75 atenei e centri di ricerca in 9 paesi europei (Danimarca, Italia, Germania, Polonia, Regno Unito, Serbia, Spagna, Svezia, Ungheria), oltre 27 mila studenti alle soglie del diploma di scuola superiore, e poi ricercatori, comunicatori della scienza, esperti di bioetica e biodiritto, filosofi, sociologi, storici della medicina e della biologia, farmacologi, giornalisti: sono queste le cifre che hanno caratterizzato l’ultima edizione dell’UniStem Day che si è svolta venerdì 17 marzo in centinaia di città di tutta Europa all’interno della Settimana del cervello (e sabato 18 le competizioni regionali delle Olimpiadi delle neuroscienze in vista della finale nazionale di maggio a Catania).
«L’Europa unita dalla scienza» recita il sottotitolo dell’iniziativa giunta ormai alla sua ottava edizione, un progetto su scala nazionale e internazionale promosso da UniStem, il Centro interdipartimentale di ricerca sulle cellule staminali dell’Università di Milano, fondato nel 2006 dalla biologa sen. Elena Cattaneo insieme a G. Cossu, F. Gandolfi e Y. Torrente. Una miriade di iniziative coordinate dagli atenei e articolate in una serie di conferenze che si propongono di favorire un incontro con la realtà della ricerca e contribuire alla diffusione della cultura scientifica attraverso il racconto dalla diretta voce dei ricercatori.
Una modalità per avvicinare – quasi «aprire» – il mondo dei laboratori non solo a quanti, in un prossimo futuro, forse decideranno di prepararsi ad entrarvi per lavoro, ma anche a coloro che sono chiamati a riflettere sulla ricerca stessa e sugli interrogativi che possono sorgere via via. Come dire un’occasione in più (da non perdere!) per filosofi, sociologi, docenti di religione, studenti dei corsi teologici e tutte le persone che intendono porsi umilmente in ascolto di ciò che oggi la ricerca fa o ha in mente di fare.
Una speranza chiamata cellule staminali
Basterebbe citare la truffa di quello che è stato chiamato «Metodo Stamina» – per cui sono già stati celebrati processi e comminate condanne – per evocare quanto la disinformazione possa giocare brutti scherzi, cui i media spesso hanno dato corda (quanto si è scritto sul presunto diritto delle famiglie dei piccoli ammalati di ottenere le cosiddette “cure” e quanto poco sulle prese di posizione di biologi e medici che mettevano in guardia dalle bufale che facevano leva sulla disperazione di tanti genitori …).
Non è mai troppo tardi per conoscere la realtà ed è estremamente significativo che il Pontificio consiglio della cultura abbia deciso già da alcuni anni di seguire la ricerca in questo campo: si era svolta infatti nel 2013 in Vaticano la II Conferenza internazionale sulle cellule staminali adulte alla presenza di sir John Gurdon, premio Nobel nel 2012 insieme al giapponese Shinya Yamanaka per l’orizzonte aperto dalle IPS Cells, la possibilità di “riprogrammare” una cellula adulta in cellula pluripotente indotta e riportarla quindi alla condizione di cellula staminale embrionale, capace di differenziarsi in ogni tipo di cellula nervosa, muscolare ecc. eliminando interrogativi etici che derivano dall’utilizzo della massa contenuta nella blastocisti embrionale (che, di fatto, sacrifica l’embrione).
Fin dal 1868 – anno di scoperta delle cellule staminali, chiamate così dal biologo tedesco Ernst Haeckel – la medicina ha investito molto sulla ricerca del loro utilizzo terapeutico generando talvolta anche qualche illusione tanto che sono diventate oggetto di dibattito nell’opinione pubblica e di interesse a livello politico e religioso per i risvolti etici non indifferenti.
Gli studenti di scuola superiore apprendono dai corsi di biologia che l’unico tipo di cellule staminali che possono essere considerate “totipotenti” (in grado di specializzarsi in tutti i tipi cellulari) sono l’ovocita fecondato definito zigote e i blastomeri, ossia le cellule della morula (embrione a 2-4 giorni di sviluppo). Successivamente la parte più interna della blastocisti, cioè l’embrione a poco più di 1 settimana di vita, è occupata da cellule staminali “pluripotenti” che daranno origine ai foglietti germinativi da cui derivano tutti i tipi di cellule e organi dell’organismo.
