Il 5 dicembre 2024 la Facoltà teologica del Triveneto ha organizzato online la presentazione del libro Rigenerare la parrocchia. Verso una conversione missionaria e del progetto “Parrocchia Triveneto”, sviluppatosi nell’arco di un triennio con il coinvolgimento di laici e laiche, religiosi e religiose, presbiteri. Oltre ai curatori del libro, Andrea Pozzobon e Rolando Covi, hanno parlato don Ivo Seghedoni, Francesco Zaccaria, il vescovo Castellucci e fr. Enzo Biemmi.
La serata del 5 dicembre 2024, organizzata dalla Facoltà teologica del Triveneto per la presentazione online del libro Rigenerare la parrocchia. Verso una conversione missionaria, è stata introdotta e guidata da uno dei due curatori del libro, Andrea Pozzobon, docente allo Iusve e delegato del vescovo per le Collaborazioni pastorali (diocesi di Treviso), e si è aperta con un approfondimento dell’altro curatore, Rolando Covi, docente della Facoltà, che ha presentato il progetto e, attraverso di esso, le linee essenziali del libro, sottolineando alcuni passi possibili per orientare le parrocchie verso uno stile maggiormente generativo (cf. SettimanaNews 3 dicembre).
Le esperienze parallele di Toscana-Emilia Romagna e Puglia
Interessante il confronto con Ivo Seghedoni, dell’Istituto superiore di Scienze religiose dell’Emilia, che ha condiviso l’esperienza di Toscana ed Emilia-Romagna. «Ci siamo allenati a discernere tutti insieme, imparando gli uni dagli altri. Abbiamo terminato il lavoro raccogliendo cinque criteri trasformativi, che abbiamo visto già in opera nelle parrocchie ascoltate, ma che vanno sostenuti, per accompagnare la transizione da un modello ancora in parte tridentino, ad una presenza di comunità missionaria sul territorio; si tratta di passaggi in atto, da implementare:
- da un’identità certa, data per tradizione, a un dialogo più creativo con il territorio;
- dalla centratura sulle attività di aggregazione e sacramentalizzazione, al primato dato all’ascolto delle esperienze di vita e alla promozione delle relazioni;
- dalla leadership accentrata alla leadership partecipata, per una corresponsabilità effettiva;
- dall’efficientismo che ci costringe ad andare avanti all’attivazione di processi di riconciliazione fraterna;
- da quelle nostalgie che fanno sprecare tempo ai processi sinodali che siano capaci di far vedere delle priorità».
Francesco Zaccaria, a nome dell’Istituto Pastorale Pugliese, ha descritto i tre anni del progetto che ha indagato sulle possibilità, nelle diocesi pugliesi, di una conversione missionaria della parrocchia. Prezioso il bilancio finale: «Abbiamo compreso che, per accompagnare questa conversione pastorale, è necessario investire contemporaneamente su due fronti: l’aspetto formativo personale e l’aspetto organizzativo comunitario strutturale. Non ci può essere l’uno senza l’altro».
Proporsi senza imporsi
Erio Castellucci, vescovo di Modena-Nonantola e Carpi e vicepresidente della Conferenza episcopale italiana per l’Italia settentrionale, ha presentato il numero 117, dedicato alla parrocchia dal Documento finale della seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi. «Nel dibattito sinodale, da molte Chiese sono emerse diverse declinazioni circa i “territori esistenziali”: associazioni e movimenti, pietà popolare, comunità di base, monasteri e conventi, santuari, luoghi di pellegrinaggio e turismo religioso, luoghi di carità vissuta, qualcuno anche diceva le case, come luoghi di crescita della Chiesa, con esperienza di gruppi della Bibbia. Questa pluralità non intendeva frantumare la parrocchia o dichiararla decaduta, ma arricchire l’esperienza parrocchiale».
«Nell’Instrumentum laboris del Sinodo italiano non è presente un numero specifico per la parrocchia, ma essa è citata più volte. Soprattutto nel primo anno, quando si sono attivati 50mila gruppi sinodali, era emersa ed è confluita nella sintesi per il Sinodo generale, la richiesta di recuperare la dimensione domestica della parrocchia, la dimensione familiare, di casa, di luogo di incontro. Non un nido, ma un’abitazione che ha le porte aperte sia verso l’esterno sia verso l’interno».
«Lievito e sale. Sono immagini che marcano la genesi della Chiesa, che tante volte abbiamo contraddetto. Le parrocchie svolgono la loro missione non solo radunando e chiamando, ma quando sanno essere lievito e sale con il territorio. Le nostre comunità cristiane devono proporsi senza imporsi, senza pretendere di essere ancora nel mondo della cristianità dove la parrocchia è centro sociale per tutti, per accontentarsi di essere evangeliche, ed è il servizio più grande, diventando comunità accoglienti».
Avviare processi e prendersene cura
Infine, Enzo Biemmi, docente dell’Istituto superiore di Scienze religiose “San Pietro martire” di Verona e coordinatore del progetto “Parrocchia Triveneto”, ha concluso, narrando il percorso di ricerca del laboratorio.
