Viganò: La comunicazione, rischi e opportunità

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Edoardo ViganòMons. Dario Edoardo Viganò, ordinario di Teologia della comunicazione alla Pontificia Università Lateranense, dal 27 giugno 2015 è prefetto della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede. Lo abbiamo incontrato recentemente a Loppiano e gli abbiamo sottoposto alcune domande sull’ambito specifico della comunicazione.

– Mons. Viganò, il primo gesto della comunicazione è l’ascolto. Lo ha ricordato nel seminario del Centro Evangelii gaudium a Loppiano (Firenze) il 6 aprile scorso. Che cosa significa?

«L’ascolto ci consente di assumere l’atteggiamento giusto, uscendo dalla tranquilla condizione di spettatori, di utenti, di consumatori. Ascoltare significa anche essere capaci di condividere domande e dubbi, di percorrere un cammino fianco a fianco, di affrancarsi da qualsiasi presunzione di onnipotenza e mettere umilmente le proprie capacità e i propri doni al servizio del bene comune» (Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali).

Questo particolare della dinamica comunicativa ce lo ha richiamato più volte papa Francesco. Infatti, non è possibile mettersi in relazione se non ci mettiamo in ascolto di quello che l’altro ha da dirci. Diversamente, diventa un’imposizione verbale unidirezionale, autoreferenziale, che non tiene assolutamente conto di colui che mi sta di fronte. Del resto, quando non si è in atteggiamento di ascolto si rischia di parlarsi addosso, manifestando i sintomi di una patologia spirituale che rivela i tratti dell’uomo vecchio, concentrato su un ego ipertrofico, su una eccessiva attenzione per se stessi. Mi riferisco a un individuo narcisista che non ha accolto nella propria esistenza le dimensioni della paternità e della figliolanza, tipiche della persona adulta capace di relazioni feconde con l’alterità. Così, non riconosciamo l’altro, non lo includiamo nella nostra vita, lo lasciamo semplicemente ai margini, per quanto ci può servire e, se non serve, lo escludiamo.

Da questo atteggiamento nasce la “cultura dello scarto”, di cui tanto parla papa Francesco, da uno stile autoreferenziale, in forza del quale è importante quello che pensiamo e quello che diciamo, il resto vale in quanto serve per confermarci nelle nostre posizioni, altrimenti viene ignorato. Ritorna l’interrogativo biblico “Dov’è tuo fratello?” (cf. Gen 4,9). Dio dopo aver chiesto “Adamo, dove sei?” (cf. Gen 3,9), come seconda domanda fa risuonare nel cuore la nostra responsabilità in ordine alla presenza o all’assenza dell’altro, del fratello, dalla nostra vita. Per ascoltare, per comunicare è necessario, come primo passo, che io faccia spazio agli altri nell’orizzonte della mia esistenza, altrimenti risuonerà una sola voce, la mia, una sola parola, la mia, sarà non un dia-logo, ma un mono-logo, con la presunzione che la mia parola coincida con la verità.

– Internet, social, cyber attacchi… Le “false notizie” condizionano la politica, i mercati, i consumi. Esistono “false notizie” nella Chiesa e nel dialogo interreligioso? Come riconoscerle?

L’esperienza ci insegna che i luoghi sono abitati da persone, le quali imprimono una fisionomia agli spazi del loro convivere. Infatti, ancora l’esperienza ci racconta di luoghi di lavoro accoglienti e altri che sono agitati da tensioni e che rendono l’aria irrespirabile; come pure ci sono comunità cristiane vivaci, feconde, improntate alla carità, e altre rese tristi dalle contese e sterili dai pettegolezzi e dalle lotte intestine.

Non è questione di luoghi, politica, economia, rete, Chiesa, dialogo interreligioso, ma di persone. Ogni persona porta la propria identità, il suo essere del Signore o il suo appartenere alle logiche mondane, schiava delle gratificazioni personali, del desiderio di appagamento e di prevalere anche a costo di calpestare i diritti e la dignità altrui. Il fine giustifica i mezzi, non importa anche se questi strumenti si chiamano falsità, logica diabolica e manipolatrice (cf. Gn 3,1-5). Dove convivono persone, c’è anche il rischio della menzogna, dell’alterazione della realtà, della falsificazione delle relazioni per interessi personali o del gruppo di appartenenza. Si tratta di una realtà che non possiamo ingenuamente ignorare.

