (qui).
- Caro Gianni, da dove viene il tuo impegno su questa materia, delicata e così poco nota ai più?
Dal ’78, da sindacalista nel territorio di Sestri Ponente – dove c’erano diverse aziende collegate alla produzione militare -, mi occupo di questa materia di cui, appunto, ben poco vengono a sapere i cittadini. In quegli anni, come sindacalisti, ci ponevamo il problema della conversione dell’industria militare in civile, con la salvaguardia dei posti di lavoro e con una seria considerazione dell’aspetto etico, perché lavorare per produrre armi non è la stessa cosa che produrre altri beni.
Da lì sono divenuto un ricercatore della materia a livello internazionale. Da quando sono in pensione ho più tempo per dedicarmici, con passione.
- Cos’è The Weapon Watch di cui sei animatore?
È un osservatorio sul transito delle armi nei porti europei e mediterranei, in supporto alle mobilitazioni di quella parte dei lavoratori portuali che, per ragioni etiche, di coscienza, sono contrari ad avere parte ai traffici che sono realizzati in violazione esplicita delle leggi vigenti.
Nel 2019, a Genova, con i lavoratori del porto, siamo riusciti a bloccare l’invio di un carico di sistemi e apparecchiature ad uso bellico indirizzato in Arabia Saudita per la guerra in Yemen, non compatibile, quindi, con la legge italiana in merito.
Il transito delle armi riesce, quasi sempre, ad aggirare la normativa, benché quella italiana sia sufficientemente chiara.
- Non dovrebbero intervenire le autorità competenti?
Poche volte siamo stati aiutati nella nostra azione dai soggetti che dovrebbero reprimere il transito e il commercio illegale di armi: ricordo una volta in cui un trasferimento di armi dalla Turchia alla Libia – nel febbraio 2020 – è stato fermato; ma in quel caso erano intervenuti persino i servizi segreti francesi.
Oggi, anche quando i lavoratori protestano, guardia di finanza, polizia, carabinieri, istituzioni varie, non intervengono, benché quella roba non potrebbe andare ad alimentare Paesi in guerra, come dice chiaramente la legge italiana.
- Questo vale anche per i Paesi in guerra in Medioriente ed Europa dell’est?
Certamente sì, per le armi che transitano verso Israele, la Libia, la Siria o Yemen. Per il trasferimento di armi in Ucraina il discorso è diverso, perché c’è un accordo politico con il Paese. Il resto avviene in barba alla legge italiana e internazionale.
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- Dunque, come va il mercato delle armi di questi tempi?
Va di conserva con le guerre: tante guerre tante armi. Il mercato è quanto mai fiorente. Sino a qualche anno fa, neppure si immaginava. C’era stato il covid e si diceva – lo dicevano ragguardevoli istituti anglo-americani – che la spesa degli stati sarebbe andata sulla sanità. Invece c’è stata l’impennata della spesa pubblica nel settore militare, in particolare per gli armamenti. Un rapporto di Greenpeace del novembre 2023 mostra come la spesa dal 2014 al 2023 in Europa sia cresciuta del 43%, la spesa specifica in armamenti del 270%. Papa Francesco ha detto: “Vergogna!”.
- Cos’è il programma GCAP oggetto dell’appello che, con altri e altre, hai presentato?
Il GCAP – Global Combact Air Programme – è nato in Gran Bretagna dalla iniziativa della “BAE Systems”, la più grande azienda multinazionale del settore in Europa, la sesta al mondo per fatturato militare in assoluto. Questa azienda è collegata all’industria militare italiana attraverso la “Leonardo”, azienda a partecipazione statale – ex Fimeccanica – che è azionista della azienda missilistica europea MBDA, insieme alla “BAE Systems” e alla “Airbus” franco-spagnola-tedesca. Al GCAP ha aderito, con Gran Bretagna e Italia, anche il Giappone con la sua azienda di riferimento: la “Mitsubishi”.
Il programma è ancora nella sua fase di ideazione, non si è ancora entrati in Italia nella fase vera di progettazione e siamo ancora ben lontani dalla ingegnerizzazione e industrializzazione del prodotto, ossia dal caccia di sesta generazione.