Già al momento della nascita le loro potenzialità si riducono ulteriormente e cellule staminali “multipotenti” si trovano anche nell’individuo adulto, ma con capacità di specializzarsi in un numero limitato di tipi cellulari solo all’interno del tessuto in cui si trovano. Per fare un esempio: nel midollo osseo si trovano cellule staminali ematopoietiche, che danno origine a tutti i tipi di cellule mature del sangue, e cellule mesenchimali che si differenziano solo in cellule dell’osso, della cartilagine e degli adipociti. Ancora meno “speciali” sono infine le cellule staminali “uni-bipotenti” che possono specializzarsi solo in uno o al massimo due linee, come quella della pelle o del muscolo scheletrico.
Dall’autunno scorso in Australia è in corso un trial clinico su 8 pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer, curati con cellule staminali embrionali, con risultati più che positivi. Questa patologia ha un’incidenza dell’1-2% nella fascia 65-75 anni, ma sale al 50% sopra gli 85 tanto che oggi nel mondo si calcolano oltre 35 milioni di casi (e le proiezioni danno 65 milioni nel 2030 e oltre 115 nel 2050); si può ben immaginare la speranza non solo per i malati e le loro famiglie, ma anche per quanti a livello politico sono chiamati ad una spesa sanitaria in continua crescita … senza che diminuiscano di un epsilon i gravi interrogativi dal punto di vista etico.
La ricerca (talvolta sconosciuta)
Un motivo in più per seguire con interesse la scoperta nel 2006 delle IPS Cells, le cellule staminali pluripotenti indotte che, dopo opportuno trattamento (4 fattori di trascrizione), assumono il medesimo comportamento delle cellule staminali embrionali e sono in grado di dare origine a tutti i tipi cellulari di un organismo (senza l’utilizzo di embrioni). È una tecnica che in questi anni ha già rivoluzionato la medicina rigenerativa, quella branca che ha lo scopo di riparare tessuti oppure organi danneggiati mediante rigenerazione o rimpiazzo di cellule (pensiamo al mito di Prometeo e alla sua drammatica punizione da parte di Giove adirato: durante il giorno l’aquila gli squarciava il ventre divorando il fegato e durante la notte questo ricresceva …).
Ma la ricerca non si ferma qui: mentre gli animali hanno straordinarie capacità rigenerative, l’uomo le ha quasi completamente perdute, pur mantenendo la capacità di riparare alcuni tessuti danneggiati. Eppure molti dei geni che regolano i processi di invecchiamento di un verme (Caenorhabditis elegans) sono stati ritrovati nei mammiferi e anche nell’uomo aprendo così nuove prospettive.
Si è già arrivati poi dalle IPS Cells alla costruzione di “organoidi” (una sorta di microsistemi bonsai, tipo reni in miniature per fare un esempio): si tratta della possibilità reale di avviare di volta in volta percorsi complementari alla sperimentazione animale, spesso presa di mira dagli animalisti o comunque discussa.
A questo riguardo una riflessione è venuta proprio in occasione dell’ultimo UniStem Day nell’ottica della ricerca di nuovi farmaci. Stefano Biressi PhD, ricercatore del Centro interdipartimentale di biologia integrata dell’Università di Trento, ricordava il lungo iter che porta alla commercializzazione di un farmaco: non meno di 10-15 anni di ricerca con una riduzione di 10.000 a 1. Si inizia con una fase preclinica, in vitro e poi in vivo, su cellule staminali di un organismo modello malato (ad esempio un topo) con trasferimento genetico mediato da virus (tipo cavallo di Troia) e successivo reimpianto. Segue una fase preparatoria con l’adattamento dei protocolli da animale all’uomo e l’avvio di una sperimentazione clinica su volontari sani (per un controllo) e su pazienti malati. Diverse sono le sperimentazioni corso nel mondo: pazienti affetti dalla sindrome di Wiskott Aldrich, da ß-talassemia, da leucodistrofia metacromatica, mentre è aperta la ricerca sull’ADA-SCID, la terribile patologia di cui sono affetti i cosiddetti “bambini bolla” perché privi di difese immunitarie a causa di una proteina, l’Adenosin-Deaminasi.