Questa eventualità, non deve indurci allo scoraggiamento, al sospetto, alla rassegnazione, deve richiamarci a un di più di responsabilità riguardo all’educazione e alla formazione al dialogo sincero, all’ascolto reciproco, alla conoscenza tra persone diverse e tra culture e appartenenze religiose differenti. Oserei dire, più che suggerire o escogitare una strategia per smascherare le false notizie, converrebbe educare preventivamente a instaurare rapporti sinceri, improntati alla condivisione e all’accoglienza. Questo non significa pretendere di annullare le differenze, costringere l’altro, in un gioco di forze, a ripiegare sulle mie posizioni, ma imparare il rispetto delle diversità, scoprire la ricchezza delle differenze, avere uno sguardo positivo, di fiducia nei confronti di chi mi sta accanto.

L’inganno è sempre in agguato, dal momento che “i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce” (cf. Lc 16,1-8), ma questo non deve essere la ragione per chiuderci nell’autosufficienza e nella paura. Non dimentichiamo quanto suggeriva Tagore (a proposito di saggezza che proviene da altre esperienze religiose): “Non affannarti a chiudere le porte in faccia a tutti gli errori, perché rischieresti di lasciar fuori anche la verità”.

– L’informazione è il nostro ambiente. Vi è una sorta di naturalizzazione dei media nella nostra società. Come utenti social viviamo in una bolla autoreferenziale, con emozioni non controllate, una violenza verbale sorprendente e una non percepita dipendenza da gestioni tecnologiche inaccessibili. Quali antivirus sono contenuti nella comunicazione della fede e nel discepolato cristiano?

Che i media digitali, oggi, non siano più oggetti altri rispetto alla società è un dato di fatto. Infatti, si dice che sono stati naturalizzati, introiettati, e questo presenta certo notevoli vantaggi, non senza la necessità di alcune rinnovate assunzioni di responsabilità (pensiamo, ad esempio, a come oggi si sia facilmente disponibili a cedere parte delle propria privacy in cambio di connessione). Così, «sempre iperconnessi, immaginiamo di essere persone più efficienti, ma si tratta di un inganno. Il multitasking, in realtà, deteriora il nostro rendimento in tutto ciò che facciamo, dandoci però la sensazione di operare in ogni nostra attività con il massimo dell’efficienza. Per quanto ci faccia sentire bene, riesce in realtà a renderci meno produttivi. Senza dimenticare quanto la tecnologia sia carente dal punto di vista dell’“educazione ai sentimenti”: se reiterato, il multitasking si associa a depressione, ansia sociale e difficoltà nell’interpretare le emozioni umane» (S. Turkle, La conversazione necessaria, p. 57).

Oltre alle situazioni citate, che segnano il fronte più oscuro della comunicazione digitale, esiste – e non possiamo negarlo – anche un versante più luminoso, che consente possibilità comunicative impensabili fino a poco tempo fa, con cambiamenti epocali positivi e qualche incognita annessa. Del resto, se dovessimo consentire all’umanità solo i passi esenti da rischi, ne conteremmo davvero pochi. L’incognita, l’inedito, il nuovo portano con sé anche una componente di azzardo. Per esempio, esiste anche il rischio educativo, dal momento che nella relazione formativa tra persone non esiste la garanzia che l’educatore indovini tutte le scelte e chi è affidato risponda da manuale della pedagogia. Quando entra in gioco la libertà delle persone, subentrano gli interrogativi. Ma, secondo me, vale la pena correre qualche rischio per formare persone libere e responsabili, capaci e coraggiose di fronte a un futuro che riserva sempre qualche sorpresa.

Sostieni SettimanaNews.itQuindi, più che di virus e anti-virus, “preferisco non essere anti qualcosa o qualcuno”, creare degli antagonisti (il prefisso è lo stesso), guardo alla comunicazione della fede e alla scelta di seguire il Signore come a una responsabilità che mi viene chiesto di assumere nei confronti delle persone con le quali incrocio il mio cammino. Se io vivo la fede e la comunico come un itinerario che va dalla mia testa (da convertire) fino ai piedi degli altri (da lavare), credo di rendere l’idea dei criteri scelti come guida della sequela del Signore. L’altro può farmi del male, può rifiutare la mia proposta, questo non significa che la scelta sia sbagliata.

