V Quaresima: Gesù vince la “seconda morte”

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La quinta domenica di quaresima A conclude il trittico liturgico di domeniche contenenti ampie letture evangeliche predisposte per la preparazione dei catecumeni a ricevere il battesimo nella veglia pasquale. Il battesimo è acqua viva (III domenica), luce nuova (IV domenica), vita eterna (V domenica). Il battesimo ci inserisce profondamente nella persona di Gesù risorto, ci impianta in lui, rendendoci figli nel Figlio, “cristiani”, cioè appartenenti a Cristo e al suo corpo vivo, la Chiesa, popolo di fratelli.

La quaresima è un tempo fecondo ad alto peso specifico (kairòs), un tempo santo di rifondazione spirituale, ristrutturazione generale dei fondamentali della vita cristiana. Non si può vivere senza l’acqua, la luce e la vittoria sulla morte portata da Gesù.

Vi faccio «salire» dalle vostre tombe

Tutta la casa di Israele va dicendo: «Le nostre ossa sono inaridite, la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti» (Ez 37,11). Il versetto tralasciato nella lettura liturgica, illustra la prostrazione generale che impregna il popolo rientrato dall’esilio babilonese nel 538 a.C. Non è solo la mancanza delle proprie case a deprimere a morte la parte di popolo che ha deciso di rientrare, quanto la “secchezza” della propria capacità operativa, derivante a sua volta dalla mancanza di speranza, andata distrutta. Mancano i fondamenti, mancano le prospettive che tengono in vita.

Come loro, a volte anche noi ci sentiamo degli «sradicati» (gzr, 37,3), gente che vaga per lande desolate, morti dentro, morti che camminano. Il popolo è disgregato, non mancano le liti interne per il recupero delle case lasciate libere dagli esiliati e ora occupate dalla poveraglia lasciata indietro dai babilonesi. Bisogna “salire”, occorre venire fuori da questa situazione.

Ma il tasso di depressione è troppo alto e, alla fine, non si ha più voglia di niente. Occorre che intervenga un poderoso aiuto esterno amico che faccia leva sulle residue energie spirituali e psichiche del popolo per “aprire” il tetto di piombo che incombe sulla testa e sulla mente della gente come una cappa che toglie il respiro e la visione di un futuro.

YHWH promette al «resto» rimasto in Giuda e al «resto» che ha scelto di tornare dall’esilio di aprire (pāta) il loro mondo a prospettive di vita, di farli salire (‘ālāh) da tombe psichiche che rinserrano l’esile fede terremotata dagli eventi che ti lasciano storditi e increduli anche dopo anni e di farli venire (bô’) nella terra di Israele.

È il tragitto che Giuseppe compirà tornando dall’Egitto con Gesù e Maria dopo la morte di Erode il Grande (cf. Mt 2,20.21, uniche menzioni della «terra di Israele» in tutto il NT!). Il Signore YHWH ripete due volte la sua promessa, perché il popolo è frastornato e depresso. «Non vi abbandoneremo», sono le parole ripetute in questi mesi ai nostri fratelli colpiti dal terremoto. E così fa il Signore YHWH. Il popolo «conoscerà» (yāda’) il suo Signore proprio mentre riceverà la vita.

Non rivivranno, ma vivranno per la prima volta, perché YHWH annuncia: «Donerò in voi» (nātan bākem) il mio spirito (î)». Un respiro divino, un’apertura di cuore e di speranza dagli orizzonti sconfinati. Uno spirito che stabilizza le radici degli occhi con i quali si guarda in avanti. Un dono immenso, divino, che internalizzerà una vita divina che dà vita, unità, speranza e «riposo» (nûa) sul proprio territorio, nel proprio paese. Conoscerete il vostro Signore nella liberazione che vi donerà, una vita nuova, una vita di risurrezione nazionale.

Un popolo torna a essere vivo, unito, concorde, non litigioso, attento alle necessità dei più fragili, che sa dare speranza ai più giovani e non la spegne negli anziani. Un popolo unito, non rancoroso e dominato dagli egoismi nati dalla dittatura dei diritti individuali che scavalca e disautora l’onerosa solidarietà fattiva, che di fa carico dei pesi della vita dei propri connazionali, dei propri fratelli.

