Il 24 febbraio 2005, il primo ministro libanese Rafiq Hariri in un attentato perdeva la vita e fu emesso un mandato di cattura nei confronti dell’ex deputato filo-siriano Nasser Kandil, noto come il «megafono di Assad», secondo alcuni nascosto a Damasco.
Nel settembre 2005, percorrevo la Siria e il Libano. Nella capitale Damasco l’atmosfera era molto tesa. L’assassinio di Hariri continuava a tenere con il fiato sospeso la politica libanese e a rendere incerto il futuro del paese. Il 21 febbraio si era svolta a Beirut un’imponente manifestazione anti-siriana, che chiedeva il ritiro di 14.000 militari presenti nel Libano dal 1976. La Siria non riconosceva il Libano come stato sovrano e indipendente dal 1941. I due Paesi non avevano rapporti diplomatici ed era vivo il sogno della «Grande Siria», che comprendeva il Libano.
Il 17 marzo iniziava il ritiro delle forze siriane dal Libano. A Damasco l’arcivescovo melkita Isidoro Battikta mi confermava che si era verificata una vera e sanguinosa caccia alle streghe, con azioni di violenza, assassinii di siriani inermi. Il 26 marzo iniziava la seconda fase del ritiro delle truppe siriane, che si concluse il 26 aprile 2005.
L’arcivescovo melkita di Beirut parlava di un Libano in trasformazione, alla ricerca di una stabilità da fondare sulla politica più che sulla confessionalità. «Senza la Siria, il governo libanese deve camminare con le proprie gambe e affrontare i problemi del Paese: la giustizia, l’uguaglianza sociale, la corruzione. Ma è la laicità la vera sfida».
Se in Libano si festeggiava la fine della presenza asfissiante della Siria, a Damasco si temeva che qualcosa di grave fosse nell’aria. Dopo l’inizio della guerra in Iraq (2003), la Siria era accerchiata: la Turchia a Nord, Israele a Sud, l’Iraq occupato dagli USA a Est. Per tenere calmi i turchi, il presidente Assad si era recato ad Ankara nel gennaio 2004. Lo infastidiva il fatto di essere ritenuto dagli USA presidente di uno «stato canaglia», costretto a subire nel maggio 2004 le sanzioni economiche contro il Paese. La sua sedia presidenziale non era così sicura.
Eletto il 17 luglio 2000, doveva sottostare alla linea del partito Baath, che dominava il Fronte nazionale patriottico, una coalizione di sei partiti, presente nell’Assemblea del popolo con 167 seggi su 250.
L’arcivescovo melkita di Damasco Isidoro fu categorico e indignato quando mi ricevette: «Ci si accusa di terrorismo? È terrorismo lavorare per la libertà, difendere il Paese, far rispettare i propri diritti? Non c’è terrorismo siriano. È tutta un’invenzione. Si accusa la Siria dell’assassinio di Hariri in Libano. Perché sempre la Siria, quando ci sono questi episodi drammatici? Io penso piuttosto alla mano della mafia internazionale. Conviene alla Siria che il Libano sia in pace. Se il Libano fiorisce, è merito della Siria. Né l’America né la Francia lo capiscono. Il ritiro delle truppe siriane dal Libano è stato imposto, forzato. La Siria doveva uscire, ma non in così breve tempo. Questo ha creato malessere. Il governo siriano si trova ora di fronte a una montagna di calunnie, sospetti, trame, per cui s’impone un forte richiamo all’unità nazionale per difendere il Paese. Il governo si sta comportando bene sul piano internazionale. Il giovane presidente Assad è all’altezza della situazione. È buono, vicino al popolo, è profondamente democratico, rispetta l’islam moderato e il cristianesimo. Lo conosco bene. Qualche tempo fa gli ho chiesto: “Signor presidente, come mai è così dimagrito?”. Mi ha risposto: “Non mi lasciano in pace”».
Era da supporre che non lo lasciassero in pace gli americani, i francesi, gli israeliani, ma anche quelli del partito Baath, che gli rimproveravano di non essere come suo padre. Negli ambienti filo-Assad di Damasco si sosteneva che era nell’interesse di tutto il Medio Oriente che restasse in carica anche nel futuro. Il grande problema di al-Assad era il partito Baath, dal quale dipendevano il respiro democratico della Repubblica o la sua asfissia, la libera partecipazione dei cittadini o l’abulia, la libertà e l’autonomia delle istituzioni o la loro soppressione illiberale.