L’idea europea insegue quella già concepita e, solo in parte sviluppata, dall’industria americana: solo in parte perché gli americani si sono posti in una pausa di riflessione: i costi del futuribile caccia di sesta generazione stanno infatti lievitando enormemente e non è detto che, alla fine, questo caccia sia davvero utile.
- Ci fai capire che cos’è un caccia di sesta generazione?
I cacciabombardieri ad oggi più tecnologicamente avanzati sono, appunto, quelli di quinta generazione: gli F35 per intenderci. Almeno la sigla dovrebbe risultare nota, perché è spesso citata. L’Italia da diversi anni si sta dotando di F35 attraverso un programma d’acquisto approvato di 90 aerei, dalla “Lockeed Martin” americana.
Il caccia di sesta generazione dovrebbe superare i limiti che gli F35 starebbero mostrando e, naturalmente secondo l’ottica militare, migliorare le potenzialità di combattimento aereo.
- Qual è la vostra obiezione?
Il GCAP è un programma ancora nebuloso e totalmente in divenire, talmente in divenire che non si ha un’idea di quanto possa venire a costare. La nostra obiezione, quindi, non è neppure antimilitarista di principio, bensì molto pragmatica: perché l’Italia – con i soldi dei contribuenti italiani – dovrebbe ipotecare miliardi di euro, da ora e per i prossimi anni, senza neppure sapere dove si vada a parare, in quanto tempo, per quali scopi militari, insomma per un pozzo di soldi senza fondo? Piuttosto, che si apportino innovazioni all’esistente!
- Quanti soldi sono già stati stanziati e in che modo?
Per la sola fase di ideazione l’Italia ha stanziato 7 miliardi e mezzo di euro circa. Non sappiamo con precisione quanto mettono Gran Bretagna e Giappone, ma è presumibile una partecipazione paritetica. La Gran Bretagna però è partita prima, ed ha già speso soldi suoi. La spesa dei 7 miliardi e mezzo dell’Italia è prevista in più anni, ma in maniera vincolata.
I soldi vanno all’insieme delle aziende di riferimento, incaricate di realizzare il programma. In dicembre – quindi a giorni – verrà firmato il contratto tra queste aziende, che dovranno suddividersi i compiti e, naturalmente, le risorse. Facile prevedere un sostanziale equilibrio anche tra le aziende.
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- Quando è partita l’idea di aderire al programma GCAP in Italia? Con quale governo?
L’adesione viene da lontano, ben prima dell’attuale governo Meloni. Non possiamo attribuire l’adesione a questo o a quel governo. Tieni presente che tutti i programmi definiti in questi anni per l’Aeronautica Militare Italiana sono stati adottati con soluzioni sostanzialmente “bipartisan” tra centro-destra e centro-sinistra, salvo le opposizioni di partito, piuttosto che di contenuto.
Certamente l’attuale governo giustifica ampiamente la crescente spesa militare col clima di guerra imperante e sotto la spinta, neppure tanto sottotraccia, degli interessi della grande industria militare in Italia, in Europa e nel mondo. Vediamo infatti ogni giorno come i mercati finanziari stiano scommettendo e investendo sulle guerre e sulle armi. Anche i vertici europei stanno dicendo che stiamo entrando in una economia di guerra e che bisogna sostenere lo sviluppo della industria militare europea.
La narrazione diffusa fa sì che l’attuale governo possa spingere l’acceleratore e ipotecare miliardi e miliardi per gli anni venire, senza incontrare di fatto nessuna opposizione. E senza che i cittadini italiani ne vengano a sapere, di fatto, pressoché nulla.
- C’è stato un dibattito e un voto in parlamento?
È proprio questo il punto da cui ha prende le mosse il nostro appello: il 13 novembre scorso la Camera, in via definitiva, ha ratificato la partecipazione al GCAP. Hanno votato a favore non solo i partiti di maggioranza, ma anche il PD, assieme ad Italia Viva e Azione.
