«Il contesto odierno, con i suoi rapidi mutamenti e le sue crescenti povertà e sperequazioni, interpella la vita dei ministri ordinati e provoca nel cercare strade nuove, quasi “da esploratori”, per rispondere alle chiamate concrete dell’oggi. Questo però non può essere fatto da “solitari”, ma costruendo insieme comunità tutte missionarie dove nella condivisione della fede ciascuno possa vivere in pienezza e sostegno reciproco il proprio ministero, a beneficio del popolo di Dio». Così viene presentata dalla redazione la sesta monografia del 2024 della rivista di spiritualità pastorale Presbyteri, dedicata alla identità e alla missione del prete nel contesto odierno. Ne riprendiamo di seguito l’editoriale, firmato da don Nico Dal Molin. Sul sito della rivista sono già disponibili i temi delle monografie del 2025.
Prima del Concilio Vaticano II il ruolo più discusso e problematico nella Chiesa era quello dei laici ma oramai, e già da parecchi anni, il ruolo che pone il maggior numero di interrogativi è quello del presbitero. Il calo numerico dei preti e delle vocazioni presbiterali è ben presente, seppure in percentuali diverse, nella realtà della Chiesa italiana.
I preti non solo diminuiscono ma stanno sempre più invecchiando. Ad avvicinarsi all’età del «congedo pastorale» ci sono oramai quelle annate con numeri importanti di sacerdoti ordinati. In un’epoca di cambiamenti repentini (il periodo della pandemia, lo sappiamo, è stato la goccia che ha fatto traboccare un vaso già colmo) si sono moltiplicate le situazioni di disagio a motivo di crisi identitarie o di senso sulla reale efficacia del ministero pastorale.
Alcuni preti rischiano di essere troppo esposti, perché molto impegnati nell’ambito sociale; altri sono disorientati, scoraggiati, talvolta discussi. Alcuni sono troppo autoritari e autoreferenziali, altri troppo intimoriti e rinunciatari. Questo elenco potrebbe continuare all’infinito, perché è ricca la letteratura che in questi anni ha affrontato la questione da molteplici punti di vista, facendo diventare il prete una sorta di «sorvegliato speciale».
C’è una via di uscita a tutto questo? Difficile dirlo: in molti hanno proposto suggerimenti, orientamenti, indicazioni che inevitabilmente si sono rivelati limitati e parziali.
Parlare e parlarci
La strada più onesta e, forse, la più significativa che in questi anni ho potuto sperimentare è stata quella di creare contesti in cui i preti possano parlare e parlarsi. C’è sempre un velo di pudore nel farlo, ma quando il velo cade emergono sofferenze, amarezze, delusioni, ma anche esperienze, intuizioni e tracce di percorsi che si rivelano preziosi per tutti. Quando i preti sanno parlare con sé stessi e di sé stessi, così come sono e non a partire dalle aspettative personali o istituzionali di come dovrebbero essere, si sta già imboccando una strada che non è risolutiva ma sicuramente è rimotivante.
Il passo successivo, che non funziona in automatico ma che richiede un aiuto e un sostegno concreto, è quello di riformulare alcuni principi fondamentali che sono la struttura portante umana, spirituale e teologica del ministero.
Non è un passaggio scontato, nemmeno per uomini che hanno avuto l’opportunità di lunghi periodi di formazione e che hanno vissuto un periodo importante della propria vita in un seminario a riflettere, pregare e discernere la propria vocazione. Rimettersi a «parlarne e a cercare insieme» potrebbe sembrare una perdita di tempo o un annaspare nell’aria, visto i tanti mutamenti intercorsi e lo sgretolarsi rapido di alcuni modelli di riferimento che sembravano inossidabili.