Non siamo così ingenui da non sperimentare che la vita riserva “notti e giorni del cuore”, ma non per questo perdiamo la speranza dell’alba nuova che sorge all’orizzonte. La fede passa attraverso il venerdì di passione ma per giungere all’incontro con il Risorto. “Ho visto il Signore” (cf. Gv 20,18), questo è l’annuncio che riempie di senso la nostra vita e, credo, anche quella delle persone che incontriamo. Quanto meno, si interrogheranno sulle ragioni che animano la nostra esistenza. Un interrogarsi serio sul senso della vita credo sia già un ottimo… “antivirus”.

– Si parla di post-verità; una fiducia che non ha né verifica, né riscontri, né vergogna. Come può combinarsi con la tradizione cristiana e cattolica relativa alla verità della Scrittura? E alla verità del magistero e del “sensus fidei” del popolo di Dio?

Accenno solamente al grande dibattito in corso oggi su tali questioni. «I media, infatti, mediano comunque la nostra rappresentazione della realtà (Thompson, 1995). Basta pensare a quanto di quello che conosciamo non è conosciuto per esperienza diretta, ma attraverso di essi. Ora, in questo lavoro di mediazione, i media costruiscono la realtà, non si limitano a rappresentarla: la notizia è sempre diversa dal fatto, come attestano oggi il proliferare delle “bufale” – le notizie false – e il dibattito sulla post-verità. Con questo termine di derivazione inglese si fa riferimento alla verità dei media, condizionata dalle manipolazioni e segnata più dal suo impatto emotivo che non dal suo rapporto con la verità. La mediazione educativa serve anche a questo livello: insegna il sospetto, fornisce gli strumenti per l’analisi critica, è fattore di libertà» (cf. P.C. Rivoltella, La difficoltà di educare ai tempi del digitale, in Consacrazione e Servizio 2/2017, p. 68).

Fatta questa necessaria premessa sul mondo digitale, ricordo che usare l’espressione “post-verità” non significa che la verità sia superata nella sua necessità. Piuttosto vuol dire che siamo in uno scorcio storico in cui la “società liquida” ha reso più difficile avere dei punti di riferimento certi e sicuri. In questo senso, talvolta, diventa complicato risalire alle fonti, ottenere certezze, vedere riconosciuti errori e oggettività.

Può succedere (o succede?), ad esempio, che anche nelle relazioni la verità non sia più considerata sostanziale e necessaria. Anzi, essa viene relegata nel novero di un elemento tra i tanti e trattata come tale. Così, viene svuotata di quella connotazione etimologica che la rende realtà che non può passare inosservata, o essere sottaciuta con disinvoltura.

La situazione diviene ancor più problematica, se pensiamo che può far balenare il principio “Auctoritas, non veritas facit legem” (L’autorità, non la verità fa la legge) di Thomas Hobbes (Leviatano, parte II, cap. 26). Che sarebbe come dire, semplificando, chi comanda in quel momento ha il potere di dichiarare ciò che è giusto e ingiusto, ciò che è vero o falso. Un aspetto sul quale siamo chiamati, come educatori, a una seria riflessione.

Ci muoviamo su livelli altri quando parliamo di verità della Scrittura, del magistero e, poi, del “sensus fidei”.

Il tema della Scrittura, come quello del magistero, ci porterebbero a un lungo trattato e lontano dalle esigenze di un’intervista. Pertanto, mi limito a dire che la verità della Scrittura e del magistero, pur essendo su livelli diversi, rientrano in un orizzonte credente. Tuttavia, suggerisco sempre di non rinunciare e di non rifiutare a priori gli interrogativi che, su questi temi, ci vengono seriamente rivolti da persone che non si pongono nella vita in termini di fede, di adesione esplicita ad un’appartenenza religiosa. Noi sappiamo che il dato umano è il punto di partenza per una seria riflessione sulla fede e sul credere (cf. Incontro di Gesù con la samaritana, Gv 4,1-26).

