Povertà: le risposte mancate

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effetti della povertà

È esperienza comune constatare, nella vita di ogni giorno, gli effetti della povertà. I numeri statistici parlano di milioni di italiani poveri. La crisi economica che morde l’Italia, ma anche il mondo, ha ridotto prima che i consumi, la produzione di merci e di servizi. Chi è minimamente disponibile ad aiutare è subissato da richieste di lavoro di tutte le età e di tutte le condizioni, con curricula che circolano, con scarse probabilità di almeno un colloquio. Inizia così un girare a vuoto che crea angoscia e buio, perché il lavoro “non c’è”. I pochi posti di lavoro sono distribuiti tra i familiari e gli amici più stretti, lasciando tutti gli altri a piedi.

È un problema serio, perché le ricchezze sono in possesso di poche mani: chi agisce nella finanza, chi ha posti privilegiati, chi ha accumulato, in tempi di abbondanza. Né si vedono alternative. I grandi committenti latitano, lo Stato balbetta, i piccoli e medi imprenditori sono in serie difficoltà, costretti a ridurre o a chiudere le loro attività.

Né esistono prospettive economiche e politiche capaci di attivare la celebre “ripartenza”.

Si creano due società: la prima – composta di pochi – che non sente la crisi, ma viaggia con risorse abbondanti, e la stragrande parte della popolazione costretta a sopravvivere.

In questo schema non bisogna dimenticare i “disperati”: chi non ha lavoro, non ha casa, non ha famiglia: una vita crudele, perché costretta alla pura sopravvivenza.

La Chiesa e i suoi interventi

La Chiesa fa quel che può, ma lambisce le situazioni più drammatiche e al limite della sopravvivenza. Pacchi alimentari, qualche bolletta pagata, medicinali, vestiti usati. Ma non può – perché non ne ha capacità – intervenire sui grandi flussi della crisi.

Ai suoi sportelli accedono le persone più disperate che si accontentano di un cibo caldo al giorno e di qualche maglione o paio di scarpe in buono stato. Tale crisi è di tale entità che sovrasta ogni organizzazione locale benefica.

Ciò che meraviglia è che, a distanza di anni, non si sia percepita la crisi nella sua vera dimensione e soprattutto non si sia reagito.

A livello teorico si è innescata una polemica – sterile per la verità – tra la teoria (rafforzata recentemente) del libero mercato e il suggerimento per un diverso stile di vita.

Qualcuno ha messo sotto la lente di ingrandimento le parole dell’enciclica Laudato si’ che ha accennato alla decrescita vivibile. Le due tesi – nella sostanza – sono agli antipodi. Il libero mercato, secondo i suoi sostenitori, permette una migliore condizione a tutti, anche ai poveri: si lasci dunque che le sue dinamiche si espandano, togliendo ogni laccio di frenata. La seconda tesi risponde che la ricchezza non è espandibile all’infinito: occorre intervenire nella domanda, per mezzo di consumi più attenti e moderati.

La dottrina sociale della Chiesa non aiuta. Sono affermati i principi generali (giusti) sull’economia distributiva, e recentemente su quella contributiva, ma non ha avuto la forza di suggerire vie alternative. Nella pratica di ogni giorno la stessa economia ecclesiale segue l’orientamento classico, prevalente in tutto l’occidente, del libero mercato, lasciando ai singoli (persone e istituzioni) di regolarsi secondo la propria sensibilità spirituale.

Lo stesso concetto di “povertà evangelica” è rimasto legato a impegni personali, in stili di vita che non sono comunicabili, perché interpretati come “virtù eroiche”.

Il futuro

Solo una fortissima conversione permetterà di dare risposte cristiane alla povertà (e all’economia).

Il primo passaggio può essere ripreso dal versetto del salmo: «Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti. È lui che l’ha fondato sui mari e sui fiumi l’ha stabilito» (Sal 24,1).

Le parole sembrano rivolte, come favola, a dei bimbi per raccontare una storia fantastica. A ben riflettere, il salmo suggerisce il rapporto diretto delle cose terrene con l’azione creatrice di Dio. Non siamo più abituati a collegare la parola della Scrittura alla vita reale. Ciò è avvenuto da secoli, a partire dalla discussione dei prestiti dei Monti dei pegni che i francescani dichiaravano dovessero essere gratuiti e che invece l’azione mercantile lentamente dichiarò onerosi. Da lì si è innescata la discussione – spesso povera – su quanto e come l’iniziativa personale dovesse essere retribuita, lasciando ai lavoratori lo stretto necessario per vivere.

Si è perduta da allora la concezione che tutti gli strumenti per vivere – comprese le ricchezze – sono mezzi affidati da Dio per vivere una vita dignitosa. Si è creato il distacco dell’azione personale dalla visione creatrice di Dio che ha a cuore ogni creatura: non sono le persone, ma anche la natura, gli animali, l’ambiente.

Le preoccupazioni della propria sicurezza sono diventate così invasive da dimenticare che: «Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?”» (Lc 12,20).

Non solo “opere di misericordia”

Il secondo passaggio può essere ritrovato nell’esortazione di Paolo nella finale della Lettera ai Romani: «Accoglietevi perciò gli uni gli altri come anche Cristo accolse voi, per la gloria di Dio» (15,7).

Questa volta l’esortazione è alla reciprocità, fondata non soltanto sulla fraternità universale – come dirà molto più tardi la Rivoluzione francese – ma sulla redenzione operata da Cristo.

Troppo a lungo la carità è stata affidata alla morale, dimenticando che la carità è una virtù teologale che non può essere ridotta alle “opere di misericordia”.

È lo sforzo che papa Bergoglio sta facendo con il suo insegnamento. A ben riflettere, se le virtù della fede e della speranza sono state vissute come virtù collegate direttamente a Dio, la carità è rimasta una virtù talmente vaga da oscillare tra i sentimenti di religiosità personale e un vago senso di appartenenza alla propria confessione.

La carità deve scendere, per essere tale, nei comportamenti personali e collettivi. Sono infiniti i riferimenti al rispetto reciproco, all’amore del prossimo, alla creazione di un unico popolo di Dio.

Tutto ciò non solo per impegno morale, ma per il divino progetto della creazione prima e della redenzione poi. La religiosità autentica assume dalla vita naturale tutti gli elementi (personali, naturali, comportamentali), per dare senso soprannaturale all’azione divina. C’è un rapporto strettissimo tra vita concreta e vita spirituale. Scindere tale rapporto significa svuotare i messaggi religiosi.

Mi rendo conto che le considerazioni appaiono anche generiche e lontane da indicazioni pratiche di condotta: senza recuperare il senso profondo della religione cristiana, saremo costretti a vivere e a subire le contraddizioni delle disuguaglianze, con la relativa povertà.

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