La frattura tra tempo ed esperienza può rivelarsi molto dolorosa e fare emergere un senso di fallimento esistenziale difficile da sanare. Il tempo non si arresta e rischia di trasformare una crisi di passaggio, sempre possibile nella vita di ciascuno, in una crisi profonda e permanente svuotando di senso il ministero e chi lo esercita. La percezione sempre più diffusa è di continuare a parlare un linguaggio che per tanta gente diventa sempre più incomprensibile, perfino strano, e di compiere dei segni che quasi più nessuno è in grado di capire e di interpretare.
Si è preso sempre più coscienza che la crisi del prete è anche una crisi teologica, di una teologia che ha ancora dei passi da fare per adeguarsi a contesti sociali e culturali in continuo divenire. I segni di un rinnovamento profondo e non solo di facciata sono innegabili; per questo c’è un bisogno profondo di continuare a dissetarsi alla sorgente di contenuti freschi e in sintonia con la realtà che si vive.
C’è da chiedersi: la formazione permanente può essere questa sorgente? Don Severino Dianich, intervistato a margine del Convegno internazionale sulla formazione permanente dei sacerdoti, ha detto:
«Se manca un impegno serio per la formazione permanente, il rischio per i preti è quello di scoraggiarsi, di incrociare le braccia e di venirsi a trovare in una situazione moralmente e spiritualmente deplorevole, perdendo così quello slancio che li aveva spinti ad abbracciare la vita sacerdotale»[1].
Preti nella diaspora?
Recentemente è uscito un interessante saggio del sociologo Luigi Berzano dal titolo Restare cristiani in diaspora[2]. A questo titolo si potrebbe aggiungere: e come essere preti nella diaspora?
Nella sua introduzione Berzano ricorda che già sul finire del secolo scorso il teologo Karl Rahner si poneva la domanda: «Il cristianesimo è ancora attuale?». È una domanda ancora molto attuale, sia perché indica la forza che il cristianesimo ha avuto fino a un recente passato, sia perché motiva l’esigenza di una svolta nel mondo contemporaneo. È terminata la forma storica che il cristianesimo ha assunto come «cristianità», cioè il modo con cui la fede cristiana e la Chiesa cattolica hanno permeato e trasformato la cultura occidentale. Altro è la «cristianità», altro è il cristianesimo.
Per realizzare questo cambio di paradigma potrebbero essere necessari dei cambiamenti che siano anche «trasgressivi», nel significato più autentico della parola transgredior: andare, camminare oltre. Tornano alla mente le parole del cardinale Carlo Maria Martini, a proposito della distinzione tra credenti e non credenti:
«La vera differenza non è tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti. L’importante è imparare a inquietarsi. Se credenti, a inquietarvi della vostra fede. Se non credenti, a inquietarvi della vostra non credenza. Solo allora fede e non credenza saranno veramente fondate»[3].
Quella inquietudine che percorre e attraversa oggi in profondità l’essere preti potrebbe risultare, allora, la «sana inquietudine» dell’essere in diaspora.
«C’è una vocazione perdurante alla diaspora. Nel racconto della storia la diaspora è stata un prototipo biblico. Per i primi cristiani descritti nella Lettera a Diogneto la diaspora fu la vocazione a vivere nel mondo, senza essere del mondo. Anche i cristiani si percepiscono in un certo senso come fuori luogo in questo mondo»[4].
Se l’essere dis-locati è una sfida per la vita cristiana del presente e ancor più del futuro, l’essere fuori luogo è una sfida già attuale nella vita e nel ministero dei presbiteri. In chiave esistenziale la diaspora è pur sempre una condizione di cammino verso il futuro; per questo potrebbe essere percepita come una minaccia, da cui allontanarsi in fretta anziché imparare a potervi soggiornare stabilmente.
La diaspora è la condizione normale della vita stessa in cui si nasce, si vive e si muore e l’essere nella diaspora può divenire uno spazio nuovo di sperimentazione, di trasformazione, di inclusione o di esclusione.