Il pungiglione della prima morte

Il pungiglione della morte (cf. 1Cor 15,55-56) non risparmia neanche la famiglia composta di soli fratelli, “fraterna” e non “patriarcale”. Non è valsa una vita intera di amicizia che metteva a disposizione del maestro una “casa degli amici”, calda dimora di rifugio, di riposo, di ricarica affettiva. L’affetto totale degli amati amici per l’Amico amato non li pone al riparo dal tocco malefico dell’«ultimo nemico» (cf. 1Cor 15,26) che deve essere ancora sconfitto, la morte. Questa è la battaglia definitiva, che investe buoni e cattivi. E a vincerla deve essere il generale in capo, affrontandola a viso aperto.

La personificazione stessa dell’amicizia – «colui che tu ami» – è malato gravemente. Sono frasi che lasciano senza fiato l’uomo Gesù. Ma la sua missione non è quella evitare tutte le malattie, di guarire ogni male. Sono manifestazioni che sconvolgono l’animo degli amici e dei parenti, ma non sono la «seconda morte» (cf. Ap 2,11; 20,14; 21,8), lo stagno di fuoco che allontana per sempre dalla fonte della vita e dell’amore, Dio Padre. La «morte prima» dell’amico fraterno non è il nemico vero, ultimo, ma il suo avatar, la sua controfigura. Gesù è il Rivelatore del Padre, è la via, la verità e la vita.

E le vittorie nelle battaglie impegnative, anche se non definitive, mettono in luce la “gloria” del Padre, il suo “peso” d’amore, che si manifesterà a pieno nella vittoria finale della guerra. Le battaglie vinte favoriscono la crescita della fede dei discepoli, anche in previsione dei tempi nei quali lo sposo verrà loro tolto.

Secondo alcuni studiosi, Gesù si è riparato in Batanea, nel territorio a est della Galilea, al di là del lago di Genesaret, patria dei “davidici”. Gesù si trattiene lì ancora due giorni, come aveva fatto con i Samaritani (cf. Gv 4,40). Al «terzo giorno» ci sarà la svolta decisiva. Gesù affronta il pericolo mortale in Giudea per risvegliare l’amico addormentato dalla prima morte. Gesù affronta la propria morte per liberare gli amici dalla «seconda morte». Lui è il giorno, è la luce del mondo (cf. Gv 8,12; 9,5) e vincerà in piena luce, senza nascondimenti o sotterfugi. Non è un mago arruffapopoli, è il guerriero che vince alla luce del sole.

Tuo fratello risorgerà!

Affrontare le lacrime degli amici è durissimo, anche per Gesù. Ascoltare il loro dolce rimprovero fa male al cuore. Sentire però la professione di fede e di fiducia rincuora l’animo. Il buon seme seminato ha fruttificato. La fede di Israele nella sconfitta dell’infido nemico mortale si è fatta largo poco a poco, ma con la presenza di Gesù l’animo giunge alla fede matura. Con Gesù è presente già ora la risurrezione e la vita, la sconfitta definitiva del male canceroso della «morte seconda».

La prima morte è destino comune degli esseri umani finiti, creature di Dio che adesso sentono però lo strappo del passaggio di quello che all’inizio doveva essere invece solo un dolce trapasso, un sereno addormentarsi in Dio, una “dormizione” come quella donata a Maria Vergine.

Marta crede con forza alla risurrezione finale, come pure la sua cara sorella Maria, la discepola prostrata ai piedi dell’Amico amato e suo Signore. Colui che doveva venire nel mondo è venuto. È il Cristo, il Figlio di Dio, l’Inviato del Padre. Ma è venuto “povero” di divinità eclatante, intruppato in una tenda arrangiata in qualche modo in mezzo all’accampamento di profughi in cammino (cf. Gv 1,14).

Quando gli amici piangono, quando tutti piangono – anche coloro che hanno forse idee diverse ma sono aperti al dialogo – anche l’intimo di Gesù «freme fortemente» (Gv 11, 33; cf. v. 38) e «si turba» profondamente.

Gesù aveva fremuto fortemente davanti al male sconfitto nei due ciechi (cf. Mt 9,30) e davanti alla lebbra vinta nel lebbroso che, nella sua commozione, aveva toccato con affetto (cf. Mc 1,43). Il male che deturpa l’uomo, creato a immagine e somiglianza incipiente di Dio, fa fremere Gesù nel profondo.

La prima morte, che malvagiamente interrompe le relazioni d’amore fra amici, «lo turba» nel profondo, scuotendolo nelle fibre sensibilissime della sua santa umanità. È lo stesso turbamento che proverà preannunciando la propria morte (cf. 12,27), ma a cui resiste perché proprio per questo egli è l’Inviato del Padre: egli è venuto proprio per sconfiggere la prima e la seconda morte ascendendo sulla croce gloriosa che attirerà a sé tutti gli uomini che credono in lui. Il tradimento perpetrato da uno dei Dodici in persona, Giuda, lo turberà ancora profondamente (cf. 13,21). Ma il cuore dei discepoli non deve turbarsi (cf. 14,1), perché Gesù va avanti a preparare un posto per i suoi amici, e lascia loro in dono la sua pace e il suo Spirito (cf. 14,27).

