Le chiese in Italia sono oltre 100.000 e debbono oggi affrontare sfide di gestione, uso e conservazione, tra pratiche liturgiche, progetti comunitari e ibridazione funzionale. Per gentile concessione riprendiamo l’articolo apparso su Il giornale dell’Architettura il 4 dicembre 2024.
Le chiese delle diocesi italiane secondo il censimento che la Conferenza Episcopale Italiana (CEI) porta avanti dal 2000, sono circa 67.700. La gran parte di esse è dotata di scheda pubblica online, accessibile sul portale BEWEB (Beni ecclesiastici sul Web), ove si possono trovare notizie storico-descrittive sulla propria parrocchia o sulla chiesa d’affezione.
Chiese in vendita: quando il sacro incontra il mercato
Tuttavia, a questo preziosissimo regesto, sfuggono ancora molti immobili, poiché la CEI, in questo primo scandaglio delle chiese d’Italia, ha adottato quali criteri selettivi la permanenza dell’uso liturgico (ancorché saltuario) e la proprietà diocesana. Si intuisce che le chiese escluse da queste categorie siano numerose, sebbene quantificarle sia una scommessa. Si devono infatti stimare gli edifici di culto nella proprietà degli ordini religiosi (da quelli medievali a quelli ottocenteschi e contemporanei), gli oratori e le chiese delle confraternite, quelle che appartengono allo Stato (Fondo edifici di culto – FEC – in testa, ma anche Demanio) e quelle afferenti ad altre proprietà pubbliche (Comuni, Aziende sanitarie locali ecc).
A queste occorre poi aggiungere gli edifici di culto nel possesso di privati, perché – si noti bene – in Italia una chiesa può essere comprata e venduta e sempre chiesa rimane, fintantoché un esplicito e motivato atto di dismissione del Vescovo diocesano, udito il consiglio presbiterale, la riduca ad uso profano non indecoroso, con il consenso di quanti rivendicano legittimamente diritti su di essa e purché non ne patisca alcun danno il bene delle anime (CIC, can. 1222).
Così, se le chiese d’Italia facilmente superano le 100.000, la domanda immediatamente successiva è relativa al loro destino.
Chiese sparse e cuori divisi
Oltre ai numeri, conta anche la loro distribuzione: nonostante i recinti storici delle città vescovili ne vedano la massima densità, è il territorio extraurbano a contarne il maggior numero, con una proporzionalità diretta all’inclinazione e all’asperità del terreno. Se si isolano casi emblematici ove ragioni storiche hanno stratificato patrimoni chiesastici unici e incommensurabili (Roma e Napoli), i comuni con il maggior numero di chiese per chilometro quadrato s’incontrano ove forse nessuno si aspetterebbe: sugli Appennini e sulle Prealpi, ove gli edifici di culto sono l’esito di processi secolari di stratificazione e immagine di un’impronta insediativa del passato, meno sclerotizzata di quella attuale tra contesti urbani e territorio rurale.
La sfida di questa e della prossima generazione circa l’inevitabile scelta tra elementi da conservare e manufatti da consegnare ad altri destini è definita dalle quantità e dalla geografia sopra descritte, complicate da un ulteriore aspetto, mai rilevante come oggi: la comprensione sociale degli edifici di culto.
Essa non è univoca: i praticanti dimostrano per le chiese un’affezione cultuale, quindi estesa anche a edifici moderni e altrettanto aperta a un loro aggiornamento; le altre componenti sociali (maggioritarie) vedono nelle chiese nodi emblematici del paesaggio, punti di riferimento anche del proprio abitare, privilegiando le costruzioni storiche e biasimandone ogni mutamento, tanto della forma quanto dell’uso.
Chiese chiuse, il paradosso del sacro in stand-by
L’esempio eclatante è di queste ore: la riapertura di Notre-Dame restituisce ai francesi un monumento dell’unità nazionale prima e più che la cattedrale di Parigi. Anche il progetto di restauro, all’insegna del “com’era dov’era”, puntava al ripristino dell’icona, non della chiesa.
Si tratta di paradossi che, pur ad altra scala mediatica, investono anche i nostri contesti. Nell’inerzia delle diocesi a sviluppare strategie d’area vasta sull’intero patrimonio immobiliare, non mancano situazioni in cui si restaura il contenitore senz’alcun progetto di contenuto, finendo per ampliare il bacino ossimorico di «chiese chiuse», di cui al volume di Tomaso Montanari (Einaudi, 2021).
