Il sinologo Francesco Sisci guarda l’Italia da lontano, in particolare dalla Cina, suo paese di adozione, in una prospettiva di politica internazionale di cui è attento osservatore. E la sua passione per la storia si muove nella “lunga durata”, così come la intende Fernand Braudel: quello che succede adesso, al di là delle pur importanti contingenze presenti, è parte di un percorso secolare dove vanno ricercate le vere cause, e, al limite, la storia si spiega attraverso i tempi lunghissimi di una geografia relativamente stabile.
Il libro di Sisci, Tramonto italiano (Neri Pozza, 2024), tratta della vicenda dell’Italia in quanto Stato, uno “stato” creato artificialmente come conseguenza della politica europea in cui ha saputo inserirsi Cavour, ampliando così il Regno dei Savoia destinato a diventare Regno d’Italia nel !870. La tesi implicita, è che se la politica internazionale ha fatto l’Italia, oggi a distanza di 150 anni la stessa politica internazionale può disfare ciò che ha fatto in passato.
L’Italia attuale è in una fase di “tramonto” e i suoi governanti tirano solo a campare nella assoluta inconsapevolezza del disastro in corso. La possibilità di uno smembramento dell’Italia era già stata ventilata in un progetto inglese del 1943. Sicilia e Sardegna erano destinate all’Inghilterra e il centro Italia diventava area d’influenza americana. Così, commenta Sisci, “finirebbe l’esperimento politico dell’Italia… Cioè l’Italia dei Savoia, unita per un insieme di coincidenze fortuite e abilità diplomatiche, parrebbe…giungere alla sua fine dopo pochi decenni. Ciò proverebbe…che l’unità d’Italia era quasi un incidente della storia” (39%).
Questa lettura poco patriottica del “Risorgimento italiano” appare meno scandalosa e più plausibile nella prospettiva della lunga durata della storia. Se, come fa Sisci, si torna indietro ai tempi dell’Impero romano non esiste alcuna Italia, ma una denominazione geografica. Tutt’al più si può parlare dell’Italia in quanto periferia di Roma. E ha continuato a esserlo sotto il potere di Papi. Non esisteva la lingua italiana e neppure gli italiani. Soltanto intorno alla metà dell’ottocento, quando la diplomazia piemontese ha saputo inserirsi nelle strategie della politica internazionale e ingrandire un piccolo regno, si è cominciato a pensare a un’entità designata con il nome Italia. Era un modo per legittimare una conquista ed espansione territoriale con uno scopo più nobile.
Così, attraverso le tre guerre di indipendenza, si realizza quello che con la presa di Roma nel 1870 diventerà lo Stato italiano. In questo racconto freddo e pragmatico di Sisci, la retorica del “risorgimento” si dissolve nella real politik delle grandi potenze, la Francia, l’Inghilterra e la Prussia; ai loro interessi si asservisce il regno dei Savoia, pur traendone il suo tornaconto. Tutto ciò che accade, anche la mitica spedizione dei Mille, è l’effetto di una politica europea che contribuisce alla formazione dell’Italia in funzione anti-austriaca.
Non è chiaro se le nazioni siano l’origine degli Stati o se gli Stati facciano le nazioni. E’ come il problema dell’uovo e della gallina. Sembra che Sisci propenda per la seconda possibilità. L’Italia dei Savoia non è una nazione. È piuttosto la storia di popoli e Stati diversi che vengono conquistati e colonizzati dai piemontesi. E nei decenni successivi, quelli in cui si opera per fare l’Italia attraverso la coscrizione militare e l’obbligo di una scuola dove si insegna in italiano, la crescente differenza tra nord ricco e sviluppato e sud povero e arretrato contrappone due realtà in contrasto, incompatibili con la costruzione di un’unica nazione.
Insomma, secondo Sisci, l’Italia non è mai una nazione, né nell’ottocento, né nel novecento. E continua a essere uno Stato tenuto in piedi da esigenze di politica internazionale. Tra queste, nel dopoguerra dei decenni della guerra fredda, quella di Stato cuscinetto tra occidente democratico e capitalista e comunismo autoritario. Più ci si avvicina al presente e più pessimista sembra essere Francesco Sisci.
L’Italia rimane un soggetto la cui esistenza dipende da fattori esterni con un’aggravante rispetto al passato. Il pensiero separatista della Lega ha acquisito una sua egemonia culturale. Il fallimento del progetto della Cassa del Mezzogiorno si è tradotto nella convinzione diffusa che il nord non può più buttare via risorse a vantaggio di un Sud che sa solo sprecarle. Così funziona l’economia di mercato, si deve investire là dove gli investimenti sono produttivi. Dunque, non è più soltanto propaganda leghista: il nord ha un suo destino europeo non condivisibile con il sud.
L’Italia non è più unita intorno a un governo centralizzatore, ma è già divisa in regioni dotate di larga autonomia. Perché non dovrebbe “disgregarsi” (sotto titolo del libro) in parti autonome e indipendenti?