Roma e non solo: la “perdita del centro”

di:
porizio

Jorn Asger, Verlust der Mitte (1958) – S.M.A.K. collection.

Il comprensibile smarrimento percepito da confratelli e laici impegnati nel settore centro della diocesi del Papa nell’apprendere che, col Motu proprio del 1° ottobre, dal significativo titolo La vera bellezza, le parrocchie ad esso afferenti saranno assegnate ai settori indicati secondo i quattro punti cardinali (Nord. Sud, Est, Ovest), va accompagnato con una lettura culturale e direi teologica dell’evento che risulta emblematico e simbolico nel e per il nostro tempo.

La diocesi del Papa non può non essere paradigmatica per le Chiese altre. Si tratta di una presa di coscienza ineludibile, in quanto lo stesso documento, che prende le mosse da una riflessione sulla bellezza, destruttura in maniera decisamente innovativa non solo la diocesi romana, ma la nostra forma mentis e la costringe a misurarsi col contesto culturale e teologico che siamo chiamati ad abitare.

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Nel tentativo di percepire e cogliere il senso di tale proposta pastorale, a chi scrive non può sfuggire, proprio perché si parla di bellezza e di arte, la meditazione che evoca un elemento centrale della teologia fondamentale, alla quale mi sono per decenni dedicato: «La Rivelazione stessa, per sua natura, ha una tensione sacramentale che trova la sua più alta realizzazione nell’incontro personale con Cristo. A questa ambiziosa vetta tende tutto il dinamismo pastorale ed è questo il centro bellissimo da raggiungere, da contemplare e da custodire. C’è un tempo per desiderare l’incontro con Cristo, c’è un tempo per contemplare l’incontro con Cristo, c’è un tempo per custodire l’incontro con Cristo.

È chiaro che questo incontro, per i limiti della percezione umana, ha bisogno di uno spazio per realizzarsi, ma lo spazio è solo lo scenario in cui si gioca il tempo dell’incontro, poiché “il tempo è superiore allo spazio”. Tuttavia, mentre l’Eterno entra nel tempo, il tempo fatica a entrare nell’eternità; analogamente, i ritmi lavorativi dell’approvvigionamento, dell’apprendimento o dello svago, non sono più in armonia con i ritmi cosmici della natura e delle stagioni. Se i pastori non si rendono conto che il cambiamento d’epoca richiede una rimodulazione anche dei ritmi sacramentali e pastorali, il rischio è di risultare sterili. Occorre tenere conto dei ritmi del Popolo di Dio che abita in un determinato territorio parrocchiale e di orari più compatibili con i tempi di una famiglia».

Chi perde ritrova, nella logica evangelica. E la perdita del centro non può che stimolare un rinnovamento profondo che è innanzitutto culturale e spirituale. E a tal proposito viene in mente non solo il titolo, ma il contenuto di un libro fondamentale, che ha segnato la formazione estetico-filosofica di molti. Infatti, Hans Sedlmayr, nel suo famoso saggio Verlust der Mitte (del 1948) ha descritto questa situazione utilizzando il messaggio proveniente dalle arti figurative degli ultimi due secoli, nella consapevolezza, di cui è debitore a René Huyghe, che «l’arte è per la storia dell’umanità ciò che il sogno di un uomo è per lo psichiatra» e mentre «per molti l’arte è soltanto una distrazione ai margini della vita reale: non si rendono conto ch’essa giunge fino al cuore della vita, ne rivela i misteri ancora sconosciuti, ne contiene le confessioni più immediate e più sincere, perché più spontanee.

Nell’arte l’anima di un’epoca non si mette la maschera: essa cerca sé stessa, si manifesta con quella prescienza tipica che scaturisce dalla capacità recettiva e dalla fantasia». E l’arte, interrogata intorno all’anima della nostra epoca, ispira e al tempo stesso conferma la tesi di Majakowski, che, nell’Inno a Satana, aveva scritto: «Tutti i centri sono in frantumi, non esiste più un centro». «E gli artisti del diciannovesimo secolo, gli spiriti grandi e profondi appaiono spesso come esseri che vengono sacrificati e si sacrificano».