Favorisce una tale situazione di stallo l’intreccio di una consuetudine tutto sommato recente che concentra nei soli sacerdoti la gestione dei beni (estinguendo, per esempio, il ruolo delle confraternite) e di una Istruzione in materia amministrativa della CEI (2005) che al n.128 afferma: «La dedicazione di una chiesa al culto pubblico è un fatto permanente non suscettibile di frazionamento nello spazio o nel tempo, tale da consentire attività diverse dal culto stesso», disposizione pur autorevolmente contraddetta dallo stesso pontefice, che nel 2017, in visita a Bologna, partecipò a un pranzo organizzato dalla Caritas diocesana nella navata di San Petronio.
Chiese 2.0: nuove funzioni
Del resto, già sant’Agostino, scrivendo delle Basiliche romane, le diceva «magnae et latae», evocandone una dilatazione non solo volumetrica ma anche funzionale, per il carattere di rifugio che esse offrirono durante il sacco di Roma. Altrettanto nella predicazione del Cristo la preoccupazione per uno spazio riservato al culto non solo è assente ma anche negata (basti pensare all’annuncio della distruzione del Tempio) e il primo cristianesimo – non solo per le persecuzioni – fu una religione di case, non di chiese.
A partire da tali sollecitazioni, il professor Albert Gerhards, intervenuto in una conferenza a Bologna, ha motivato le sperimentazioni che si stanno conducendo oltralpe circa un’ibridazione degli spazi di culto che, consapevole del significato dei poli liturgici e della funzione principale delle chiese, ne ammetta però anche altri usi, secondo criteri di simultaneità (come la chiesa di San Bonifatius a Duren, asilo nei giorni feriali) o separazione (come in san Bernardo a Colonia, ove il transetto è rimasto dedicato alla liturgia e la grande nave è divenuta deposito per gli arredi sacri di altre chiese già ridotte a uso profano).
Chiese in comunione con la comunità
Si tratta di ricondurre le chiese alla gestione dell’intera comunità ecclesiale, in modo che possano diventare un sostegno all’abitare per le comunità in prossimità: un indirizzo senz’altro pertinente anche per i contesti italiani in spopolamento progressivo.
La direzione è quella suggerita dalle linee guida elaborate dall’allora Pontificio consiglio della cultura (oggi Dicastero per la cultura e l’educazione) nel 2018, in occasione del convegno internazionale Dio non abita più qui?: se le chiese sono sovente il frutto delle donazioni in termini di denaro e di tempo di una specifica comunità locale, è con questa che se ne deve progettare il futuro, come occasione e opportunità.
In Italia, emblematico è il caso avviato da don Antonio Loffredo e dalla Cooperativa «La Paranza» da lui fondata, mediante la quale le chiese del Rione Sanità a Napoli sono state riaperte, hanno trovato una specializzazione funzionale che ne ha fatto motore di attrazione e orgoglio di un lembo di città, nonché nuova possibilità occupazionale.
Se l’esperienza partenopea è ormai consolidata, una sfida concreta si apre ora in Emilia-Romagna. Qui l’occasione è fornita dalla Regione che, con la legge n. 7 del 14 giugno 2024 ha istituzionalizzato la possibilità di colombari privati, ammettendo un ritorno delle sepolture (in forma di urne cinerarie) nelle chiese.
Si tratta ancora una volta di un’ibridazione dello spazio liturgico che in Germania ha una tradizione ormai ventennale, e che tuttavia, anche quando realizza architetture di grande eleganza e impatto emotivo, come a St. Joseph o a St. Donatus ad Aachen o a San Bartolomeo a Colonia, non si produce come progetto, bensì anzitutto come processo, muovendo da un percorso con le comunità in grado di dilatare le responsabilità sullo spazio, individuare nuovi servizi e nuovi ruoli, ripensare gli spazi sovrabbondanti in dotazione alla Chiesa non solo come onere, bensì come nuova opportunità sociale, individuando percorsi (prima di forme) mediante i quali gli edifici ecclesiastici possano onorare lo scopo fondamentale per il quale essi sorsero, ovvero il bene pubblico.