Il nostro comunicato dice: “la società civile ha il dovere di mobilitarsi e di esercitare una forte pressione sui partiti affinché si riconsideri questa scelta scellerata”. Non so francamente se, tecnicamente, si possa tornare indietro nella decisione, ma senz’altro il ripensamento – specie da parte dei parlamentari che hanno votato – è sempre possibile e, secondo noi, doveroso. E la voce dei cittadini deve essere ascoltata.
- Immagino che questa non sia l’unica spesa in armamenti. Cos’altro c’è e cosa ci viene a costare?
L’F-35 di cui ho parlato ha una lunga storia. Doveva avere un costo di 79 milioni di euro ad unità. In realtà, il costo attuale di ogni F-35 è ora di 192 milioni di euro. È peraltro in via di aggiornamento tecnologico, il che porterà il suo costo al di sopra dei 200 milioni. Il costo triplicherà rispetto alle previsioni.
È stata già presa la decisione di ampliare ulteriormente la flotta degli F-35 oltre i 90 già previsti, per una spesa pubblica di altri 7 miliardi circa. A luglio è stato pure deciso di dotarsi di 24 aerei intercettatori Eurofighter per altri 7 miliardi e 400 milioni.
Quindi, nel giro di pochi mesi, solo per l’aeronautica, sono stati ipotecati 21 miliardi di euro, una cifra folle: una cosa del genere non l’avevo mai vista. Senza considerare tutto il resto della spesa militare. Questo mentre la sanità, la scuola, il sociale versano nelle condizioni che sappiamo.
- Perché noi comuni cittadini non ne sappiamo nulla?
L’industria militare ha sempre prosperato nella opacità dell’informazione. Ho sempre lavorato e lavoro per la trasparenza del settore. L’AIAD che è l’associazione delle industrie aerospaziali della difesa italiana – già presieduta dall’attuale ministro Crosetto per conto, allora, di “Leonardo” – non pubblica la sua relazione annuale di bilancio dal 2018!
A dicembre si voterà una legge tesa a smontare parti essenziali della legge 185, proprio sulla trasparenza del commercio delle armi. Non si vuole la trasparenza su questa materia. È evidentemente scomoda. Mentre proprio su questioni di tale rilevanza dovrebbe avvenire un dibattito pubblico democratico e trasparente.
Siamo ben consapevoli che i comuni cittadini non possono sapere tutte queste cose, ma almeno i parlamentari sì. I parlamentari dovrebbero essere ben consapevoli di ciò che votano, e ben rappresentare gli umori dei loro elettori e di tutti i cittadini.
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- Hai idea di cosa pensino gli italiani in proposito?
Un recente rapporto di Greenpeace sull’opinione degli italiani rispetto alla spesa militare rivela la contrarietà della maggioranza. Ciò non rispecchia, necessariamente, una posizione partitica o un voto definito, ma una tendenza chiara sì.
Io dico: la maggioranza della gente non può che pensarla così, quando ogni giorno è costretta a fare i conti, ad esempio, con i ritardi della sanità pubblica, con lo stato della scuola, con i vuoti della assistenza sociale. Penso poi che l’elemento del rifiuto della guerra nell’intimo della coscienza delle persone ci sia.
- Non c’è il problema della perdita dei posti di lavoro, se si taglia sull’industria militare?
No, sono convinto che la spesa per il settore militare stia sottraendo risorse al nostro sistema industriale globale e stia sottraendo posti di lavoro. C’è un esempio lampante in proposito: questo governo ha deciso di svuotare il fondo di 4 miliardi e 900 milioni per l’Automotive – cioè, per sostenere la transizione ecologica del settore auto – per destinarlo alla spesa militare. Quindi un settore che è già in crisi, con centinaia e miglia di posti di lavoro a rischio, sarà ancora più vulnerabile.
Dovremmo cominciare a capire che, quando si spende in armamenti, ci sono fabbriche che chiudono in altri settori, non fabbriche che aprono con nuovi posti di lavoro.
- È possibile sottoscrivere il vostro appello?
Stiamo valutando. Una eventuale raccolta firme, dovrebbe essere precisamente finalizzata: penso ai parlamentari.