La croce, albero di vita

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Umanamente parlando, la croce è un albero senza radici, che non può dare alcun frutto; eppure, nell’ottica di Dio, le cose stanno diversamente: la croce non è albero sterile, ma fecondo (cf. 1Pt 1,18-19); non isterilisce, ma dà fecondità (cf. Gv 12,23-24). Tuttavia, solo allo sguardo di fede la croce cambia senso. Se non decifriamo la croce con l’occhio credente, essa non potrà significare che il segno della fine di Cristo, la sua umiliazione estrema, la forma della sua esclusione dalla comunità degli uomini. Ma la croce non è solo nel suo manifestarsi esteriore; essa esprime sensi opposti a quelli che le attribuiscono gli uomini.

Una sapienza diversa

La croce è paradossale. Lo è per tanti motivi. Per me lo è anzitutto per questo: il luogo in cui viene innalzato appare come un luogo di solitudine e d’abbandono, eppure,  a ben scrutarlo con l’occhio della fede, il Calvario è da ritenere il luogo più “affollato” della terra: c’è, in modo misterioso, l’intera Famiglia trinitaria; vi sosta Adamo come capostipite d’una famiglia di peccatori e giusti; vi aleggiano tutte le creature angeliche; vi sono presenti i due popoli di Dio: Israele e la chiesa, che sono riuniti in Maria, quale figlia di Sion.

È paradossale la croce; essa non disperde, ma raccoglie (cf. Gv 11,49-52); non abbatte, ma eleva: «Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). La croce mostra d’essere contraddittoria, ed è più che contraddittoria: è «scandalo e stoltezza»: alla stoltezza del patibolo romano s’è già ribellato il «greco», esteta e razionalista (cf. 1Cor 1,22).

Alla stoltezza del patibolo, in verità, si ribella anche la nostra cultura, e si ribellerà ogni tipo di cultura, perché alla pura ragione la croce non potrà non apparire quale essa è: un problema scandaloso. Non la croce, ma il miracolo di liberarsi da essa avrebbe indotto a credere il «greco» esteta e razionalista (cf. Mt 27,39‑44): e come potrebbe non ribellarsi alla croce la nostra civiltà, a suo modo greca, certamente congeniale col «greco» che si è ribellato alla croce di Cristo?

La scelta della croce è, perciò, la pratica di un profetismo dissonante dai canoni del “profetismo” mondano: è profezia dello stile di Dio che, nella rivelazione, mostra costantemente, in una difficile dialettica di somiglianza-diversità con l’avventura umana, di voler essere, ad un tempo, “vicinissimo” e “distante”, “uno di noi” e uno “totalmente altro”.

La croce, infatti, da un lato, è il segno d’una morte disumana (e perciò solo l’uomo poteva essere l’artefice di questo), ma, nello stesso tempo, è rivelatrice di una sapienza che non è congeniale con la sapienza dell’uomo, che anzi le è diametralmente opposta. L’interpretazione della croce è tutta in questa bipolarità di vicinanza-lontananza di Dio con l’uomo.

Il Vangelo della croce

La croce è la dimostrazione più alta che i pensieri e le vie di Dio non sono i pensieri e le vie degli uomini (cf. Is 55,8). La croce è profezia, è miracolo, è Vangelo. Essa è una parola non verbale pronunciata dalla santa trinità. In concreto, come s’articola la sorprendente profezia della croce? È certamente possibile rispondere a questa domanda in maniera articolata; ma basta forse darvi una risposta oltremodo semplificata, addirittura in forma litanica. La croce manifesta il suo carattere sorprendente e paradossale almeno in questi modi:

  • il simbolo dell’odio diventa il simbolo dell’amore;
  • il patibolo dei servi si tramuta in causa di liberazione;
  • il gesto dell’esclusione di Dio dalla storia comincia a indicare il più forte inserimento di Dio nella storia degli uomini;
  • il servizio dell’amore e del dolore ha ragione del potere gaudente;
  • l’umiltà di Dio sconfigge la superbia dell’uomo;
  • la morte viene privata della sua definitività;
  • all’uomo che vuole detronizzarlo, Dio reagisce elevandolo;
  • ciò che dicevamo stoltezza è sapienza;
  • ciò che sembrava il luogo della sconfitta è il luogo della vittoria;
  • quanto appariva dimostrazione di forza e di potere diventa svuotamento dell’una e giudizio dell’altro;
  • la conseguenza del peccato si fa inizio di grazia;
  • il sintomo della sterilità si cambia nel segno della nascita d’una nuova vita.

Cristo impone dunque alla croce una perdita ideologica, mentre l’arricchisce d’un acquisto profetico che consiste nel valore di salvezza che Gesù di Nazaret dà alla croce. Ci troviamo di fronte ad una ricreazione: Dio rivitalizza un albero già tagliato da mano d’uomo e fatto segno di morte, e lo ripianta, ne fa un “albero di vita”. È qui che comprendiamo che la croce possa esserci resa “comprensibile” nel senso di significativa e accettabile, solo con un’ermeneu­tica di fede: solo per questa via essa apparirà al cristiano come “parte” del mistero di Cristo.