Non un esploratore solitario
In una lettera rivolta ai parroci di Roma, il 15 luglio 2019, l’allora cardinale Vicario Angelo De Donatis scriveva: «Questo nostro tempo non ha bisogno di pensatori isolati, che elaborano piani a tavolino, ma piuttosto di esploratori coraggiosi, come quelli inviati a perlustrare le vie che portano alla terra promessa»[5].
A distanza di qualche anno si potrebbe anche aggiungere che c’è sicuramente bisogno di esploratori coraggiosi, ma che non siano esploratori solitari. Ricordate il meraviglioso romanzo di G. Bernanos Diario di un curato di campagna?[6]
Il prete immaginato in quella cultura e con quella formazione teologica, che forse è stata parte del cammino formativo di alcuni tra noi, era soprattutto un solitario. I parrocchiani sfilavano davanti al giovane curato e tra lui e loro sembrava esserci un muro invalicabile. Il suo sforzo continuo di accorciare le distanze era sempre destinato a fallire e il rigido direttore spirituale del giovane prete lo invitava con insistenza a mantenere sempre il senso della distanza.
Alla fine il curato di Ambricourt muore così come era vissuto, in mezzo all’indifferenza, nella casa di un ex compagno di seminario, un amico spretato e tubercolotico che aveva lasciato il sacerdozio. A lui chiederà l’assoluzione finale dai suoi peccati, in un gesto supremo di condivisione.
È un romanzo bellissimo ma con una ecclesiologia agli antipodi di come pensare e vivere oggi il ministero. La linea teologica attuale invita a misurarsi con la dimensione della inter-relazione, della sinodalità, della ministerialità diffusa, ma forse deve fare ancora i conti con un modo di pensare e di percepire la figura del prete che favorisce la linea della separazione, facendo dei preti una classe di cristiani a parte o, peggio ancora, di cristiani che hanno un potere sugli altri cristiani.
Un presbiterato inteso in maniera solitaria e autoreferenziale, che non vive in stretta solidarietà con la comunità, sarà sempre una realtà deficitaria e incompiuta[7].
Quale missionarietà?
«Non possiamo limitare l’annuncio del vangelo alla liturgia e alla catechesi, ma dobbiamo sviluppare una pedagogia dell’incontro e del “colloquio spirituale” nel grigiore del quotidiano (…). Molto spesso siamo ancora fissati quasi esclusivamente sulla liturgia e sulle celebrazioni para-liturgiche all’interno del nostro spazio ecclesiale; e solo raramente viviamo i nostri incontri quotidiani come “discepoli missionari”».
Così scrive il teologo Christoph Theobald nella sua Lettera sul futuro del cristianesimo.[8]
Papa Francesco vorrebbe una chiesa che sia in tutto e per tutto missionaria. Ma cosa significa vivere la missione oggi e in questo nostro contesto? Un giovane vescovo missionario comboniano, p. Christian Carlassare, scrive:
«Oggi ci si pone la domanda di cosa sia la missione. Un tempo era stata romanticizzata e idealizzata. Talvolta lo è ancora adesso. La vera domanda è se crediamo alla missione come realtà essenziale del nostro essere chiesa. Non una chiesa dedicata a conservare resti di antiquariato, ma aperta al nuovo, proiettata al mondo»[9].
C’è un aspetto originale nella testimonianza di p. Christian ed è quando riporta una espressione frequente di San Daniele Comboni: la missione è «fare causa comune». Sembra un modo di dire che ha solo una valenza orizzontale nel rapporto «uomo-mondo», ma in realtà il suo significato è anche profondamente verticale, nel rapporto «Dio-uomo».
È Dio stesso che nella incarnazione ha fatto causa comune con l’umanità; e non c’è missione senza un inserimento concreto e totale in un preciso contesto di vita, senza una personale incarnazione in quella realtà. Fare causa comune, allora, è partecipazione, è condivisione, è solidarietà, è prendersi cura … Prendersi cura: un atto di amore straordinario per gli altri, ma che fa un gran bene anche a noi stessi.
