Ci fu un tempo in cui gli uomini erano semplicemente definiti “i mortali”. Lo stesso Omero usa questa parola – quella appunto di mortale – prima di quella di “uomo”, per chiamare in causa l’essere umano.
Il pensiero della morte – il pensiero di dover morire – era così inscritto dentro l’identità più spicciola dell’umano: nel suo nome. Chi sono io? Io sono un mortale: uno cioè chiamato a fare i conti l’evento della mia futura e certa morte. Questa lezione elementare sulla vita ha per lungo tempo aperto e dominato un certo modo di pensare e di progettare l’esistenza degli uomini e delle donne. Nel bene e nel male. Oggi siamo da un’altra parte.
La società “postmortale”
Sarà capitato già a molti di sentire l’espressione “società postmortale”. Ecco come la spiega Céline Lafontaine che l’ha coniata: «La nozione di postmortalità si riferisce […] alla volontà ostentata di vincere, grazie alla tecnica, la morte, di “vivere senza invecchiare”, di prolungare indefinitamente la vita».
Questo non significa che non si muore più; significa piuttosto che – grazie all’inedita speranza di vita media concessa ai noi cittadini occidentali e alle insistenze della ricerca medico-scientifica, che tratta sempre più la morte come una sorta di malattia da provare a debellare – siamo sempre meno capaci di accogliere la parola della morte: di considerarci fondamentalmente mortali.
La morte, allora, non è più la questione ultima intorno a cui decidere del nostro vivere, ma l’ultima fastidiosissima questione del nostro vivere, cui si darà attenzione quando sarà il momento.
La morte per questo non parla più. E questo vale già solo nel senso elementare che questo termine e il verbo relativo non trovano più spazio neppure sui manifesti funebri! La gente, oggi, infatti, scompare, viene a mancare, si spegne, si congeda, passa dal sonno al cielo… nessuno che semplicemente muoia! E in molti centri è completamente scomparsa la prassi dei manifesti funebri.
La morte “azzittita”
Ma più radicalmente la morte non parla più, in quanto non è più nel confronto con essa che si cercano quell’orientamento, quel contorno e quel luogo di decisione di cui pure ha bisogno l’esistenza umana.
Scrive Luciano Manicardi, priore di Bose: «La morte viene così azzittita, cioè negata come parola, impedita di svolgere la sua funzione di appello e di risveglio della coscienza, di indicazione di via per la vita. […] La ritrosia a “parlare la morte”, a nominarla, si accompagna all’operazione di negarle un tempo e uno spazio. Qual è il luogo della morte? Socialmente non è il luogo della vita, la casa, l’ambiente domestico, ma il non-luogo ospedaliero. Dal punto di vista del luogo corporeo, del corpo umano, la nozione di morte cerebrale non ha certo reso meno problematici i contorni della morte. Qual è il tempo della morte? Quando avviene la morte? La tecnicizzazione della morte implica […] l’incertezza del suo intervenire che resta diluito all’interno di un processo. Resa sfumata, la morte ha perso la consistenza della sua figura. Ma soprattutto, ciò che qui interessa è che la morte, non avendo più parola, cessa di insegnare. E intendo ‘insegnare’ nel senso etimologico di “fare segno”, indicare, fornire chiavi e simboli per interpretare la realtà. La morte, da grande maestra, viene fatta scendere dalla cattedra e spedita con vergogna dietro la lavagna».
“Società postmortale” significa, dunque, che la morte non parla più e che più nessuno ascolta la sua parola circa la finitezza e l’irripetibilità delle scelte umane. Al contrario, la cifra che contraddistingue il modo ordinario di stare al mondo, soprattutto quello della popolazione adulta, è lo stile di un giovanilismo senza freni e senza regole, inzuppato di narcisismo, cinismo e individualismo. Viviamo al ritmo di un vitalismo esagerato, che le dinamiche economiche hanno individuato e promosso quale vero mantra della felicità. Bisogna godere. Bisogna godere sempre. Bisogna godere tutto. Lo spazio per pensare ad altro e a dopo perde semplicemente consistenza.
La morte “espulsa”
Inoltre, una tale spinta vitale viene proposta sino a 70, 80 e 90 anni. Bisogna essere sempre in forma, sempre atletici, simpatici e pimpanti. Sempre fit! Guai a perdere qualcosa, a rinviare qualche piacere, a lasciarsi sfuggire qualche bella occasione!
Su questo sfondo si capisce perché anche i morenti perdano quasi ogni spazio possibile di cittadinanza nel nostro mondo: vengono normalmente affidati a strutture adatte o a personale estraneo alla famiglia, nell’attesa che giunga ciò che deve giungere. Sono un dato di realtà da cui si distoglie facilmente il volto. Del resto, è già prassi diffusa quella di non portare più i bambini ai funerali, neppure nel caso di parenti – penso ai nonni – cui essi sono stati particolarmente legati. Vi è insomma una profilassi della morte – dell’idea del dover morire – che tocca degli estremi semplicemente parossistici.
Ed è sempre commovente vedere come le persone che si approssimano all’ora della morte si sentano quasi sempre come un peso per le famiglie, una sorta di zavorra umana, titolari di un diritto a non più esistere, una breccia fastidiosa nella logica del vitalismo assurdo che ci domina. Lì dove non c’è spazio umano per la morte, non ce ne può essere neppure uno per i morenti. Non sarebbe forse il caso di ritornare all’antica sapienza di un Omero?
Don Armando Matteo, sacerdote della diocesi di Catanzaro-Squillace, è docente di Teologia fondamentale presso la Pontificia università urbaniana. Dal 2005 al 2011 è stato assistente nazionale della Federazione Universitaria Cattolica Italiana (FUCI).