Non è una novità che alcuni giudichino negativamente l’utilizzo di animali o che questa sia anche oggetto di riflessione bioetica, ma, attualmente, non sembra esserci alternativa, come affermano altri due ricercatori del CIBIO, Luciano Conti e Sergio Robbiati (quest’ultimo a capo dell’organismo preposto per il benessere degli animali): se il principio fondante è la similarità uomo/animale l’uso di organismi modello si rende necessario prima di passare alla sperimentazione sull’uomo, sia per studiare un fenomeno biologico che una malattia, e quindi individuare un farmaco che la curi.
Il loro utilizzo chiede però delle responsabilità oggi codificate in quelle che nel mondo anglosassone vengono chiamate le Five Freedom: l’animale non deve soffrire fame o sete, deve essere stabulato in maniera appropriata, non deve soffrire a causa di ferite, deve essere in grado di esprimere il suo comportamento e infine non dovrebbe essere costretto a provare paura o stress (il condizionale è d’obbligo perché l’etologia è alla ricerca per conoscere le risposte).
Per questo, laddove se ne può fare a meno, la sperimentazione avviene su organismi a stadi evolutivi inferiori, come ad esempio lo Zebrafish, un pesciolino assai utilizzato nei laboratori (un corpo semitrasparente di circa 4 cm che vive in branco) con enormi potenzialità legate alla fecondazione esterna e quindi relativa manipolazione di embrioni, per indurre, e studiare, mutazioni (come la microcefalia), ma per lo studio di malattie nervose rigenerative non è probante, spiegava Simona Casarosa PhD docente all’Università di Trento, in quanto – grande differenza pesce/mammifero – lo Zebrafish è in grado di rigenerarsi, mentre l’uomo no.
Ora, non potendo prelevare neuroni umani per studiare la patologia in pazienti affetti da Alzheimer, l’uso delle staminali rappresenta oggi un’ottima soluzione.
Invece un topolino, come «mdx», è invece utilissimo per studiare la distrofia muscolare di Duchenne, una grave malattia degenerativa che colpisce muscoli scheletrici e cuore di cui sono affetti circa 1.500 bambini italiani e di cui se ne conosce la causa, una proteina (distrofina) mancante.
Riflessione “e” conoscenza
In questo panorama che si allarga sempre di più, bioetica e biodiritto sono chiamati in causa quotidianamente: se la Costituzione rappresenta il testo fondante (in particolare gli artt. 9, 32 e 33) per garantire libertà e limiti contro il rischio dei condizionamenti dei poteri, come spiegava a Trento Marta Tomasi del Dipartimento di giurisprudenza, per quanto riguarda la bioetica le riflessioni sono spesso diversificate fra credenti, non credenti o diversamente credenti. E la schiera di domande si allunga.
Solo qualche esempio. Che possiamo dire se esistono in commercio dei farmaci salvavita, ormai ritenuti indispensabili e spesso usati anche in veterinaria, ma individuati attraverso sperimentazione animale?
E ancora: perché non viene incentivata la donazione del cordone ombelicale, ormai ritenuto lo strumento migliore per prelevare cellule staminali più efficaci di quelle del midollo osseo? (e questo è un problema che si ritrova in tutto l’ambito della donazione degli organi…).
Infine una considerazione: la riflessione sulla ricerca è quanto mai doverosa da parte di tutti (pensiamo al Forum di bioetica che si svolge ogni anno a Strasburgo), ma prima occorre conoscere l’oggetto di cui si parla. Le occasioni per informarsi sull’attività degli scienziati non mancano.
Come, in occasione della prossima Giornata mondiale dell’acqua prevista per il 21 marzo: a Roma presso l’Accademia dei Lincei un convegno su «Strategie di adattamento alla domanda e alla disponibilità di risorse idriche». Oppure, sempre a Roma a Palazzo Corsini il 4-5 aprile, «From evolution to neuroscience».
Ma forse sarebbe anche necessario riflettere quando si varca la soglia di una farmacia: il “costo” di quel farmaco che riteniamo indispensabile per noi o i nostri figli o i nonni anziani … è ben di più di quello che paghiamo, ad ogni livello.