Le lacrime del guaritore ferito

Nel tragitto verso la grotta sepolcrale sbarrata da una pietra (11,28) – simile a quella che tenterà invano di inchiodarlo definitivamente nella morte ma che sarà gloriosamente «tolta» di mezzo (cf. 20,1) – Gesù «incominciò a lacrimare (edakrysen)». Nella sua sensibilità acutissima non riesce a resistere a tenere per sé il proprio dolore e non si vergogna di manifestarlo.

Non piange in modo scomposto, con alte grida e gesti plateali (klaiō: cf. Mc 5,38 le persone in casa di Giairo, ma anche Mt 26,75, il pianto amarissimo di Pietro, che non sa darsi pace del suo rinnegamento). Le lacrime scendono silenziose sul volto di Gesù, che trema tutto. «… nel tuo otre raccogli (śîmāh = poni, ti prego) le mie lacrime: non sono forse [scritte] nel tuo libro?» prega il salmista (Sal 56,9). Padre – Gesù avrà pregato –, poni nel tuo otre le mie lacrime e tutte quelle dei miei fratelli, specialmente quelle dei bambini… non lasciarle cadere per terra senza senso… tienile sempre strette alle mie, fuse insieme… e lasciale cadere sopra il tuo cuore come il tuo tesoro più prezioso…

Lasciate che se ne vada!

«Alzate/Togliete la pietra», comanda Gesù, così come sarà trovata alzata/tolta la sua al mattino di Pasqua (cf. Gv 20,1). Secondo la tradizione ebraica, al terzo giorno l’anima del defunto aleggiava sopra il cadavere e poi se ne allontanava definitivamente. Qui siamo al quarto giorno, e Marta, la sorella del «finito [definitivamente] (teteleutēkotos)», fa notare la situazione imbarazzante. Ma Gesù invita alla fede nella potenza gloriosa di Dio Padre. E poi alza gli occhi «verso l’alto» (anō, non tradotto dalla CEI) e ringrazia in anticipo il Padre, a nome di tutta la gente, per la sua presenza di vita.

Gesù è l’Inviato del Padre, perché dimostra che la sua missione è quella di dare la vita agli uomini. E allora Gesù alza forte la voce, chiamando imperiosamente per nome l’amico (11,3.11.36), l’amato (11,5): «Lazzaro, su, fuori» (11,43). E «il morto [definitivamente] (tethnēkōs)» uscì, i piedi e le mani legate con bende, e il viso avvolto da un sudario» (11,44). Quel sudario che – posto sul capo di Gesù – sarà trovato inspiegabilmente non posato vicino ai teli funerari, ma avvolto in un luogo a parte (20,7). Un morto che cammina, infagottato nei suoi stracci funerari! La potenza di Dio offre l’ultimo dei “segni” che hanno costellato la vita pubblica di Gesù nel Vangelo di Giovanni.

«Scioglietelo (lysate auton) e lasciate che lui se ne vada» libero, vivo, uomo a immagine e somiglianza di Dio. La sua non è una vera e propria risurrezione (tornerà a morire) né una rianimazione; sembra più corretto definirla, con altri studiosi, una rivivificazione.

Gesù ridona la vita fisica al suo amico Lazzaro e lo restituisce alla sua famiglia “fraterna”. Molta gente, al vedere il segno, comincia un cammino di fede, che si perfezionerà nella fede pasquale. Ma il ritorno in vita di Lazzaro – anticipo della vera e propria risurrezione di Gesù il mattino di Pasqua – sarà di fatto la goccia che, secondo il Vangelo di Giovanni, fa traboccare il vaso e fornirà agli avversari di Gesù l’occasione di decidere di metterlo a morte una volta per sempre (Gv 11,53).

Nel battesimo Gesù prende da noi la morte e ci dona la vita. È la vita del Signore, del Figlio di Dio, di Colui che doveva venire nel mondo. È la vita di colui che ci vuole bene, ci ama. È la vita dell’Amico. Gesù risorto è colui che ci scioglie da una vita ingessata di morti che camminano, per darci la gioia di gustare una vita piena – seppur segnata dalla «prima morte» –, sereni perché solo lui ha vinto la «seconda morte». E chi è sereno su quel punto, ha la pace nel cuore.

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