Leggendo da Avvenire l’articolo di Marco Erba sulla «fragilità dell’eroismo di Ettore» (qui), ho percepito, rispetto al modo di accostare alla nostra esperienza i testi classici, che sono sempre di grande suggestione e perciò stesso «classici», una dissonanza che trovo interessante approfondire.
Due modelli di società
Fu all’epoca di tangentopoli che realizzai con stupore che si stava compiendo un mutamento antropologico imprevedibile, allorché chiesi ai miei studenti – come sempre facevo – se ritenessero di trovarsi in un contesto di «società della colpa» o «società della vergogna», e per la prima volta la maggioranza della classe indicò risolutamente la seconda.
Avevo spiegato, come sempre, le caratteristiche culturali del mondo omerico servendomi delle categorie antropologiche utilizzate da E. Dodds già nel 1951 [1], secondo cui il modello della shame society (o shame culture) è quello in cui le scelte esistenziali e morali del singolo si compiono in riferimento ai valori e alle valutazioni della società cui egli appartiene, vera depositaria del giudizio morale, e sono guidate in positivo dal senso dell’onore e in negativo dal senso della vergogna (l’aidòs greco è vox media, non a caso, e significa ambedue): la scelta morale e il giudizio su di sé sono dunque rispecchiamento della considerazione altrui, dal singolo pienamente condivisa.
Con la guilt society invece (o guilt culture) le scelte esistenziali e morali fanno riferimento a quella che poi abbiamo chiamato «coscienza», sede dei valori di riferimento interiorizzati dal singolo, per cui anche il giudizio su di sé è interiorizzato: guida alle scelte sarebbe dunque il senso di colpa o, viceversa, la percezione interiore del merito o dell’innocenza.
E si può capire come la transizione dalla shame society alla guilt society, (che, parlando un po’ all’ingrosso, prende le mosse da Socrate) segni la nascita della coscienza individuale, senza cui nemmeno si può considerare la dimensione dell’interiorità. Infatti l’altro caposaldo degli studi antropologici che consente di comprendere il sistema etico arcaico (non solo greco), tra cui l’idea stessa della faida, è il concetto di ghenos (stirpe), intesa come unità non solo genetica ma anche etica: l’individuo non si concepisce come singolo ma come tutt’uno con i progenitori, di cui porta meriti e colpe, e con i posteri, su cui riversa gli uni e le altre.
Logica dell’onore e senso di umanità
La definizione dei due modelli, per quanto inevitabilmente rigida, riesce a dar conto dell’eroismo epico nel contesto della società guerriera aristocratica senza l’anacronistico moralismo di considerare dei «manichini» gli eroi che obbediscono al senso dell’onore [2]. Ettore-padre ed Ettore-guerriero sono tutt’uno: è per il figlioletto Astianatte che Ettore va a combattere sapendo di morire, perché un giorno qualcuno possa dire di lui «che è molto migliore del padre», come guerriero, naturalmente, e perché sua madre, la moglie Andromaca che pure lo supplica di mettersi in salvo, possa un giorno essere orgogliosa di vedersi indicare come la moglie del «grande Ettore».
Non c’è – non ancora – conflitto tra scelta eroica e scelta di umanità, né tra reputazione sociale e interiore convincimento. E la famosa scena di Ettore che toglie l’elmo col suo cimiero spaventoso per prendere in braccio il piccolo Astianatte nell’ultimo saluto prima di affrontare il terribile Achille, con la supplica di Andromaca che gli chiede di abbandonare la battaglia, sembra fatta apposta per motivare e sottolineare la scelta eroica del guerriero troiano, non per segnalarne la contraddizione o, addirittura, la disumanità. La corazza di Ettore, insomma, non si incrina.
Non interessa al momento approfondire un discorso che, evidentemente, è alquanto complesso e che vede l’eroismo tragico, sullo sfondo della polis, come passaggio fondamentale della transizione dall’uno all’altro modello antropologico. E nemmeno possiamo seguire questo percorso nella sua dimensione religiosa, col passaggio dalle capricciose divinità omeriche a Zeus garante della Dike e al daimon socratico che dall’interno fa udire la sua voce.
Interessa tornare alla domanda di partenza e capire perché tanti uomini politici indagati per corruzione ai tempi di tangentopoli finivano per suicidarsi solo dopo essere stati scoperti e indicati al pubblico ludibrio, cedendo più che al senso di colpa, in prima ipotesi alla vergogna di essere pubblicamente scoperti ovvero, in seconda ipotesi, percependo il senso di colpa solo dopo essere stati scoperti, cioè rispecchiandosi negli altri come malfattori. Da qui la risposta, nuova, dei miei studenti di allora, per cui saremmo oggi ritornati alla shame culture.
Naturalmente oggi sono i mezzi di comunicazione di massa a costruire una reputazione pubblica buona o cattiva e ciò è diventato ancor più evidente con l’introduzione pervasiva dei mezzi social. Non stiamo a dimostrarlo citando i numerosi episodi di cronaca in cui abbiamo visto il crollo di individui sotto il peso di una cattiva reputazione social, vera o falsa che fosse, come se la consistenza esistenziale non avesse baricentro nell’individuo bensì nell’immagine che dell’individuo si crea pubblicamente.
Ma lo schema della shame society, pure suggestivo, non calza, a meno che non vogliamo darne l’interpretazione moralistica di chi legge una «logica dell’onore» contrapposta a una «logica di umanità» e contrappone l’obbedienza alle «aspettative degli altri» all’ascolto dei «propri desideri più autentici»[3], cosa per cui risulta improprio riferirsi al mondo omerico.
La debolezza dell’individuo
Occorre un’altra elaborazione, un’altra chiave di lettura, che probabilmente ancora non sappiamo trovare.
Quel che possiamo vedere è che manca un contesto di valori condivisi e incontestabili di riferimento rispetto al quale si possa strutturare un’etica sul modello della shame culture. Chi li individua nel successo, nella ricchezza, nella bellezza esprime ancora una volta un giudizio moralistico e si ferma probabilmente a una lettura parziale, se non superficiale. Del resto, la società arcaica fondata sull’«onore» era una società ristretta e omogenea (e quindi punto di riferimento forte), mentre noi ci troviamo in un contesto talmente aperto e globalizzato da farci perdere l’orientamento.
D’altro canto è incontestabile anche una grande debolezza dell’individuo, nel momento stesso in cui se ne riconosce ed enfatizza la priorità («i nostri desideri più autentici»). La cosa non stupisce, se è vero che una solida consistenza interiore si costruisce nell’esercizio di relazioni forti e significative, di tipo (socraticamente) dialogico. E pare invece che si vada nella direzione di plurimi ed evanescenti «contatti».
[1] Eric R. Dodds, I Greci e l’irrazionale, Rizzoli, Milano 2009.
[2] Cf. Marco Erba,La corazza di Ettore e la fragilità dell’eroismo
[3] Cf. Marco Erba, La corazza di Ettore e la fragilità dell’eroismo