«Tutto è partito da un disagio: l’istituzione parrocchiale è in sofferenza. Abitarla evangelicamente è sempre più complesso. Theobald parla di arretramento in Europa della civiltà parrocchiale. Ho fatto un paragone con l’arretramento dei ghiacciai: pensiamo alla Marmolada, un ghiacciaio morente; nel 2040 sparirà. Lo stesso vale per il modello parrocchia che abbiamo ereditato: cosa resterà? Abbiamo messo in atto un ascolto impegnativo. Abbiamo voluto evitare di rifare la teologia della parrocchia. C’è già molto di scritto. Ci siamo impegnati ad ascoltare dal basso quello che sta accadendo. Si è rafforzata la convinzione del valore teologico della forma parrocchia: salvaguarda un punto essenziale del Vangelo, che ci sia un luogo aperto a tutti. A chi è più impegnato e a chi passa, magari solo per i sacramenti. Preserva il fatto che la fede non sia solo per gli “impegnati”, ma per tutti, anche per i poveri. La ricchezza della parrocchia sta dunque nella sua povertà: è il luogo che segnala che la grazia del vangelo è disponibile per tutti.
All’inizio ci proponevamo, con una certa ambizione, di accompagnare le parrocchie da un modello “tridentino” a un modello “missionario”. Ma, rispetto a questo, l’ascolto ci ha sanamente ridimensionato. Ci siamo resi conto che, stabilito un modello ideale, il problema che le comunità parrocchiali stanno affrontando, in primis i parroci, non sta nel non condividere l’ideale, cioè la missionarietà, ma nel mettere in atto la transizione; il problema è la complessità dei passaggi, e la necessità di avere criteri di cambiamento, gestendo resistenze, tradizioni, fatiche, strutture pesanti… Tutto quello che abbiamo cercato di fare – ed è stata una piccola conversione – è stato di individuare, dalle pratiche in atto e dai racconti, alcuni criteri per accompagnare ciò che sta morendo e favorire ciò che sta nascendo, ma che è difficile da scorgere.
Siamo arrivati a una presa di coscienza fondamentale. Siamo usciti dall’immaginario che si tratti di trovare in fretta un nuovo modello di parrocchia, che sostituisca quello tridentino. Abbiamo capito che si è aperto un tempo lungo, che deve rinunciare ad avere un modello. Quello che abbiamo definito “modello tridentino”, inteso come la coincidenza di un territorio geografico con un campanile e di questo con il parroco, da tempo non esiste più da nessuna parte in Italia. Non c’è più “la” parrocchia, ma una grande diversificazione di comunità parrocchiali, a seconda dei contesti cittadini, rurali, geografici…
Il “modello missionario” non solo non esiste ancora, ma non sappiamo cosa voglia dire concretamente. È un’intuizione, ma i suoi lineamenti non li disponiamo ancora. Siamo, dunque, nel passaggio da un modello che non c’è più, anche se ce ne sono ancora le tracce, a un modello immaginato che non c’è ancora, che non possiamo dominare, programmare, attuare, anche se ce ne sono già i germogli.
È stata una scelta importante. Rinunciare ad avere un modello chiaro. Disinnesca attese sproporzionate. Pone in prospettiva di rinuncia al controllo. Dispone al lavoro dello Spirito già presente che ci precede. Più che programmi – abitare spazi – si tratta di favorire e avviare processi, e di prendersene cura.
Per questo abbiamo operato una riformulazione terminologica per nulla scontata. Abbiamo sostituito il termine “parrocchia missionaria”, che rischia di diventare uno slogan bello ma paralizzante, perché vuoto di prospettive pratiche, con quello pratico, ma altrettanto carico di valore, di “parrocchie generative”. Dentro la situazione attuale delle parrocchie, pur continuando ad accompagnare qualcosa che sta andando alla fine, inserire gesti e parole generativi: questo è missionario. Dove si genera vita, c’è missionarietà, anche se non strutturata. Vita del Vangelo e vita umana. Questi segni generativi li abbiamo percepiti, raccontati, nominati, estratti come criteri di cammino. Da qui il titolo del libro.
Questa generatività va messa in atto in due direzioni: come offerta di nutrimento della fede di coloro che appartengono alla comunità cristiana, i battezzati, ma poi anche come offerta di fiducia e speranza per tutti coloro che abitano i territori geografici umani, dove è presente la comunità, anche se non aderiscono alla fede. Si tratta di nutrire la fede discepolare (consapevole o abitudinaria che sia) e favorire la fede elementare, di tutti.
Entrambe queste offerte di vita sono missionarie. La prima forma perché aiuta a ridiventare ogni giorno credenti, rimanendo aperti alle novità di Dio; la seconda forma di missionarietà è caratterizzata da un interesse disinteressato, che nasce semplicemente da un amore per le persone. La prima mira a generare discepoli e a rigenerare la Chiesa, la seconda si pone gratuitamente a servizio del Regno.
Alla fine, non consegniamo dei libri, ma uno sguardo, uno sguardo di speranza affidabile, che sceglie di mettersi a servizio dello Spirito. Non esiste più la “parrocchia tridentina”, non esiste ancora la “parrocchia missionaria”. Ma anche senza un modello sicuro in tante comunità parrocchiali il processo di una nuova germinazione è già avviato, bisogna favorirlo con pazienza.