Ci permette di riflettere sulla nostra vita, su come gestiamo le nostre relazioni, i nostri progetti, i nostri impegni di vita. È un viaggio dentro a sé stessi che permette di comprendere come a volte lasciamo da parte la «cura per la causa comune» perché troppo presi dai tanti impegni o, forse, troppo presi da noi stessi.
[1] “Ravviva il dono che è in te” (2Tm 1,6), Convegno internazionale per la formazione permanente dei Sacerdoti, Roma 6-10 febbraio 2024.
[2] L. Berzano, Restare cristiani in diaspora, con postfazione di Derio Olivero, Effatà, Cantalupa (TO) 2024.
[3] C.M. Martini, Per una Chiesa che serve. Lettere, discorsi e interventi 1993, EDB, Bologna 1994, 460.
[4] Per una analisi della tematica dell’essere “fuori luogo” cfr. S. Levi Della Torre, Essere fuori luogo, Donzelli, Roma 1999.
[5] A. De Donatis, Lettera ai parroci di Roma, 15 luglio 2019; cf. anche L. Accattoli, «Esploratori di una chiesa in uscita», Regno Attualità, 10/2019.
[6] Diario di un curato di campagna è un romanzo di Georges Bernanos, scritto nel 1936. Dal libro è stato tratto l’omonimo film diretto da Robert Bresson nel 1951. Ad essi si lega anche uno dei capolavori del regista Ingmar Bergman: Luci d’inverno.
[7] Cf. G. Tangorra, Vivere il mistero della chiesa: comunione e sinodalità, Convegno diocesano, Aquino 14 giugno 2019.
[8] C. Theobald, Il popolo ebbe sete. Lettera sul futuro del cristianesimo, EDB, Bologna 2021.
[9] C. Carlassare, «Missione è fare causa comune», in Ecclesia Mater 2/2024, 93-103. P. Christian Carlassare, missionario comboniano, dal 2022 al 2024 è stato vescovo di Rumbek ed ora è vescovo di Bentiu, nel Sud Sudan.
Voglio approfondire il messaggio per poi invierò il mio commento. Sicuramente di stimolo perché vivo in maniera diversa questa dimensione. Buona serata
È un articolo che capisco e ringrazio chi me lo ha inviato. Dal mio punto di vista da donna il prete è troppo da solo, non educato a condividere con fiducia specialmente con le donne chr non sono solo una “tentazione”. L’amicizia esiste.
Grazie di aver parlato del mio amico p. Christian, vescovo. Appunto.
Oggi il presbitero si trova ad operare in una chiesa troppo autoreferenziale, con dei confratelli fermi al passato e a condurre pratiche liturgiche e pastorali ripetitive e devozionali. La spinta di papa Francesco di uscire, di rinnovamento, di presenza nella vita quotidiana dei fratelli e sorelle è poco praticata. Sarebbe bene essere più aperti ai ‘segni dei tempi’ e al soffio dello Spirito, così la chiesa, Popolo di Dio, può diventare più ‘conciliare’.
Una cosa che l’articolo non tratta è il peso che i presbiteri parroci si trovano a dover gestire in documentazioni economiche e strutture murarie (a cui il seminario non ha preparato) condite dal contrasto dei fedeli che sognano una chiesa nuova e chi rimpiange ancora il latino.
Dalle sue affermazioni si comprende che la Chiesa è in transizione e come in ogni tempo di transizione non tutto è chiaro.
Lo Spirito Santo ha indicato alla Chiesa la strada da seguire. Quando lo Spirito Santo viene veramente porta la Chiesa nel mondo e la espone a pericoli e problemi vedi gli Atti degli Apostoli. Quindi non dobbiamo aver paura perchè lo Spirito Santo sta facendo il suo mestiere.