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Ma qui si tratta non di fruire del bello, ma di farne esperienza profonda a partire dal volto degli ultimi e dal loro grido. A tal proposito ho trovato estremamente emozionante e coinvolgente la mostra, intitolata “Il grido interiore” (Edvard Munch), visitata di recente al palazzo reale di Milano. Bisognerà, quindi, prendere sul serio la frammentazione senza rassegnarsi ad essa, come cerca di fare il Motu proprio. Di fronte ai frammenti di esistenza che abbiamo di fronte e dentro di noi, anche dal punto di vista pastorale, dovremmo chiederci: che ne facciamo? Li cestiniamo e continuiamo a riferirci a un centro tanto disabitato quanto soltanto esteticamente significativo, o ci chiniamo su di essi per illuminarli anche con i riverberi di luce che da qual centro promanano?

Spesso, attraversando il centro di Roma e visitando le sue chiese, mi viene in mente il famoso dettato hegeliano: «Le statue sono ora dei cadaveri ai quali è fuggita l’anima avvivatrice, e gli inni parole alle quali è fuggita la fede; le mense degli dei sono senza cibo e bevanda spirituale; e dai suoi giochi e dalle sue feste non ritorna alla coscienza la gioiosa unità di se stessa con l’essenza. Alle opere della musa manca la forza dello spirito a cui dal frantumarsi degli dei e degli uomini derivò la certezza di se stesso. Esse sono ora, quel che sono per noi, bei frutti distaccati dall’albero: un destino amico ce li porse, come una fanciulla suole presentarli; non c’è la vita effettuale della loro esistenza, non l’albero che li produsse, non la terra né gli elementi che costituirono la loro sostanza, né il clima che costituì la loro determinatezza, né l’avvicendarsi delle stagioni che dominarono il processo del loro divenire. Così il destino con le opere di quell’arte non ce ne dà il mondo, non ci dà la primavera e l’estate della vita etica dov’esse fiorirono e maturarono, ma soltanto la velata reminiscenza di questa realtà» (Fenomenologia dello spirito, “La religione disvelata”).

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Ed ecco che, per ritrovare il senso dell’albero e della vita, dobbiamo decentrare la nostra prassi pastorale, ma prima ancora la nostra mente, con tutto quanto ciò può significare anche in rapporto alla necessità per la fede di andare oltre e varcare i confini culturale della cultura europea e occidentale, continuando tuttavia a custodirne il messaggio, che costituisce un baluardo necessario contro ogni fondamentalismo e integralismo con la sua razionalità critica e il suo senso del bello classicamente inteso. Lo abbiamo imparato anche dal fatto, a mio parere difficilmente confutabile, del grande successo che il viaggio di papa Francesco ha riscosso in estremo Oriente rispetto al deludente (in termini di consenso mondano, ma di fronte a Dio non possiamo certo dirlo) incontro con la realtà europea, in particolare accademica ed intellettualistica.

Dobbiamo a questo punto chiederci se il clero e i laici impegnati siano veramente pronti a recepire questo input e queste sfide o se non prevalga la sterile nostalgia di un passato rigido e sclerotizzato, che col suo peso rischia di sterilizzare il nostro impegno nella evangelizzazione e nell’animazione culturale. Di qui la necessità di avviare processi formativi a partire dalla consapevolezza che il frammento è una risorsa, non un eventuale scarto da rottamare e calpestare. Il documento sostiene che non si tratta di chiudere il centro, ma di aprirlo al contesto della città, in modo che essa non risulti autoreferenziale. Questa come ogni riforma strutturale ora è affidata a quanti la dovranno applicare: laici, diaconi, presbiteri e vescovi e l’auspicio, intriso di speranza giubilare, è che si possa passare dal centro perduto al centro ritrovato e rinnovato.

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