I dolori di Maria

Maria sta sotto la croce come l’Addolorata, ma non significa come una donna che stoicamente attraversa gli anfratti del dolore. Maria non subisce un dolore generico né si macera in una sofferenza che nasce e finisce in lei: il puro dolore, in qualunque modo vissuto, non necessariamente è causa di salvezza; salva lo stare da credenti sotto la croce di Cristo per impossessarsi del suo dolore salvifico.

Un’osservazione: Maria non incomincia ad essere l’Addolorata sotto la croce: ella giunge sul Calvario già come donna che conosceva l’esperienza di soffrire per il Cristo. La Vergine era, per così dire, esperta nel dolore, quale connotazione della sua vocazione di Madre messianica. Il dolore di Maria conosce un’articolazione molto ricca. È noto l’elenco tradizionale dei sette dolori della Vergine Madre:

1) la profezia della spada, da parte del vecchio Simeone, che le avrebbe trafitto l’anima (cf. Lc 2,34-35);

2) la fuga in Egitto con Gesù e Giuseppe (cf. Mt 2,13-14);

3) la trepidazione per lo smarrimento di Gesù adolescente (cf. Lc 2,43-45.48);

4) l’incontro con Gesù durante la «via crucis» (cf. Lc 23,26-27);

5) l’assistere alla crocifissione del Figlio (cf. Gv 19,25-27);

6) l’accoglimento nel grembo di Gesù deposto dalla croce (cf. Mc 15,42);

7) la consegna al sepolcro di Gesù esanime (cf. Gv 19,40-42).

La pietà mariana e la riflessione credente, sulla scorta del Nuovo Testamento, ne aggiungono degli altri, tutti riportanti al rifiuto di Cristo. È soprattutto l’itinerario narrativo di Luca che ci fa conoscere la partecipazione, espressa o intuita, della Madre all’opera salvifica del Figlio:

1) la nascita di Gesù nel disadorno contesto d’una mangiatoia (cf. Lc 2,6-7);

2) la profezia di Simeone (cf. Lc 2,33-35);

3) la persecuzione d’Erode nei confronti del neonato Messia (cf. Mt 2, 13-14);

4 ) il rifiuto della sequela di Gesù da parte dei concittadini (cf. Lc 4,28-29);

5) l’arresto di Gesù e l’abbandono dei suoi discepoli (cf. Mt 26,49-50.56b);

6) la crocifissione (cf. Gv 19,25-27a);

7) la partecipazione di Maria alle sofferenze della prima Chiesa (cf. At 12,1-3.5).

Tuttavia, Maria sta nell’“ora” come l’Addolorata per eccellenza. Più di s. Paolo avrebbe potuto dire: «Io porto le stimmate di Gesù nel mio corpo» (Gal 6,17) ed è stato detto – a ragione – che ella «è la prima stimmatizzata del cristianesimo; ha portato le stimmate invisibili, impresse sul cuore, come si sa che è avvenu­to in seguito in alcuni santi e sante» (R. Cantalamessa).

Eppure i Vangeli (quello di Giovanni, ad esempio) non ci parlano neppure del dolore di Maria. Ci parlano, però (e questo è ciò che conta), della sua vicinanza, umana e di fede, a Cristo che muore: «Maria è “regina dei martiri” perché condivide, con un primato che è suo, il mistero di sofferenza e di amore che è appunto il mistero della croce di Gesù. E da questa condivisione, anzi in questa condivisione, l’andare salvifico di Maria raggiunge il suo vertice» (G. Moioli).

L’Addolorata, discepola e maestra

I discepoli sono duri ad accettare la mite potenza della misericordia e a recepire il discorso della croce. Maria, invece, realizza in pienezza il modello del discepolo che segue il Maestro fin sotto la croce, cioè nel luogo dov’è possibile misurare la maturità cristiana (cf. Cor 1,23). Maria è fra i pochi che riescono ad aderire a un Dio che si umilia, e accetta che Cristo ponga il perdono nell’ordine del principio.

Una domanda. Maria, che sotto la croce è certamente discepola, è anche maestra? La risposta è che l’Addolorata è una maestra in quanto discepola. E si può ancora chiedere: che cosa insegna di fatto? La risposta è che Maria, attivando questo efficace e splendido linguaggio non verbale, insegna non solo virtù, ma criteri esistenziali e leggi di storia della salvezza:

1) il coraggio: non si fugge di fronte all’«ultimo nemico» (1Cor 15,26);

2) la fedeltà: non s’abbandona nessun uomo, e meno ancora un figlio, nell’ora della morte;

3) la fede: non s’arretra dinanzi alla situazione-limite della morte perché non è la fine;

4) la coerenza: negando l’incontro con la morte, si rinnega il senso della vita e quanto s’è compiuto in termini di liberazione e di promozione;

5) la serietà: invece di discutere, affida al silenzio l’esperienza di testimonianza alla morte del Figlio, con quanto per lei significa;

6) la pazienza: non recrimina e non contesta i crocifissori del Figlio;

7) il paradosso: nel cuore dell’“ora” accetta il perdono come principio di vita.

Sulla croce, la cattedra più alta del mondo, Gesù è maestro della celebrazione di due amori: quello al Padre e quello agli uomini. Maria è presente come la migliore discepola del Cristo: perciò, da lei proviene un formidabile insegnamento discepolare. Maria insegna come si sta sotto la croce di Cristo. È l’intramontabile lezione dello “Stabat Mater”.

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