Il “sensus fidei” del popolo di Dio va coltivato e ascoltato, senza enfasi né superficialità, ma con la dovuta serietà che proviene dalla radice battesimale che fa di ogni cristiano una persona che partecipa del sacerdozio, della regalità e della profezia del Signore. Nessuno possiede la Verità, ma tutti insieme abbiamo il compito di cercarla, nel rispetto di ciascuno.

– Qualche decennio fa si parlava di verità e veracità (come atteggiamento). Ci sono patologie nel riferimento alla verità? Quale cura per il linguaggio della comunicazione della fede e per l’ascolto?

In parte ho già risposto a questa domanda. Posso aggiungere che i rischi di eccesso anche nel riferirsi alla verità esistono. Come rischi, che non significa che esistano e che abbiano raggiunto il livello patologico. Più che di cure, perché significherebbe che siamo in presenza di qualche malattia, parlerei di necessità di un maggiore coinvolgimento e di responsabilizzazione: famiglia, comunità cristiana, scuola, istituzioni educative di vario genere. Se non si crea una sinergia tra questi soggetti educativi, riesce più difficile formare le giovani generazioni all’ascolto, alla condivisione, all’accoglienza, al rispetto, all’inclusione. È una questione di umanità, Se manca la dimensione dell’umano, si complica anche l’educazione alla fede, perché le due dimensioni né sono giustapposte né procedono parallele, anzi si intersecano e si intrecciano continuamente nell’esperienza personale, nella vita comunitaria e sociale. Non viene prima la persona e poi la fede. L’esperienza di fede fa parte integrante della persona dall’inizio. Poi, le vicende personali possono racchiudere storie diverse, che vanno ascoltate, rispettate e accolte.

Raccontare la vita e sapere che qualcuno ci ascolta credo sia un’esperienza da incoraggiare, da promuovere, perché la narrazione fa crescere la fiducia in chi parla e in chi ascolta. Allora, la comunicazione della fede potrebbe diventare la narrazione di un incontro, con una persona che ci ha cambiato la vita, insegnandoci uno sguardo, parole, gesti di vita anche in situazioni di violenza e di morte. Sto parlando del raccontare la propria vita di fede come esperienza pasquale. Forse, sono queste le catechesi più efficaci, oggi. Papa Francesco ce lo ripete: il cristianesimo non è un insieme di regole e di dottrine, è l’incontro con una Persona viva, Gesù, attraverso la mediazione di persone vive, … e vere.

– La parola vera “in Ecclesia” come alimenta la parola vera nella città?

Ecclesia e città convivono sullo stesso territorio, non sono separate, dal momento in cui il Verbo è venuto ad abitare in mezzo a noi (cf. Gv 1,14). La casa di Dio è tra quelle degli uomini, e condivide con loro gioie e dolori, fatiche e speranze. Le strade che Dio percorre sono le medesime che risuonano dei passi delle donne e degli uomini di ogni tempo, che cercano, che si interrogano, che lo incontrano, lo riconoscono (cf. i due di Emmaus, Lc 24, 13-35), oppure non lo riconoscono e magari gli chiederebbero la carta d’identità. Non lo rifiutano, essenzialmente non lo conoscono.

Questa è la città in cui viviamo, con le luci e le ombre della storia e del quotidiano. Se i cristiani testimoniano la Verità, dall’Ecclesia, come un’iridescenza, si rifletterà anche nel tessuto della città. A questo proposito, vorrei concludere richiamando un testo della Chiesa della seconda metà del secondo secolo dell’era cristiana, che chiarisce il “come” posto nella domanda: «I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per costumi. Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita. […] danno l’esempio di una vita sociale mirabile, o meglio – come dicono tutti – paradossale. […] Vivono nella carne ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi».

La testimonianza in Ecclesia credo avrebbe qualcosa da dire anche alle nostre città, oggi. In questo orizzonte, mi riaffiora alla mente una frase dai discorsi del card. Martini, che mi sembra profetica, oltre che emblematica: «Compito culturale urgente – che accomuna la città con le sue decisioni politiche e la Chiesa con la sua funzione formativa – è quello di innescare un movimento di restituzione di stima sociale e di prestigio al comportamento onesto e altruistico, anche se austero e povero: “quanto è fortunata quella cittadinanza che ha moltissimi giusti” (Ambrogio, Caino e Abele, II,12)» (Discorso al Comune di Milano, 28 giugno 2002).

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